Tra Archè e Techne. Sottili equilibri nell'opera di Oton Jugovec

Claudia Pirina


Se ascoltiamo con attenzione gli scrittori e i pensatori del ventesimo secolo quando si esprimono sul concetto di modernità e li paragoniamo ai loro omologhi del secolo precedente, ci accorgeremo di un radicale appiattimento prospettico e di una riduzione di potenzialità inventiva (Berman, citato da Nicolin 1989, p.5).

Sul finire degli anni ’90, Pierluigi Nicolin inizia l’editoriale del numero 64 della rivista “Lotus” con alcune parole del filosofo statunitense Marshall Berman che, nei suoi testi di quegli anni, proponeva una serie di riflessioni su l’esperienza della modernità, partendo dalla lettura del lavoro di alcuni maestri e del loro speciale rapporto culturale con alcune città. Il numero di “Lotus”, intitolato L’altra urbanistica, è introdotto da un interessante saggio di Manuel de Solà Morales nel quale l’architetto catalano rilegge, in chiave di una tradizione “altra”, una serie di progetti urbani contemporanei di «urbanisti dell’‘altro moderno’, al tempo stesso entusiasti e nemici della vita moderna, [che] hanno saputo coglierne le ambiguità senza rinunciare a superarle» (Nicolin 1989, p.5). Il riesaminare le origini di alcuni fenomeni a lui contemporanei aveva il senso di porre l’attenzione sul lavoro di alcune figure di progettisti interessati a individuare un metodo capace di interpretare la modernità nel segno della complessità e della sovrapposizione alla città preesistente «e perciò stesso teso a cercarne la trasformazione più rigorosa» (De Solà Morales 1989, p.8), lontano dalle astrazioni e assolutismi di quella corrente della modernità sorta, secondo De Solà Morales, dopo il Congresso del Ciam del 1929. La capacità dei progetti selezionati di lettura dei contesti e delle specifiche condizioni «di ogni parte urbana, avendo come prospettiva la grande città come artefatto complesso sempre più ricco e differenziato» (ibid) portava all’attenzione «una storia complessa come quella dell’architettura del Novecento in cui avanguardia e tradizione si intrecciano spesso nelle realizzazioni dei medesimi protagonisti e le idee passano attraverso relazioni personali che travalicavano le posizioni ‘di facciata’» (Ferlenga 2022, p.23).

Nel panorama dell’architettura slovena di quella che è stata definita la terza generazione di architetti, Oton Jugovec può essere considerato come quella figura la cui sensibilità, insieme con una conoscenza profonda delle proprie origini, hanno dato luogo ad architetture in cui il rispetto della tradizione e il dialogo con le radici del territorio hanno «garantito una continuità in evoluzione» (Zorec 2020). Con il suo lavoro Jugovec ha saputo raggiungere un equilibrio tra modernità e patrimonio rurale, artistico e architettonico locale, sperimentando, nel tempo, tecniche e forme della modernità alla ricerca di un proprio distintivo linguaggio. L’evoluzione del suo lavoro riflette da un lato le conoscenze acquisite nei primi anni della formazione all’Università Tecnica di Praga, dall’altro le influenze della Facoltà di Architettura di Lubiana e del suo maestro Edvard Ravnikar. Se dall’ateneo di Praga ha ereditato «una solida educazione tecnica e disciplina lavorativa» (Zorec 2000-2001, p.139), nella facoltà di Lubiana ha potuto incorporare istanze sia di respiro mitteleuropeo, che moderniste. L’istituzione dell’ateneo lubianese ad opera di Ivan Vurnik e Jože Plečnik erano state caratterizzate infatti da un respiro mitteleuropeo «che avrebbero fortemente segnato tutta l’evoluzione della susseguente architettura slovena» (Mercadante 2023, p.2) attraverso l’opera di Otto Wagner, di Adolf Loos, di Peter Behrens o l’interesse per l’Espressionismo e il Bauhaus, o per le grandi strutture degli Höfe viennesi (ibid). Tra gli anni ‘29 e ‘40 del Novecento tuttavia una serie di architetti sloveni, tra cui Ravnikar, aveva frequentato lo studio di Le Corbusier (Hrausky 1993, p.37) importando le istanze del Modernismo, successivamente ibridate dalla vicinanza e dal rapporto con modelli architettonici nordici scandinavi, anche attraverso il lavoro svolto all’interno della rivista “Arhitekt” (fig. 1). La figura di Ravnikar, e della sua cerchia culturale, può essere considerata il perno di un’opera di internazionalizzazione e di scambi culturali che, in alcuni esponenti dell’architettura slovena, hanno reso possibile nel tempo quel processo di invenzione della tradizione descritto e definito da Eric Hobsbawm (Hobsbawm 1987).

