Architettura di assistenza nel medioevo: modelli e antimodelli per la contemporaneità? 

Giorgio Milanesi



Quando pensiamo alla genesi delle strutture assistenziali organizzate dobbiamo necessariamente partire dall’ospedale fondato da Basilio, futuro santo presule della città di Cesarea, oggi Kayseri in Cappadocia, Turchia. Costruito extra moenia con una chiesa e un monastero annessi, esso nacque attorno al 370 in stretto rapporto con la concezione monastica basiliana, che confluì in una regola antecedente di circa due secoli quella benedettina, volta alla cura spirituale e fisica della persona come atto cristiano tra i più edificanti. L’idea di creare luoghi destinati all’assistenza non può essere disgiunta dall’idea del buon cristiano che deve curare l’anima e al contempo il suo contenitore, secondo quel riferimento dottrinario al Christus medicus che da un punto di vista agiografico troverà compimento nei “santi-medici” Cosma e Damiano. Nell’antichità precristiana esistevano, naturalmente, luoghi per l’assistenza ai bisognosi, ma la gestione era perlopiù affidata alle famiglie con rari casi di gestione comunitaria parziale degli schiavi o dei soldati feriti di ritorno dalle infinite campagne militari.
Ciò che balza all’occhio per quanto concerne le prime esperienze organizzate che etichettiamo per comodità “assistenziali” nei secoli della tardoantichità e per tutto l’alto-medioevo è il carattere, diremmo oggi, polivalente dei servizi offerti. I primi Xenodochia, il cui etimo, non a caso, fa riferimento semplicemente a una sorta di “rifugio per stranieri”, nell’accezione evidentemente tutta cristiana dell’accoglienza disinteressata verso tutti, offrivano aiuto a varie tipologie di “bisognosi”: certo i malati, ma anche i poveri, chi aveva problemi di deambulazione, gli anziani, gli orfani, i mendicanti e ovviamente, con grande fortuna nei secoli successivi, i pellegrini. Occorre attendere, peraltro, la fine dell’VIII secolo, con Alcuino vescovo di York, per essere certi della sostanziale coincidenza tra gli Xenodochia, gli ospizi e gli ospedali, suggerendo una divisione linguistica che nei fatti non era facilmente riscontrabile.
Per questi secoli, e sostanzialmente fino al pieno medioevo, non siamo in grado di individuare specificità architettoniche, se non ricorrendo a modelli latamente monastici, con l’accortezza, tuttavia, che la tipologia planimetrica del monastero costituito da chiesa, chiostro su un lato e spazi annessi attorno a questo è un modello che si afferma sostanzialmente in epoca tardocarolingia lasciando un vuoto di natura testuale e archeologica difficilmente ricomponibile per il mezzo millennio precedente. Poiché i monasteri precarolingi erano luoghi certo recintati, tendenzialmente isolati, anche se perlopiù visibili, lontano o ai margini delle città, al cui interno i monaci vivevano in spazi separati con l’eccezione della chiesa, dobbiamo immaginare che le strutture che ospitavano i monaci erano le medesime che ospitavano i bisognosi. Questo almeno sembra suggerire la celeberrima planimetria di San Gallo (Fig. 1), del primo quarto del IX secolo, planimetria più ideale che reale, ma comunque utile per ragionare sugli spazi di un complesso monastico carolingio e quindi di tutta l’Europa governata da Carlo Magno. Vengono indicate l’infermeria, le case per i monaci in viaggio, per gli ospiti importanti, per i pellegrini e i poveri, ma anche il bagno, la cucina, le piante medicinali, l’abitazione dei medici finanche la sala dei salassi.
