Quando pensiamo alla genesi delle strutture assistenziali
organizzate
dobbiamo necessariamente partire dall’ospedale fondato da
Basilio, futuro santo presule della città di Cesarea, oggi
Kayseri in Cappadocia, Turchia. Costruito extra moenia con una chiesa e
un monastero annessi, esso nacque attorno al 370 in stretto rapporto
con la concezione monastica basiliana, che confluì in una regola
antecedente di circa due secoli quella benedettina, volta alla cura
spirituale e fisica della persona come atto cristiano tra i più
edificanti. L’idea di creare luoghi destinati
all’assistenza non può essere disgiunta dall’idea
del buon cristiano che deve curare l’anima e al contempo il suo
contenitore, secondo quel riferimento dottrinario al Christus medicus
che da un punto di vista agiografico troverà compimento nei
“santi-medici” Cosma e Damiano. Nell’antichità
precristiana esistevano, naturalmente, luoghi per l’assistenza ai
bisognosi, ma la gestione era perlopiù affidata alle famiglie
con rari casi di gestione comunitaria parziale degli schiavi o dei
soldati feriti di ritorno dalle infinite campagne militari.
Ciò che balza all’occhio per quanto concerne le prime
esperienze organizzate che etichettiamo per comodità
“assistenziali” nei secoli della tardoantichità e
per tutto l’alto-medioevo è il carattere, diremmo oggi,
polivalente dei servizi offerti. I primi Xenodochia, il cui etimo, non
a caso, fa riferimento semplicemente a una sorta di “rifugio per
stranieri”, nell’accezione evidentemente tutta cristiana
dell’accoglienza disinteressata verso tutti, offrivano aiuto a
varie tipologie di “bisognosi”: certo i malati, ma anche i
poveri, chi aveva problemi di deambulazione, gli anziani, gli orfani, i
mendicanti e ovviamente, con grande fortuna nei secoli successivi, i
pellegrini. Occorre attendere, peraltro, la fine dell’VIII
secolo, con Alcuino vescovo di York, per essere certi della sostanziale
coincidenza tra gli Xenodochia, gli ospizi e gli ospedali, suggerendo
una divisione linguistica che nei fatti non era facilmente
riscontrabile.
Per questi secoli, e sostanzialmente fino al pieno medioevo, non siamo
in grado di individuare specificità architettoniche, se non
ricorrendo a modelli latamente monastici, con l’accortezza,
tuttavia, che la tipologia planimetrica del monastero costituito da
chiesa, chiostro su un lato e spazi annessi attorno a questo è
un modello che si afferma sostanzialmente in epoca tardocarolingia
lasciando un vuoto di natura testuale e archeologica difficilmente
ricomponibile per il mezzo millennio precedente. Poiché i
monasteri precarolingi erano luoghi certo recintati, tendenzialmente
isolati, anche se perlopiù visibili, lontano o ai margini delle
città, al cui interno i monaci vivevano in spazi separati con
l’eccezione della chiesa, dobbiamo immaginare che le strutture
che ospitavano i monaci erano le medesime che ospitavano i bisognosi.
Questo almeno sembra suggerire la celeberrima planimetria di San Gallo
(Fig. 1), del primo quarto del IX secolo, planimetria più ideale
che reale, ma comunque utile per ragionare sugli spazi di un complesso
monastico carolingio e quindi di tutta l’Europa governata da
Carlo Magno. Vengono indicate l’infermeria, le case per i monaci
in viaggio, per gli ospiti importanti, per i pellegrini e i poveri, ma
anche il bagno, la cucina, le piante medicinali, l’abitazione dei
medici finanche la sala dei salassi.
