Spomenik. Architetture di sublime memoria

Ottavio Amaro, Francesca Schepis


Introduzione

Spomenik analogo di “monumento” in lingua serbo-croata, insieme architettura e arte commemorativa, esito di una strategia civile per la Resistenza al nazifascismo, azione legata al governo di Tito in Jugoslavia, consapevole della necessità di proiettare tante pluralità di culture e storie diverse in un’idea di stato unitario. Una quantità innumerevole di segni e simboli, difficili da censire nella loro totalità, realizzati in un arco temporale di circa cinquant’anni, costituiscono un mosaico che scavalca ancora oggi, tempo di nuove divisioni, i confini geografici, amministrativi e culturali. Un valore di appartenenza demandato ai caratteri di un’arte civile che, priva di connotati figurativi e retorici diretti, si esprimeva attraverso l’espressionismo plastico della forma e del rapporto scalare capace di dialogare con la misura del paesaggio, senza rinunciare a possibili rimandi evocativi e poetici. Segni monolitici e assertivi, plasmati dal tempo della luce e dell’ombra, insieme all’esibizione della materia solida rappresentata dal cemento e identificativa di un’espressione brutalista, segno di modernità e differenziazione della Jugoslavia all’interno del mondo del “Realismo sovietico”, e sicuramente di nuova dialettica costruttiva nel dibattito occidentale del dopoguerra oltre il muto razionalismo internazionale.

La vicenda storica e la rivelazione della critica

Il primo avvicinamento ai monumenti-simbolo della recente storia balcanica può essere rappresentato dalla campagna fotografica condotta da Jan Kempenaers tra il 2006 e il 2009, esposta in una mostra itinerante tra Belgio, Olanda e Stati Uniti, infine documentata dal libro Spomenik (Kempenaers, 2010) edito in collaborazione con l’Academy of Fine Arts di Gand. Lo sguardo del fotografo di Anversa cattura e immortala le costruzioni scultoree in una precisa condizione atmosferica, scegliendo l'astrazione di una luce crepuscolare diffusa. Le masse imponenti di granito, cemento armato o acciaio sono inquadrate in una condizione di natura non abitata da esseri viventi, pure e isolate, non proiettano al suolo ombre che leghino la loro presenza al luogo in cui sono posizionate. Sembrano piuttosto apparizioni senza tempo. Nel presentare la prima tappa della mostra Willem Jan Neutelings introduce un importante punto di vista sulla questione del tempo. Gli spomenik sono sorti in luoghi che sono stati teatro di orrendi eventi di guerra durante il secondo conflitto mondiale, ma anche di scontro civile tra le diverse culture compresenti nella Jugoslavia multietnica, partigiani, ustaše e cetnici l’uno contro l’altro nel furore della distruzione. All’alba della ricostruzione, stabilita la federazione repubblicana, gli oggetti della memoria non potevano portare alcun simbolo che fosse ancora divisivo ma liberarsi da qualsivoglia figurazione nell’astrazione e nell’arditezza della scultura pura. Essere non tanto l’immagine di passato luttuoso ma l’inizio di una futura, diffusa e universale uguaglianza. Pur tuttavia, invita a riflettere Neutelings, la guerra intestina a distanza di pochi decenni e la cieca volontà di smembrare gli spomenik rimettavano violentemente in discussione non soltanto lo stato socialista ma la stessa possibilità di convivenza. Forse per questo le fotografie di Jan Kempenaers negano ai monumenti ogni forma di vita che non sia vegetale o minerale.

L’interesse diffuso nei confronti di queste monumentali sculture da parte della critica architettonica ha avvio a partire dalla mostra Toward a Concrete Utopia. Architecture in Yugoslavia, 1948–1980 tenuta al MoMA di New York tra il luglio 2018 e il gennaio 2019 per la curatela di Martino Stierli e Vladimir Kulić. La mostra costituisce di fatto la prima retrospettiva sull’architettura socialista progettata e costruita nei territori balcanici della ex Jugoslavia e ha il grande valore di mettere in luce la ricchezza e la complessità di una realtà fisica progettata e costruita per dare forma concreta a una nuova realtà politica e sociale. L’architettura socialista balcanica rappresenta il modello spaziale corrispondente a un momento di grande trasformazione storica che vede coinvolte migliaia di persone sotto un unico ideale.