In letteratura, i due cambi di passo fondamentali sono quello individuato tra XII e fine XIII secolo circa e quello del XV secolo, in realtà come onda lunga della Grande Peste della metà del Trecento. Nel primo cambio di passo si registra un incremento esponenziale delle fondazioni per l’assistenza in Europa, un incremento dettato da nuove condizioni generali (la cosiddetta Rinascita del XII secolo), congiunturali (l’incremento del numero dei pellegrini con le Crociate), politiche, in riferimento a un numero maggiore di attori in gioco. Non ci sono più solo i benedettini, la loro declinazione cluniacense e i vescovi a portare il peso, ma ora anche nuovi ordini quali i cistercensi, i premostratensi, gli ordini monastico-cavallereschi come, appunto, gli Ospedalieri di San Giovanni, e infine, nei decenni a cavallo del 1200, gli umiliati e quindi il movimento delle beghine, e immediatamente dopo gli ordini conventuali mendicanti, francescani e domenicani. Tra gli attori in gioco, nel XII secolo entrano prepotentemente anche i laici, sia nelle forme comunali che nelle forme protostatali delle grandi potenze europee, ma anche in nuove forme di evergetismo cristiano con il quale l’istituzione di una struttura assistenziale non ha più nulla a che fare con lo spirito cristiano e diventa perlopiù solo manifestazione pubblica di potere, con il conseguente avvento di una nuova santità laica tra la fine del XII e il XIII secolo, un fenomeno su cui André Vauchez ha scritto pagine fondanti. Il XII secolo è però ritenuto unanimemente anche il range temporale della riscoperta della centralità della città. Gli effetti sono immediati: le città diventano più ricche, maggior è l’attrazione di popolazione, quindi maggiori problemi di gestione assistenziale, conseguenza: aumento esponenziale del numero di strutture ospedaliere. Non a caso la Scuola Medica Salernitana raggiunge l’apice del prestigio nel XII secolo e dai primi decenni del XIII secolo comparvero medici voluti dal Comune per la cura “collettiva”
Tuttavia, ciò non significa che le strutture ospedaliere diventino “cliniche mediche”. Le prime sopravvivenze benedettine in relazione a infermerie o spazi per l’assistenza in genere datano al XII/XIII secolo, ma è evidente, come nel caso di Canterbury, Ourscamps o nella stessa Fossanova (Figg. 2-3), la dipendenza da modelli planivolumetrici chiesastici e monastici in genere. È proprio in queste fasi, tuttavia, con il rinnovato e intenso coinvolgimento dei laici, che comincia a prendere forza la tipologia dell’ospedale a sala, che Fabio Gabbrielli (2020) specifica non avere nulla a che fare con i vari modelli di Hallenkirchen e piuttosto occorre pensare a spazi quadrangolari, divisi o meno in due o tre navate, coperti variabilmente a capriate a vista o volte, e molto sviluppate longitudinalmente con l’unica aggiunta di una cappella inserita nel perimetro stesso o nelle immediate vicinanze.
È ormai un dato acquisito il collegamento tra la grande crisi sanitaria provocata dall’epidemia di peste della metà circa del Trecento e il grande secondo cambio di passo, quello della fine del Trecento/inizio Quattrocento, con la nascita di nuove mastodontiche strutture (da cui i vari “Ospedale Grande” o “Maggiore”) che vedono la presenza fissa di medici (o speziali), abbandonando progressivamente il carattere polivalente nonché policentrico di strutture assistenziali che nei mille anni precedenti aveva caratterizzato il sistema dell’accoglienza. A questo fa da contraltare, come noto, un diverso modello architettonico, il cosiddetto impianto a croce (Fig. 4), impianto su cui negli ultimi decenni molti studiosi si sono concentrati per capirne in primis l’origine – da Pavia, da Milano (Fig. 5), da Brescia, da Firenze… – e, soprattutto, l’intenzione progettuale. In genere, la peste aveva insegnato che la dispersione degli spazi di assistenza non aveva ottimizzato la risposta alla pandemia. Avere miriadi di luoghi sparsi sul territorio, per quanto in luoghi strategici o lungo vie di passaggio obbligate, si era rivelato poco efficace.
La risposta fu dunque una concentrazione delle strutture assistenziali, ora meno polivalenti, certamente più specializzate, e tendenzialmente legate a un potere laico non più appannaggio pressoché esclusivo della Chiesa o degli ordini religiosi (Figg. 6-7). Tuttavia, è chiaro oggi che il modello degli “Ospedali Grandi” non era stato applicato in modo acritico, anzi, laddove si comprese che le condizioni specifiche di una città o di un territorio portavano a potenziare l’antico modello di architetture assistenziali diffuse si tese a ottimizzare la coesistenza tra nuovi e vecchi sistemi.