In particolare nell’opera di Jugovec è possibile riconoscere una sorta di evoluzione del pensiero che, passando da un iniziale atteggiamento esplicitamente modernista[1] approderà a una sintesi tra architettura moderna e tradizione slovena, in cui le forme dell’antico costruiranno sottili equilibri con quelle del nuovo e, in cui, il rapporto con il luogo e l’ambiente acquisirà progressivamente un ruolo centrale per il progetto. Nella sua ricerca di un linguaggio capace di rappresentare il genius loci e un’identità sloveni, il luogo rappresenterà «quella parte di verità che appartiene all’architettura […], la manifestazione concreta dell’abitare dell’uomo la cui identità dipende dall’appartenenza ai luoghi» (Norberg-Shultz 1979, p.6).

Costruzione e luogo

Nel lavoro di Jugovec alcuni temi possono essere individuati come centrali nella sua ricerca e utilizzabili come chiavi di lettura e interpretazione per le sue opere. Nei suoi progetti la definizione della forma può essere compresa solamente come il risultato di una sintesi di rapporti tra “costruzione” e “luogo”, intesi secondo molteplici accezioni. Tale sintesi, che «partendo da elementi semplici e parziali, giunge a una rappresentazione o a una conoscenza complessa e unitaria»[2], costituisce elemento di interesse e innovazione individuabile come metodo ancora fecondo per nuovi futuri esiti progettuali.

La sperimentazione sulla forma cerca e trova ragioni profonde nel rapporto con la costruzione, intesa nel senso strutturale, ma anche della scelta dei materiali e del controllo preciso dei particolari architettonici che contraddistinguono le parti dell’edificio. In tal senso, ancora una volta, la formazione dell’architetto ha costituito un importante punto di partenza, sia attraverso gli insegnamenti della scuola di Praga, ma soprattutto quale esito del dibattito sviluppato a Lubiana a partire dagli anni ’50. Se verso la fine degli anni ’40 è la normativa del governo della FLRJ [Federativna ljudska republika Jugoslavija] a definire gli architetti come appartenenti alla categoria dei costruttori, sarà Ravnikar, proprio negli anni seguenti, a rivendicare uno statuto e un ruolo “altro” per la figura dell’architetto (Mercadante 2023, p.6-8). In quel particolare momento storico per la Slovenia che richiedeva la rapida ricostruzione di tessuti produttivi, viabilità e abitazioni, Ravnikar, nonostante sviluppasse ricerche specifiche sulla prefabbricazione e sulla costruzione di modelli architettonici e strutturali sperimentali, sottolineava parallelamente l’importanza per l’architetto del ruolo di intellettuale, di creatore di spazi. Secondo la sua opinione, tale capacità

richiede […] un’osservazione dei fatti sociali e una specifica preparazione, unite però a capacità creative e senso estetico. L’architetto dunque, al di là della propria funzione tecnica, è anche creatore di valori culturali, come gli scrittori, gli scultori o i musicisti crea cultura (Ravnikar 1951).

Le opere di Jugovec risentono fortemente di questa apertura culturale, incorporando alle precise conoscenze tecnico-scientifiche i suoi interessi per la poesia e la musica «in cui si muoveva con uguale sicurezza» (Ravnikar 2000-2001, p.5) e con spirito innovatore.

