52/2020

2020-05-06

INTERNATIONAL CALL FOR PAPERS

52 / 2020
CORONAVIRUS, CITTÀ, ARCHITETTURA
Prospettive del progetto architettonico e urbano

Convegno e pubblicazione a cura di Carlo Quintelli, Marco Maretto, Enrico Prandi, Carlo Gandolfi

ABSTRACT
Questa call ha l’obiettivo di sollecitare la riflessione critica e propositiva da parte della cultura architettonica, ed in particolare quella del progetto architettonico e urbano, sui fenomeni innescati dalla pandemia da coronavirus la quale, mentre scriviamo questo testo, ci vede ancora in una fase di emergenza ma anche rivolti ad un domani su cui già da ora si sta sviluppando un variegato immaginario di scenari e prospettive. Un contributo che per altro vorrebbe compensare la marginalità delle nostre conoscenze attive rispetto ad altre oggi assai più chiamate a dare risposte, non solo per l’immediato, tra bio-medica e farmacologia, nuove tecnologie, economia e comportamento sociale. Il problema coronavirus, o meglio un quadro di fenomeni che sono effetto ma anche causa di quel problema, da affrontare sempre più nell’ottica globale senza dimenticare di trovare non minori risposte nella dimensione locale, sicuramente coinvolge aspetti collegati e fortemente incidenti sulle logiche insediative e dell’abitare lo spazio costruito così come di natura sociale, ambientale ed in particolare climatica. L’apporto delle forme architettoniche e urbane non sarà di poco conto quindi nel contribuire ad una efficace risposta al problema pandemico, da intendersi in un’accezione non solo virale. E questo se sapremo proporre modelli nuovi o ritrovati, tra futuribile e tradizione storica, attraverso un processo di circostanziata critica alla dinamica neo-liberista di intendere la città e la sua architettura e in generale riguardo a tutto il territorio nel delicato rapporto tra antropizzazione e natura. Si tratta allora di comprendere, ricercare ed elaborare strategie insediative, modalità dei flussi, assetti e forme urbane, nuove tipologie dalla cellula abitativa agli spazi e alle strutture collettive, secondo una logica multiscalare in grado di incentivare la sistematicità del progetto quale presupposto ad una sua efficacia strategica, sia rispetto all’emergenza prossima ventura che ad un miglioramento complessivo della vita urbana all’interno di una (solo) riformata “normalità”.