Attingere alla storia dell’architettura come a un catalogo di soluzioni su cui impostare nuovi sistemi progettuali, come ben noto e, aggiungerei, scontato, è operazione delicatissima. Diventa operazione quasi insensata assumere per altri contesti la “geometria” di un complesso architettonico pensato per uno spazio e un tempo specifico, con altrettante specifiche esigenze e finalità: il rischio “effetto Las Vegas” è dietro l’angolo. Queste ovvie considerazioni diventano forse più pregnanti se pensiamo ad architetture dedicate all’assistenza in senso lato; quello che trovo più interessante è semmai interrogarci sulle ragioni delle scelte che di volta in volta hanno determinato i singoli progetti, indagare sugli attori in gioco religiosi e “politici”, studiare le innovazioni spaziali a parità di condizioni ambientali, collazionare i diversi progetti. A una riflessione generale, anche di carattere architettonico, su tali problematiche è stato dedicato nel 2015 un PRIN dal titolo “Alle origini del Welfare (XIII-XVI sec.). Radici medievali e moderne della cultura europea dell’assistenza e delle forme di protezione sociale e credito solidale”. Ebbene, nonostante gli studi sul sistema assistenziale medievale e primo-moderno non mancavano per il medioevo tanto da un punto di vista storico tout-court, quanto da un punto di vista della storia dell’architettura, una riconsiderazione generale (e globale) della questione ha contribuito negli ultimissimi anni alla pubblicazione in Italia e non solo di volumi miscellanei che se da un lato offrono ampi scenari ricostruttivi dell’origine dei sistemi di assistenza (Bianchi 2020, anche per l’imponente apparato bibliografico, è diventato un testo di riferimento), dall’altro, attraverso specifici case-studies, si è in parte riplasmata una concezione forse troppo ideologica del problema delle pratiche assistenziali medievali e moderne in favore di una più specifica analisi dei contesti. E uno dei risultati che tali ricerche specifiche hanno suggerito con forza è che a un certo punto alla fine del medioevo, nacquero imprese, diremmo oggi, mutatis mutandis, “private a compartecipazione statale” pensate per il benessere pubblico (Figg. 8-9). Si tratta di strutture connesse certamente a ideali di propaganda e autocelebrazione dei ceti dominanti, ma al contempo, senza arrivare a un’immagine troppo idealizzata del welfare tra età medievale e moderna, connesse all’idea rivoluzionaria per quei tempi secondo cui maggiore è il numero di persone in un dato territorio che possono avere standards dignitosi di assistenza, maggiore è la ricchezza e il benessere generale.
Questo aspetto merita certamente tutta l’attenzione del caso perché proietta la questione assistenziale, già nel medioevo, in una dimensione che va oltre la questione architettonica, antropologica, sociale o più banalmente sanitaria. La discussione sui possibili modelli o antimodelli medievali e moderni, per avere ricadute utili sulle più recenti soluzioni progettuali tendenti a sistemi integrati di assistenza partendo da una scala urbana, dovrebbe vertere sul problema non tanto e non solo dell’efficienza, certo aspetto imprescindibile, ma anche sulla questione della reale ricaduta sul benessere quotidiano di una comunità. A me pare che questo sia il vero aspetto di fondo: nessun modello architettonico, in quasi due millenni, ha risolto la questione, ma plurimi modelli adattati ai singoli contesti territoriali ha portato ad esiti viepiù soddisfacenti. Se è evidente che i Luoghi e i Centri di Salute Comunitaria richiamano, almeno sulla carta, i più antichi ospedali tardoantichi e altomedievali polifunzionali, da questi se ne allontanano per il loro carattere policentrico, basato sulla distribuzione spaziale in un dato territorio, che poteva essere invariabilmente territorio di pianura, di mare, di strada, di città costiera o di città fluviale o di valle. Per contro, l’“addensamento spaziale” degli Ospedali Grandi tardo medievali e moderni, il cui modello è talvolta ancora applicato, ha concentrato sul piano urbano l’assistenza, ma l’estrema specializzazione medica ha fatto perdere di vista, diluendoli in rivoli poco o male comunicanti tra loro, tutti gli altri servizi ugualmente necessari alla persona.

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