Pochi momenti della storia hanno visto una condizione di totale interdipendenza e simultaneità tra la costruzione di una nuova forma di società e la costruzione dei paesaggi, della città e degli edifici destinati ad ospitarla. Si riteneva imprescindibile l’una cosa dall’altra. L’esposizione newyorkese presenta quattro sezioni così ordinate: “Modernization” che analizza il ruolo dell’architettura nella rapida urbanizzazione e industrializzazione di un paese in gran parte rurale; “Global Networks” che esamina il ruolo della politica estera della Jugoslavia nel plasmare la sua struttura turistica e nella creazione di progetti di costruzione su larga scala in patria e all’estero; “Everyday Life” che esplora i progetti di alloggi di massa del paese e l’emergere del design moderno in una cultura del consumo socialista. Infine la sezione “Identities” che affronta il rapporto tra la diversità regionale della Jugoslavia e l’unità del paese.

Tra queste sezioni ampio spazio è offerto a raccogliere, catalogare e mostrare i progetti, le fotografie, i modelli e i filmati documentali degli spomenik, mettendo in evidenza la continuità tra il momento ideativo, in cui il progetto artistico-architettonico prende forma, la realizzazione e l’esito in termini spaziali ed evocativi dei monumenti.

A partire da questo primo momento fondamentale nella riscoperta di un così cospicuo patrimonio, l’attenzione verso l’architettura dei Balcani federati cresce in maniera esponenziale, al punto che negli ultimi cinque anni si registra un numero considerevole di ricerche scientifiche, di progetti fotografici, di documentari cinematografici che hanno per tema la straordinaria vicenda di una utopia realizzata.

Tra questi si distinguono, solo per citare i principali e più noti, i lavori di Donald Niebyl con il sito e il volume di Spomenik Database (Niebyl, 2018), di Boštjan Bugarič curatore insieme ad altri della mostra Architecture. Sculpture. Remembrance. The Art of Monuments of Yugoslavia 1945–1991, di Alberto Campi con +38 (Campi, 2020), un toccante reportage fotografico del viaggio in cui ha attraversato tutti gli stati membri della ex Repubblica federale e la recentissima mostra Stones Between the Fronts Anti-Fascist Monuments on the Territory of Former-Yugoslavia inaugurata il 14 settembre di quest’anno presso l’Architekturzentrum di Vienna sotto la curatela di di Melanie Hollaus e Christoph Lammerhuber, in collaborazione con MuseumsQuartier Wien e Architekturzentrum Wien. L’allestimento comprende i modelli analogici a scala reale di due spomenik, la riproduzione virtuale di alcune ambientazioni che, attraverso il supporto della realtà aumentata, tentano di restituire la complessità dei memoriali e, soprattutto, innumerevoli schizzi e disegni tecnici di Bogdan Bogdanović, di cui l’Architekturzentrum Wien custodisce 12.500 esempi ad imperitura memoria.

In una intervista rilasciata a Dániel Kovács (Kovács, Bugarič, 2020) per la pagina web di “Domus” Boštjan Bugarič, spiegando il rapporto di correlazione tra la mostra Architecture. Sculpture. Remembrance e l’enciclopedica mostra del MoMA, precisa che il movimento di diffusione della cultura architettonica della Jugoslavia ha origini ancora precedenti che si possono far coincidere con l’esposizione del padiglione nazionale alla 39a Biennale di Venezia del 1980. In quella sede furono gli stessi architetti, Bogdan Bogdanović, Dušan Džamonija, Slavko Tihec e Miodrag Živković, a presentare il loro lavoro e a farlo conoscere su scala globale, consapevoli di aver compiuto una rivoluzione culturale e di averle dato forma. Distrutta di lì a poco la loro opera è stata ripresa, nel primo decennio degli anni Duemila, dall’Associazione degli architetti croati in collaborazione con la Galleria d’Arte Maribor nel progetto Unfinished Modernisations – Between Utopia and Pragmatism, organizzato dapprima a livello regionale, divenuto poi una rete più estesa, fino alla ideazione e alla realizzazione della mostra newyorkese. Nello stesso periodo prende avvio l’imponente opera di catalogazione Spomenik Database di Donald Niebyl, che attraverso un sito internet in continuo sviluppo tenta di ricostruire una mappa completa dei luoghi dell’architettura monumentale della repubblica federale. Inseriti attraverso le loro coordinate geografiche si trovano gli spomenik insieme alle case del Presidente Tito, ai memoriali, cimiteri e ossari, ai musei. Oltre il censimento di migliaia di opere, sono presenti i protagonisti di questa rivoluzione culturale, gli architetti e gli artisti che, nei diversi stati federati, hanno lasciato memoria di una nazione unita sotto il segno della cultura. È attraverso l’attività di ricerca, studio e divulgazione che il destino degli spomenik continua a rimbalzare da una parte all’altra del mondo, perpetuando se non il senso di una ideale, egualitaria e diffusa società, almeno la sua profonda e radicale fiducia nelle forme dell’arte, e dell’architettura in maniera propria tra queste, a darne memoria.