TESTO
Se si considera lo spazio quale materia prima del progetto architettonico e urbano, la cui definizione in forma compiuta ha in gran parte contraddistinto l’identità materiale e l’espressione civile dei processi sociali, ci possiamo da subito domandare se la pervasività e la forza dell’incidente storico della pandemia da coronavirus possa, o forse meglio debba, aprire una nuova fase nella concezione dello spazio abitato a tutte le scale e in tutti i contesti della geografia globale. La questione può essere quindi riconosciuta in termini epocali, cioè secondo una prospettiva di significativo se non radicale cambiamento?
D’altra parte è fuori di dubbio che il fenomeno della pandemia, già ieri, ancora oggi non meno che domani, si inquadra all’interno di criticità planetarie evidenti e con pesanti ricadute negative per le realtà locali: sui piani sociale, economico, ambientale, climatico a cui fa da sfondo un trend di crescita demografica incontrollata in molte parti del pianeta. Non meno incontrollato è il rapporto tra antropizzazione e logiche insediative, secondo un uso dello spazio più corrispondente all’opportunismo dello sfruttamento, sotto le sue diverse forme, che al soddisfacimento dei bisogni primari dell’intera popolazione intesa nelle sue differenti articolazioni culturali e di identità civile.
La questione dello spazio prossimo venturo su cui vorremmo interrogarci si colloca quindi all’interno di un quadro fenomenologico molto vasto, le cui contraddizioni si evidenziano proprio attraverso l’emergere del virus, che da una parte ci rivela, se ce ne fosse bisogno, il corollario di condizioni critiche di cui la pandemia è soprattutto effetto piuttosto che causa, dall’altra ci porta su una dimensione così complessa e multifattoriale dove, bisogna ammetterlo, non è facile delineare e dare effetto all’agire del progetto sul piano di una rinnovata razionalità.
Appare altresì evidente, in questo frangente sanitario capace di coinvolgere il nostro stesso corpo e i luoghi in cui vive, ma anche di determinare reazioni e liberare energie, possiamo dire, dell’intero genere umano, che la componente architettonica e urbana, in quanto scienza applicata alla progettazione dello spazio abitato, sia percepita come laterale e accessoria, non figurando nel paniere degli ambiti scientifici chiamati a dare risposte a breve e a lungo termine quali quello ovviamente epidemiologico e sanitario in genere, ma anche economico, statistico anziché socio-politico e delle forme istituzionali, psicologico, della comunicazione e non di meno delle nuove tecnologie e delle scienze ambientali. D’altra parte ciò risulta evidente non da ora solo se, ad esempio, riscontriamo la totale assenza di “architecture and urban spaces” all’interno dei topics di ricerca caratterizzanti la missione dell’ERC (European Research Council).
In realtà la scienza architettonica e urbana, e la strumentazione del progetto che le è intrinseca, concorre significativamente alla determinazione delle modalità insediative concentrate, di natura urbana, o diffuse, con il coinvolgimento dello spazio territoriale, quindi all’organizzazione dei comportamenti e delle funzioni sociali, al rapporto tra spazio antropizzato e spazio naturale, in generale alle forme di vita e quindi al benessere della popolazione. Una scienza, come dimostra la sua tradizione storica che a partire dalle critiche all’urbanesimo ottocentesco attraverso i modelli della modernità industriale e i nuovi standard di igiene pubblica della città, arriva sino alle sperimentazioni dell’abitare collettivo, del disurbanesimo anziché della riscoperta della dimensione morfologica e di vita della città storica. Un laboratorio ricco di apporti critici non meno che propositivi sulle modalità di organizzazione e messa in forma dello spazio costruito che pare aver perso il suo ruolo sulla scena della progettualità pubblica. E su questo dovrebbero scaturire ulteriori interrogativi, e forse un’autocritica, sulle cause di questa lateralità scientifica coltivata, tra le atre cause, attraverso la banalizzazione del mestiere o una pseudo-scientificità costruita a livello massmediatico che ad esempio promuove presunte sostenibilità ambientali in realtà solo idonee a raccogliere il consenso più ingenuo.
Il progetto architettonico e urbano non può in questo frangente essere chiamato solo a ribadire l’auspicio generalizzato del cosiddetto ritorno alla “normalità” anziché ad una generica “ripartenza”, parole d’ordine queste che certo non aiutano ad analizzare e a fare qualche passo in avanti, tra consapevolezza ed autentico approfondimento critico, sugli indirizzi e sui criteri più adeguati a fronteggiare lo stato di criticità attuale ma soprattutto futuro e non solo in termini di rischio pandemico.
Partendo quindi da un punto di vista non immedesimato e piuttosto mirato a comprendere la natura strutturale delle questioni aperte, si delineano due ordini distinti ma complementari del problema, da affrontare a partire dalla contingenza “coronavisus”.

Il primo è quello della predisposizione di criteri e strumenti che le forme dello spazio antropizzato possono assumere per affrontare e rendersi il più possibile resistenti e resilienti a fenomeni di questa natura, senza dimenticare altre cause di determinazione del rischio alla scala globale, a cominciare dal cambiamento climatico. È la dimensione di una architettura e di una città predisposta alla difesa e quindi in grado, a complemento di altri fattori organizzativi e di predisposizione funzionale e materiale, di far fronte all’emergenza riducendone gli effetti negativi e i costi sociali conseguenti. Spazi ed attrezzature urbane collettive, predisposizione e polifunzionalità di luoghi e architetture nella città, configurazione previdente degli alloggi e dei luoghi di lavoro progettati capaci di realizzare in modo sistemico la migliore risposta possibile alle emergenze che verranno. Una riflessione che non può che essere multiscalare, dall’architettura alla città, ma potremmo anche dire dall’interno all’esterno: dall’architettura dell’abitare che interessa noi tutti come utenti di spazi domestici che in questa situazione sono stati messi alla prova duramente e dove emerge il tema di un “Existenzminimum” idoneo anche a condizioni di segregazione/quarantena, fino agli spazi della città anch’essi investiti da esigenze tipologicamente non previste, a cominciare dagli ospedali, ma anche del commercio, delle scuole, dei luoghi di lavoro, e dove il tema della predisposizione alla rapida trasformabilità della città in condizioni di emergenza può essere inserito tra le strategie del progetto da mettere a punto. In termini architettonici e spaziali (e non solo concettuali) si tratterebbe di valutare una sovversione tra pieni e vuoti, di alterazione temporanea delle densità di usi e popolazione degli spazi stessi. Ecco che il quartiere residenziale e il singolo alloggio non saranno più solo luoghi di abitare, ma anche luoghi di lavoro e che sarà necessario riflettere sul cambio di gradiente sulle dotazioni dell’immediato comunitario abitato.