La componente tecnico-strutturale accompagnerà tuttavia la sua ricerca architettonica, congiuntamente all’interesse per lo «sviluppo parallelo e simultaneo e […] valorizzazione soggettiva di tutti i componenti che creano lo spazio esterno e interno [che] è il seme della propria espressione» (Jugovec, in Zorec 2000-2001, p.139). Tutta la produzione di Jugovec tenderà a bilanciare struttura, costruzione e geometria, nel tentativo di «trovare il suo potenziale poetico come struttura espressiva e come sistema di costruzione» (Frampton 1987, p.21), disegnando ogni minimo dettaglio[3], come appreso da Ravnikar e nei primi tre anni di studio nell’ateneo di Praga[4].

La sua sperimentazione costruttiva inizierà con una prima fase dominata dall’uso del calcestruzzo e di strutture anche prefabbricate che, passando attraverso una rarefazione delle forme e una ricerca sulla levità, approderanno progressivamente all’utilizzo del legno come materiale costruttivo individuato probabilmente come più incline a rappresentare la cultura e tradizione slovena. L’utilizzo del legno infatti, se da un lato può essere letto nel segno di quell’influenza precedentemente citata dell’architettura nordica sviluppatasi all’interno della scuola di Lubiana, dall’altro recupera non solo le tradizioni popolari dell’architettura del luogo, ma anche gli studi intrapresi da Jugovec sul design in generale e i lavori esposti da numerosi architetti sloveni in alcune edizioni della Fiera Internazionale del legno di Lubiana, i cui esiti furono anche pubblicati su alcuni numeri della rivista “Arhitekt”.

Tale evoluzione del pensiero, e del metodo di definizione della forma, manifesta un graduale allontanamento dai modi della standardizzazione internazionale, nell’intento di sviluppare un’architettura capace di estrarre e astrarre principi e forme derivate dallo studio di epoche precedenti, e della tradizione del luogo, per «tenere pienamente conto delle mutevoli condizioni atmosferiche e topografiche di un paese, che non sono più ostacoli ma trampolini di lancio per l'immaginazione creativa» (Giedion 1960). Nell’insediarsi in un luogo, memoria e natura giocano così un ruolo altrettanto fondamentale rispetto a quello costruttivo. La memoria dei luoghi, e delle tracce in esso presenti, si coniuga con l’interesse e la capacità di definire, nel progetto, rapporti simbiotici tra architettura e natura considerata, «in modo simile ad Aalto, […] simbolo di libertà» (Zorec 2000-2001, p.147).

Il tetto come riparo

Nel famoso articolo di Jørn Utzon intitolato Platforms and Plateaus: Ideas of A Danish Architect (Utzon 1962), l’architetto danese descrive l’ispirazione della propria architettura nella strana opposizione tra il tetto-pagoda cinese e la piramide messicana che si traducono nella definizione di suoli-basamenti variamente articolati e coperture sospese in forma di riparo. I suoi suggestivi schizzi raccontano di mondi in cui, su rigidi e orizzontali basamenti, fluttuano pagode sospese capaci di accogliere spazi abitabili e, contemporaneamente, di “incorporare” metaforicamente il paesaggio.

Tale suggestione, e tali schizzi, ben rappresentano la serie delle architetture di Jugovec che articolano variabilmente il tema della copertura e che possono essere utilizzate come esemplificative di un pensiero e di una traiettoria progettuale originali. Se da un lato queste architetture esprimono efficacemente una ragione logica dei materiali e una coerenza costruttiva, dall’altro si fanno progressivamente portatrici dello spirito dei luoghi nei quali si inseriscono, intessendo un rapporto dialettico con la geografia.

Le esili strutture delle case prefabbricate di vacanza ad Ankaran sono forse debitrici dell’immagine del chiosco di giornali progettato a Lubiana da Jože Plečnik sulla Petkovškovo nabrežje all’imbocco della triade dei ponti sulla Ljubljanica. Realizzate nella seconda metà degli anni ’50 attraverso il montaggio di elementi strutturali a secco, tali strutture sperimentano materiali e tecnologie costruttive innovative, inserendosi all’interno di un internazionale dibattito che animava le nuove generazioni di architetti in Europa e non solo. Pedane sospese in legno, in forma di palafitta, mediano il rapporto tra interno dell’edificio e suolo inclinato su cui l’insediamento poggia. Esili pilastri sostengono coperture in lamiera ondulata monofalda, mentre muri in pannelli alveolari ad elementi nervati in fibrocemento Solonit definiscono i piccoli spazi di 2,60x2,60 metri che accolgono le residenze affacciate sulla natura grazie allo spazio coperto della terrazza che raddoppia la dotazione degli essenziali alloggi (fig.2).