Dialettica arte e paesaggio

Dopo la disputa con Stalin nel 1948 nasce una nuova espressione artistica – afferma Boštjan Bugarič – il Modernismo Astratto diviene la principale espressione artistica nel territorio della Jugoslavia con il suo approccio innovativo, la monumentalità e la grande espressività nel paesaggio. (Kovács, 2020)

Ancora oggi che le mappe della ex Jugoslavia danno il senso della disgregazione e di una geografia smembrata, gli spomenik, per quantità e qualità, identificano un territorio idealmente unitario. Essi formano una rete di punti e di itinerari che segnano i luoghi e caratterizzano i paesaggi, senza necessità di confini geografici, vincoli culturali, politici o etnici.

Vivono ancora della loro espressività artistica e architettonica in un tempo sospeso tra visibile e invisibile: «l’invisibile fa parte del visibile, è intrinseco al visibile: è la condizione stessa, indispensabile alle rivelazioni che ci portano alla conoscenza». (Turri, 2004) Visibile nel rapporto con il paesaggio, essenza di natura e storia, natura e cultura; invisibile nella capacità di raccontare i luoghi come sovrapposizione di memorie e vicende umane filtrate nell’idea di “commemorazione”.

Dunque, se i paesaggi «sono terreno di lettura del mondo» (Venturi Ferriolo, 1995) siamo di fronte a luoghi “parlanti”, che trovano negli spomenik, monumenti commemorativi, il megafono più adeguato per una società in cerca di simboli e di momenti d’identificazione collettiva in un periodo storico specifico. In questo senso le presenze architettoniche e scultoree degli spomenik rappresentano “ciò che resta” di un passato e di una tensione ideale e politica, allo stesso modo dei paesaggi con i segni del passato, con “rovine” evocative che aggiungono, nel tempo e nello spazio, nuovi e diversi significati. Non c’è dubbio, infatti, che la scala d’intervento, e la loro ricerca espressiva e plastica rivelano i paesaggi, ma nello stesso tempo si fanno paesaggio. Sotto una volontà di dimenticanza e spesso di rimozione, rimangono rovine silenziose, megaliti misteriosi e primordiali nella loro apoditticità, forse appartenenti ormai a un immaginario di un’archeologia fantastica che mantiene tutta l’espressività e il trascinamento emozionale propri di oggetti “indicibili” nel significato più lecorbuseriano. Per questo, se da un lato siamo in presenza di processi attuali di “desacralizzazione” (gli spomenik diventano spesso location per spot pubblicitari o manifestazioni commerciali) di siti legati a eventi, commemorazioni e riti collettivi, dall’altro occorre affermare che rimane ancora intatta la capacità espressiva ed evocativa di costruzioni che hanno visto architetti e artisti misurarsi con azioni conoscitive e trasformative dei siti coinvolti attraverso una relazione stretta e virtuosa tra arte/natura/paesaggio.

In questo rapporto sta sicuramente il carattere non retorico degli spomenik, caratteristiche che, invece, caratterizzava spesso le evoluzioni post rivoluzione dell’arte socialista. Si privilegiava il linguaggio dell’arte per monumenti non legati a espressioni figurative e di culto della personalità, ma al loro essere strutture scultoree e architettoniche proiettate verso l’astrazione e la ricerca di una plasticità concepita come unione di forma e materia.