Il secondo riguarda maggiormente le cause profonde che generano il rischio pandemico (e non solo) a cui anche le forme insediative e i luoghi abitati e comunque antropizzati di fatto contribuiscono, come dimostra la genesi del coronavirus non a caso sortito dalla metropoli di Wuhan e in potenza dei tanti urban village che ne costituiscono il volto marginale e degradato. Un tema questo che da una parte evidenzia il problema delle criticità produttive e socio-abitative dei grandi agglomerati urbani, capaci di forte attrazione sia dal contesto globale che dalle aree rurali locali, secondo una complementarietà tra povertà e ricchezza funzionale al regime metropolitano ma a rischio di cortocircuito sociale anziché sanitario, dall’altra di un’antropizzazione diffusa ed aggressiva dello spazio naturale sia in chiave di speculazione insediativa ma soprattutto di sfruttamento produttivo (tra agricoltura ed allevamento animale) in grado di alterare equilibri ambientali e socioculturali, con forti ripercussioni anche sul problema dell’inurbamento incontrollato, avviandosi così un perverso sistema circolare di causa effetto. Rispetto a questi fenomeni, dai risvolti fortemente distopici, la struttura spaziale, le forme costruite e i regimi funzionali della città e del territorio dovrebbero tornare al centro dell’attenzione scientifica secondo l’ottica di una pianificazione planetaria ma aperta alle tante diverse realtà dei contesti locali.
Dobbiamo per altro essere consapevoli che l’emergenza pandemica ha costretto il mondo a forzare situazioni tradizionalmente resistenti al cambiamento, a crearne di nuove, a rompere tutta una serie di assetti consuetudinari. Così sperimentando forme inedite, almeno in diversi contesti a partire da quello lavorativo, soprattutto attraverso l’uso delle tecnologie digitali caratterizzanti l’ICT (Information and Communications Technology). Grazie alla tecnologia è possibile lavorare a casa con i vantaggi delle ore guadagnate ai trasferimenti da poter destinare al tempo libero, allo sport, alla famiglia, spesso a vantaggio dell’economia domestica. Non trascurabili poi i vantaggi per l’ambiente in termini di emissioni inquinanti, o riguardo alla produttività aziendale e di servizio attraverso quello smart working che pare registrare, in certi settori, significativi risultati. Una prospettiva questa sorretta da un concetto di simultaneità, di compresenza, di “ubiquità virtuale”, tanto da far intravedere un “ritorno” a quelle condizioni di unitarietà, di totalità non-specializzata, tipica delle società premoderne. Condizioni di vita in cui i tempi e i luoghi delle attività quotidiane, potrebbero essere meno separate, ordinate, per categorie funzionali ma bensì per “valori di priorità” nella simultaneità della loro esperienza. Una scala del quotidiano secondo un’idea di “villaggio”, anziché di vicinato, strada o rione, che prevale su tutte le altre, che vede il ridursi radicale dei raggi quotidiani di spostamento a presupposto di un nuovo paradigma socio-insediativo in alternativa ai fenomeni dei quartieri dormitorio delle periferie urbane. Certamente limitando gli spostamenti, ma come farlo senza per altri versi intaccare l’assurda retorica dell’infinita libertà di spostamento? Quella che, se pensiamo, ha fatto proliferare un turismo low cost che in vent’anni ci è costata l’aggressione letale a città come Venezia, il traffico aereo di milioni di voli riempiti di trolley e persone e merci del qualsiasi e ovunque.
In questo scenario, alla scala architettonica emerge l’esigenza di ripensare gli spazi dell’abitare, tornando ad includervi quegli “spazi del lavoro” che la cultura moderna aveva espulso per almeno un secolo dalla casa (la bottega, il laboratorio, lo studio sono stati da sempre parte integrante dell’abitazione). Non a caso da tempo ormai tutte le strategie dell’E-commerce vanno in questa direzione, attraverso il progressivo utilizzo dei device, le consegne a domicilio (locker, delivering e pickup points, hub ecc.) e dove il marketing si orienta verso strategie multi-tasking e multi-purpose in cui lo spazio pubblico urbano è il luogo dell’ibridazione dell’esperienza, tra shopping, leisure, tempo libero, servizi. Un sistema di comportamenti urbani, individuali e collettivi, non privo tuttavia di risvolti contraddittori ed inquietanti, legati all’idea di un cittadino innanzitutto consumatore e di una, bio-politicamente intesa, amazonizzazione delle forme di vita in cui lo spazio domestico, in certe condizioni, assume la dimensione alienante di una socializzazione solo virtuale e regimata dai device tecnologici. E dove si prospetta una ridefinizione del limen tra categorie semanticamente fraintese come necessario, urgente, indispensabile, utile, superfluo, routinario, tutte drogate nel loro portato concettuale, contenutistico e operativo dai modelli dell’induzione consumistica di matrice neo-liberista.
Non meno coinvolti in questo immaginario gli spazi collettivi in cui vivere “collaborativamente” l’esperienza della città in particolare sul piano abitativo e del lavoro, della sostenibilità ambientale (contenimento e produzione energetica, raccolta dei rifiuti, gestione della risorsa dell’acqua ecc. ecc.) ma anche di una morfologia urbana pensata per un nuovo senso di comunità e di rivalutazione dello spazio-tempo nel presente.
In ogni caso, aldilà delle formule adottabili, non ci sono più giustificazioni per la crescita incontrollata degli insediamenti umani sul territorio, non c’è più spazio per la cosiddetta “città informale”. Certo la città, come la società, dell’Information and Communications Technology potrebbe essere la più libera, la più adattabile, la più efficiente (e forse la più ricca) solo se rinuncerà, a priori, ad alcuni gradi di (presunta) libertà incondizionata, quelli che le pratiche neoliberiste hanno portato verso criticità incontrollabili in diversi ambiti e non meno in quello dello sviluppo insediativo.
Ma come poter ridefinire in termini di prossemica spaziale un’idea di città animata da effetti comunitari e al tempo stesso capace di produrre individualità protette ma partecipi? Per esemplificare, come se il carattere aggregativo che troviamo insito nell’orizzontalità perimetrata degli spazi collettivi di matrice storica, possa essere sovvertito da inspessimenti architettonici che vedano profonde logge abitabili contornare (e proteggere al tempo stesso) i perimetri dei volumi edificati, e il contatto visivo tra persone e nuclei famigliari che popolano questi spazi di transizione possa generare nuovi modi di relazione (solo abitando di giorno l’appartamento in una città si ha l’opportunità di vedere, ovvero conoscere visivamente e dialogare con la comunità che si affaccia sulla strada, sulla corte, sullo slargo, scambiando opinioni, consigli, impressioni, ascoltando da un lato il silenzio della città e, dall’altro, esperendo le nuove abitudini degli abitanti). Si prefigurano così nuove tipologie ma anche nuove figure dell’architettura e della scena urbana, nuovo paesaggio.