Sul principio degli anni ’60, la sperimentazione a secco su esili sistemi di coperture monofalda raggiunge ancor più chiara definizione nei progetti per le stazioni di servizio Petrol, in cui il rapporto tra copertura e volumi parzialmente vetrati definisce una maggior alterità e autonomia costruttiva e formale tra le parti (fig.3).

È di 10 anni successivo il lavoro di ricostruzione della chiesa a Reteče in cui il tetto, in forma di riparo, costituisce elemento di innovazione formale e di innesto contemporaneo su un’architettura della tradizione. La struttura della copertura tradizionale della chiesa viene rimontata al di sopra di una sorta di grande “ombrello” sospeso che amplia le superfici interne e modifica radicalmente il sistema di rapporti fisici e visivi tra esterno e interno. Una vetrata, il cui disegno denuncia chiaramente la sua funzione strutturalmente non portante, protegge lo spazio dell’aula caratterizzato da un’asola di luce al piede dell’edificio (fig.3).

Nel 1973 Jugovec progetta e realizza il suo più iconico e conosciuto intervento di copertura dei resti archeologici dell’insediamento medievale di Gutenwertha a Otoku in cui un apparentemente sospeso tetto a doppia falda protegge l’impronta di antichi muri inseriti sul piano orizzontale della campagna. Il suo accogliere una semplice funzione di riparo, consente di concentrare ancor più l’attenzione sulla precisione strutturale e sul suo essere espressione di un patrimonio culturale e dell’identità di quei luoghi. Quello spirito della costruzione che, secondo Luis Kahn, si riflette nella capacità di un edificio di raccontare chiaramente la propria natura mettendo in evidenza la propria struttura, si concretizza nel progetto di Jugovec in pochi e precisi elementi lignei sospesi su due pilastri, in apparente precario equilibrio. Ma, al di là della forma, è nel rapporto di tensione tra copertura e suolo che la struttura dimostra il carattere di maggior interesse. In sezione, l’altezza del vuoto che intercorre tra il filo inferiore del tetto e la linea del suolo produce una condizione di taglio dell’orizzonte e di speciale inquadramento del paesaggio intorno (fig.4).

Se l’opera rimanda all’immagine della capanna di Laugier, la logica dei materiali e l’invenzione costruttiva sono debitrici delle tradizionali strutture lignee dei kozolec sloveni (fig.4), elementi dell’architettura vernacolare che punteggiano l’antico territorio agricolo caratterizzandone il paesaggio (fig.5). Tra le articolate e molteplici forme di queste strutture, in relazione al progetto di Jugovec risulta particolarmente suggestiva la tipologia che utilizza due appoggi centrali sospendendo piccole coperture a doppia falda a protezione del fieno che veniva stoccato sulle rastrelliere centrali. In alcuni casi della tradizione il raddoppio di tali strutture rimanda fortemente all’immagine dell’ultimo dei progetti realizzati dall’architetto sloveno sul finire degli anni ’80, dell’edificio centrale del Partigiano Rog Baza 20. L’articolazione e complessità delle funzioni allocate dà luogo a un edificio che interpreta, in forma complessa, se figure strutturali precedentemente descritte. Lo sdoppiamento della struttura compone un volume in cui 4 grandi pilastri in legno sostengono una coppia di falde che si toccano in alcuni punti alla ricerca di equilibrio. La rastremazione in pianta delle falde in forma di trapezio si traduce in sezione in una altrettanto trapezoidale figura che articola ulteriormente il volume e i rapporti con il paesaggio intorno che assurge a protagonista dell’opera. Ancora una volta, forma e costruzione dell’edificio instaurano un rapporto dialettico con il sito e ricercano nell’orizzontalità del basamento una dimensione altra rispetto alle sinuose linee del suolo (fig.6).