Evidentemente il riferimento non era l’arte sovietica del dopoguerra ma una cultura più occidentale e più aperta all’innovazione. Si guardava forse più alla tradizione rivoluzionaria tedesca degli anni ’20 che vede nel Monumento ai Caduti di Marzo (Weimar, 1921) di Walter Gropius l’espressione più alta e autentica: alcun rimando all’arte figurativa, alcuna scritta commemorativa, ma solo senso della forma e della materia, la cui descrizione di Giulio Carlo Argan si potrebbe sicuramente applicare a molti degli spomenik realizzati in Jugoslavia:

«Nel ‘Monumento ai Caduti di Marzo’ il puro fatto plastico è già pensato come un coagularsi e precipitare dello spazio per effetto del movimento: un movimento che, come si intende, non può essere azione o tragitto in uno spazio dato, ma soltanto rottura di una condizione di equilibrio, deviazione da certe costanti, franare di piani obliqui e di slittanti pendenze. La materia è il prodotto di quel condensarsi dello spazio, percorso da una corrente di moto; e non è più una primigenia materia che la volontà dell’artista ridesti dalla stasi naturale, ma una materia artificiale, nata con la forma e che al di fuori di essa non è che massa fluida e fangosa, in perenne movimento e tensione: il cemento». (Argan, 1988)

Dello stesso tenore, anche se con valori espressivi diversi, è il Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (Berlino, 1926) progettato da Ludwig Mies van der Rohe.

Anche i maggiori autori scelti per la progettazione degli spomenik sono architetti, che dimostrano la volontà di lavorare su aspetti spaziali e paesaggistici più generali. Siamo in presenza di una sperimentazione “enciclopedica” di un possibile connubio tra architettura e scultura che, seppur legati ai propri statuti compositivi e funzionali, lavorano a installazioni di volta in volta spaziali o oggettuali o ancora ibridate nel loro rapporto di scala e di funzione, ma comunque finalizzate a una nuova conquista estetica, figurativa e simbolica di grande rilevanza emozionale sull’identità dei territori e dei paesaggi.

Il peso della memoria

Uno degli aspetti su cui questo scritto si interroga è il rapporto tra il monumento, sostanza fisica di ciò che si vuole far perdurare nella testimonianza, nel passare del tempo e ciò che intorno ad esso si muove, il rito che si compie nei movimenti di chi si avvicina per visitarlo, adempiendo alla funzione per cui era stato eretto.

La questione si scioglie in una posizione retorica. Bisogna che qualcuno vada al monumento perché esso abbia una ragione o, invece, è possibile ipotizzare che sia sufficiente solo la sua presenza fisica? Le due cose non sono distinguibili. L’andirivieni rituale di chi lo usa è parte integrante del suo essere, serve al compiersi della sua funzione e gli da senso. È in quell’azione che si ritrova il significato della sua presenza. Gli spomenik colossali e imponenti sculture, opere di malinconica land art, si perfezionano attraverso il rito di avvicinamento, di sguardo, di rinnovo della memoria da parte del visitatore, e diventano architettura. Gli artisti e gli architetti li hanno immaginati quasi del tutto spogli da elementi figurativi o di stile, piuttosto eco di strutture arcaiche e ancestrali, dalla spazialità altra, dalla temporalità altra. Gli spomenik sono inseriti quasi sempre in ampi paesaggi dove l’elemento naturale è predominante su quello antropizzato, quasi a voler risarcire la storia di quel luogo per i gravi e luttuosi fatti di cui è stato scena. In questo processo quindi la ritualità si spinge dalla scala dell’oggetto scultoreo, a quella dell’architettura che abita uno spazio e si fa abitare, a quella larga del paesaggio cui rimanda.

Régis Debray nell’aprire la sua opera più nota sul carattere dell’immagine nel mondo occidentale, Vita e morte dell’immagine (Debray, 1992), si occupa primariamente di definirne l’origine come rappresentazione della morte. «La nascita dell’immagine è strettamente connessa alla morte. Ma se l’immagine arcaica scaturisce dalle tombe, è per un rifiuto del nulla e per prolungare la vita» (Debray, 1992). Sin dalle prime battute viene definito il rapporto di intima correlazione tra sepolcro e monumento, che presso le popolazioni antiche si manifesta in maniera connaturata, quasi come fosse l’esito di una ritualità spontanea.

Come è noto la modernità architettonica consegna, poi, la celeberrima definizione di Adolf Loos dell’architettura come del riconoscimento del luogo della sepoltura. Per il maestro austriaco soltanto trascendendo la finalità funzionale, spogliato da ogni ragione pratica, lo spazio architettonico può assurgere ad opera d’arte. Tale onore spetta solo al sepolcro e al monumento: «se in bosco troviamo un tumulo, lungo sei piedi e largo tre, disposto con la pala a forma di piramide, ci facciamo seri e qualcosa dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura» (Loos, 1910).

Il riconoscimento insieme di una forma – il corpo terreno svuotato dello sguardo, della luce, del respiro – e di un rito – la sepoltura delle spoglie mortali – che supera la cultura, la religione, il luogo, che è universalmente identificato solo perché si allinea alle nostre corde emotive, al nostro sentire umano.