In questa duplice pur unitaria visione del problema, così come emerge dal fenomeno “coronavisus”, diventa però necessario superare i luoghi comuni dell’architettura e della città sostenibile, di cui è emblematica la mitigazione del verde sino al paradosso della sua verticalizzazione, per individuare a fondo i possibili temi su cui incentrare alternative reali e capaci di incidere su entrambi gli ordini e i tempi del problema, considerandoli come parte di un unico processo il più possibile coerente, di natura olistica, di costruzione paziente, attraverso una dialettica in cui conoscenza e progetto siano alla base di un avanzamento logico progettuale non modellistico.
L’obiettivo di questo invito, a partire da alcuni ragionamenti finalizzati solo a stimolare coloro a cui è rivolto, è quello di realizzare un primo corollario di analisi propositive che apra e solleciti la definizione di una prospettiva chiara e ineludibile del contributo della progettazione architettonica e urbana ormai improcrastinabile e il più possibile sistematico e generalizzabile pur nelle declinazioni che le condizioni locali del mondo globale potranno mettere positivamente in campo.
Cosa dobbiamo imparare da questa situazione di emergenza e da ciò che è sottinteso? Quali aspetti di inadeguatezza ha mostrato l’architettura e la città in questa situazione? Quali temi e obiettivi andranno individuati e che tipi di strategie del progetto dovranno essere sviluppati secondo prospettive di breve, medio e lungo termine?