Attualità dell’opera di Jugovec

Attenzione ai luoghi e memoria delle identità locali, combinate con l’invenzione formale e strutturale a partire da materiali della tradizione sono gli elementi che contraddistinguono le opere di Jugovec analizzate nel testo. Nel suo lavoro, la compresenza e la capacità di combinare le istanze della modernità con le peculiarità locali se da un lato possono essere intesi come parte di quella storia architettonica del ‘900 interessata a indagare i rapporti con la tradizione, dall’altra costituiscono i veri elementi di interesse e di attualità della sua opera. Se già durante gli ultimi anni della sua carriera alcuni premi e riconoscimenti avevano posto l’attenzione sulla sua figura[5], anche in anni recenti si è tornati a indagare le sue architetture nei suoi luoghi di origine. Se l’attento lavoro monografico di Maruša Zorec si colloca nel segno delle ricerche specifiche sulla disciplina, è interessante annotare come alcune suo opere trascendano la dimensione specificamente professionale per essere utilizzate in un immaginario più ampio. Nella primavera del 2022, per esempio, la 27a edizione della biennale di design di Ljubljana BIO27[6], intitolata Super Vernaculars - Design for a Regenerative Future, ha esplorato quelle

practices rooted in vernacular traditions, systems, and cultures and seeking alternative and innovative narratives for the 21st century. […] Reviving traditional practices is in no way about nostalgia or looking backwards, it’s about saying that often there are very valid and common sense responses and ways of doing things that were rooted in climate, weather and terrain and developed for generations that have been lost in our capital-centric, industrial-centric recent era (Withers 2022).

Nello spazio principale della Biennale una posizione centrale era affidata alla serie fotografica When International Style Went Local: Vernacular Modernism in Croatia and Slovenia commissionata appositamente per l’evento al fotografo Adam Štěch, tra cui figurava il Floating Roof di Jugovec a dimostrazione, forse, del riconoscimento del carattere identitario di questa piccola architettura e della sua capacità di rendere «ancora fertile, il riferimento a una catena evolutiva di tradizioni figurative appoggiate ai luoghi del nostro presente» (Zermani 2022, p.4). Nel suo lavoro, «la complessità, l’intrico di fatti (veri o presunti) che si raggruma su ogni singola opera, la sovrapposizione di temporalità diverse e contrastanti, l’incrocio delle esperienze e dei pensieri» (Settis 2023) attesta la capacità di “progettare” una “nuova” modernità utile da indagare per le sfide del nostro tempo.

Il “nuovo inizio” [infatti] non può avvenire […] che attraverso una ricongiunzione con la natura propria dei luoghi, con quanto ancora resiste nella propria riconoscibilità, con quanto inscrivibile in una storia (Zermani 2022, p.4).

Note

[1] Nel suo lavoro monografico sulla figura di Jugovec Maruša Zorec individua un punto di svolta tra queste due fasi a seguito della partenza dell’architetto per la Libia tra il 1967 e il 69 (Zorec 2000-2001, p.143).

[2] “Sintesi” in dizionario on-line Treccani. Consultabile in https://www.treccani.it/vocabolario/sintesi/

[3] «Jugovec was a master of detail. He had this knack of how to do something from before. He could have been a watchmaker, and if he'd been in Switzerland he'd certainly have been a millionaire, because he would have invented a new watch» (Potokar 2022).

[4] In un’audio registrazione sugli studi a Praga del 1985 è lo stesso Jugovec ad affermare che probabilmente il suo desiderio di disegnare ogni dettaglio deriva dagli insegnamenti appresi a Praga (Zorec 2000-2001, p.17).

[5] Repubblica di Slovenia, 1967 Premio Fund Prešeren per la costruzione del reattore nucleare a Podgorica, 1984 Premio Prešeren per i successi in architettura; Fondazione Jože Plečnik 1979 Premio Plečnik.

[6] La biennale si è tenuta a Lubiana nei giorni dal 26 maggio al 29 settembre 2022 ed è stata diretta da Jane Withers.

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