La presenza degli spomenik diffusi nel paesaggio della ex Jugoslavia descrive il continuo compiersi di questo riconoscimento. Un rito laico, lontano da qualsiasi forma di religione, ma denso di una profonda spiritualità. I monumenti ancora visitabili impongono a chi li osservi una precisa modalità di avvicinamento, un tempo esatto per percorrere le distanze tra un elemento e l’altro, la stessa sequenzialità secondo cui le varie parti si rivelano è stata in qualche modo pre-determinata. Eppure i geniali ideatori, dal noto e già più volte citato Bogdan Bogdanović a Dušan Džamonija, che ha traghettato la spazialità monumentale di uno spomenik fino alle sponde italiane dell’Adriatico nell’Ossario dei caduti Slavi di Barletta (Tupputi, 2021), da Svetlana Kana Radević architetto montenegrina a Miodrag Živković con le sue ardite strutture, forse hanno soltanto sperato che questo succedesse a dispetto del tempo e dell’accanita damnatio memoriae perpetrata senza riguardo.

È significativo che il peso di questa ritualità senza tempo si possa ritrovare nel film Last and first men, prima e sola opera cinematografica del musicista islandese Jóhann Jóhannsson, proposto in forma embrionale per la prima volta nel 2017 al Manchester International Festival, con accompagnamento dal vivo eseguito dalla BBC Philarmonic, presentato poi nella sua stesura finale al Festival di Berlino del 2020, postumo a quasi due anni dalla prematura morte del suo regista.

Trasposizione cinematografica del primo romanzo di fantascienza di Olaf Stapledon del 1930, il film racconta di una civiltà di uomini immortali capaci di comunicare telepaticamente che, in attesa della fine della Terra e dell’intero sistema a causa della disintegrazione del Sole, ritrovano il loro istinto di sopravvivenza e cercano di opporsi alla loro fine terrena. La pellicola in 16 mm fissa, in un bianco e nero sfocato e polveroso, interrotto solo da alcune luci verdi e dall’immagine rossa del Sole, le scene di un mondo di difficile collocazione nel tempo e nello spazio. Il regista Jóhannsson sceglie di filmarle nei luoghi degli spomenik che, inquadrati spesso in maniera angolare o da un punto di vista insolito, talvolta da terra verso l’alto o in maniera parziale da primo piano, non sono semplici set cinematografici ma diventano i protagonisti dell’azione. La voce narrante di Tilda Swinton completa l’opera e le conferisce un’aura ultraterrena, tradita soltanto dall’emozione per la scomparsa dell’uomo. La camera scorre lenta sulle superfici dei monumenti che vibrano nei loro chiaroscuri materici e si succedono alle immagini di boschi, di nuvole e di cieli, come a ricollocarli in un nuovo stato della memoria.

Conclusioni

La sorte degli spomenik si identifica con la crisi causata dalle guerre balcaniche degli anni ’90. Insieme ai fattori economici, geografici, antropologici e storici, la crisi assume le sembianze di crisi culturale, capace spesso di perdere e dimenticare velocemente un patrimonio storico e architettonico di grande valore identitario. Insieme alla fine del regime si è perseguito il disegno di distruzione di simboli e testimonianze rappresentative della memoria e di un tempo che ha visto impiegare notevoli risorse umane e intellettuali con esiti urbani, territoriali e artistici sicuramente da riportare e valorizzare dentro il patrimonio più generale dell’umanità. In questo senso il laboratorio sperimentale perseguito dalle politiche culturali e territoriali di Tito, finalizzate a creare un ‘modernismo socialista’ lontano dall’enfasi retorica dell’Unione Sovietica e con lo sguardo rivolto all’innovazione occidentale, rappresenta ancora un modello da studiare e valorizzare nelle testimonianze e negli esempi ancora presenti.

Gli spomenik, sono tra le permanenze più significative e rappresentative di una cultura artistica e architettonica balcanica e brutalista: il loro destino non può essere di finire come i frammenti della statua di Lenin che il regista Theo Angelopoulos fa navigare sul Danubio nel film Lo sguardo di Ulisse (1995), come metafora della deriva della memoria di un popolo.

Bibliografia

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DEBRAY R. (1992) – Vie et mort de l’image, trad. it. Vita e morte dell’immagine 1999. Il Castoro, Milano.

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