PARTECIPAZIONE
La partecipazione alla call è aperta a studiosi di architettura (dottorandi, ricercatori, professori e architetti) nazionali ed internazionali.

La call è strutturata in due fasi:
- una prima fase (proposta abstract) in cui gli studiosi dovranno caricare sulla piattaforma un file Word contenente un abstract di 3.000 caratteri, 5 parole chiave e la biografia dell’autore/i;
- una seconda fase (proposta full papers) successiva alla selezione degli abstract, in cui gli studiosi dovranno caricare sulla piattaforma il full paper di 12/14.000 caratteri, completo di nuovo abstract da 800 caratteri, 5 parole chiave, bibliografia e biografia dell’autore/i.
Gli articoli devono essere accompagnati da min 1, max 5 immagini. Dovrà essere indicata l’immagine simbolo da associare al saggio).

I papers selezionati saranno sottoposti alla procedura di double-blind peer review.
L’esito della selezione e i giudizi della peer review saranno comunicati via mail all’autore dell’articolo.
È possibile presentare l’abstract in una delle due lingue della rivista (italiano o inglese): in ogni caso, essendo FAM rivista bilingue, il full papers finale dovrà essere fornito anche con traduzione nella seconda lingua.
Sia l’abstract che il full paper sono da scrivere direttamente nel template Word scaricabile dalla piattaforma.

Per ulteriori indicazioni riguardo le procedure di selezione vedere la sezione Editorial policies

Per ulteriori indicazioni riguardo l’invio della proposta vedere la sezione Proposte

SCADENZE
L’upload dell’abstract va effettuato entro e non oltre il 30 maggio 2020.
Per le scadenze successive vedere la Timetable riassuntiva

PUBBLICAZIONE ARTICOLI
Il curatore/i del numero, di concerto con la direzione, effettuerà la selezione degli abstract seguendo criteri di originalità e pertinenza rispetto al tema, organicità del numero e dimensione del fascicolo per un massimo di 20 articoli.
La pubblicazione avverrà nel n. 52 del 2020.

CONVEGNO
Nel periodo di pubblicazione del numero, compatibilmente con la situazione di emergenza generale, verrà organizzato un convegno al quale saranno invitati gli autori degli articoli selezionati.

TIMETABLE RIASSUNTIVA
27 aprile 2020 Lancio call
30 maggio 2020 termine ultimo per l'invio degli abstract;
6 giugno 2020 termine ultimo per la comunicazione della selezione degli abstract;
16 luglio 2020 termine ultimo per l'invio del full text nella prima lingua (italiano o inglese);
30 agosto 2020 termine ultimo per la comunicazione dell’esito peer review full text;
14 settembre 2020 termine ultimo per l'invio del full paper tradotto (nel caso di Giudizio A)) o eventualmente modificato (nel caso di Giudizio B))
15 ottobre 2020 pubblicazione numero

Pubblicazione nel numero 52/2020

 

Info: redazione@famagazine.it

 

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