In letteratura, i due cambi di passo fondamentali sono quello
individuato tra XII e fine XIII secolo circa e quello del XV secolo, in
realtà come onda lunga della Grande Peste della metà del
Trecento. Nel primo cambio di passo si registra un incremento
esponenziale delle fondazioni per l’assistenza in Europa, un
incremento dettato da nuove condizioni generali (la cosiddetta
Rinascita del XII secolo), congiunturali (l’incremento del numero
dei pellegrini con le Crociate), politiche, in riferimento a un numero
maggiore di attori in gioco. Non ci sono più solo i benedettini,
la loro declinazione cluniacense e i vescovi a portare il peso, ma ora
anche nuovi ordini quali i cistercensi, i premostratensi, gli ordini
monastico-cavallereschi come, appunto, gli Ospedalieri di San Giovanni,
e infine, nei decenni a cavallo del 1200, gli umiliati e quindi il
movimento delle beghine, e immediatamente dopo gli ordini conventuali
mendicanti, francescani e domenicani. Tra gli attori in gioco, nel XII
secolo entrano prepotentemente anche i laici, sia nelle forme comunali
che nelle forme protostatali delle grandi potenze europee, ma anche in
nuove forme di evergetismo cristiano con il quale l’istituzione
di una struttura assistenziale non ha più nulla a che fare con
lo spirito cristiano e diventa perlopiù solo manifestazione
pubblica di potere, con il conseguente avvento di una nuova
santità laica tra la fine del XII e il XIII secolo, un fenomeno
su cui André Vauchez ha scritto pagine fondanti. Il XII secolo
è però ritenuto unanimemente anche il range temporale
della riscoperta della centralità della città. Gli
effetti sono immediati: le città diventano più ricche,
maggior è l’attrazione di popolazione, quindi maggiori
problemi di gestione assistenziale, conseguenza: aumento esponenziale
del numero di strutture ospedaliere. Non a caso la Scuola Medica
Salernitana raggiunge l’apice del prestigio nel XII secolo e dai
primi decenni del XIII secolo comparvero medici voluti dal Comune per
la cura “collettiva”
Tuttavia, ciò non significa che le strutture ospedaliere
diventino “cliniche mediche”. Le prime sopravvivenze
benedettine in relazione a infermerie o spazi per l’assistenza in
genere datano al XII/XIII secolo, ma è evidente, come nel caso
di Canterbury, Ourscamps o nella stessa Fossanova (Figg. 2-3), la
dipendenza da modelli planivolumetrici chiesastici e monastici in
genere. È proprio in queste fasi, tuttavia, con il rinnovato e
intenso coinvolgimento dei laici, che comincia a prendere forza la
tipologia dell’ospedale a sala, che Fabio Gabbrielli (2020)
specifica non avere nulla a che fare con i vari modelli di
Hallenkirchen e piuttosto occorre pensare a spazi quadrangolari, divisi
o meno in due o tre navate, coperti variabilmente a capriate a vista o
volte, e molto sviluppate longitudinalmente con l’unica aggiunta
di una cappella inserita nel perimetro stesso o nelle immediate
vicinanze.
È ormai un dato acquisito il collegamento tra la grande crisi
sanitaria provocata dall’epidemia di peste della metà
circa del Trecento e il grande secondo cambio di passo, quello della
fine del Trecento/inizio Quattrocento, con la nascita di nuove
mastodontiche strutture (da cui i vari “Ospedale Grande” o
“Maggiore”) che vedono la presenza fissa di medici (o
speziali), abbandonando progressivamente il carattere polivalente
nonché policentrico di strutture assistenziali che nei mille
anni precedenti aveva caratterizzato il sistema dell’accoglienza.
A questo fa da contraltare, come noto, un diverso modello
architettonico, il cosiddetto impianto a croce (Fig. 4), impianto su
cui negli ultimi decenni molti studiosi si sono concentrati per capirne
in primis l’origine – da Pavia, da Milano (Fig. 5), da
Brescia, da Firenze… – e, soprattutto, l’intenzione
progettuale. In genere, la peste aveva insegnato che la dispersione
degli spazi di assistenza non aveva ottimizzato la risposta alla
pandemia. Avere miriadi di luoghi sparsi sul territorio, per quanto in
luoghi strategici o lungo vie di passaggio obbligate, si era rivelato
poco efficace.
La risposta fu dunque una concentrazione delle strutture assistenziali,
ora meno polivalenti, certamente più specializzate, e
tendenzialmente legate a un potere laico non più appannaggio
pressoché esclusivo della Chiesa o degli ordini religiosi (Figg.
6-7). Tuttavia, è chiaro oggi che il modello degli
“Ospedali Grandi” non era stato applicato in modo acritico,
anzi, laddove si comprese che le condizioni specifiche di una
città o di un territorio portavano a potenziare l’antico
modello di architetture assistenziali diffuse si tese a ottimizzare la
coesistenza tra nuovi e vecchi sistemi.
Attingere alla storia dell’architettura come a un catalogo di
soluzioni su cui impostare nuovi sistemi progettuali, come ben noto e,
aggiungerei, scontato, è operazione delicatissima. Diventa
operazione quasi insensata assumere per altri contesti la
“geometria” di un complesso architettonico pensato per uno
spazio e un tempo specifico, con altrettante specifiche esigenze e
finalità: il rischio “effetto Las Vegas” è
dietro l’angolo. Queste ovvie considerazioni diventano forse
più pregnanti se pensiamo ad architetture dedicate
all’assistenza in senso lato; quello che trovo più
interessante è semmai interrogarci sulle ragioni delle scelte
che di volta in volta hanno determinato i singoli progetti, indagare
sugli attori in gioco religiosi e “politici”, studiare le
innovazioni spaziali a parità di condizioni ambientali,
collazionare i diversi progetti. A una riflessione generale, anche di
carattere architettonico, su tali problematiche è stato dedicato
nel 2015 un PRIN dal titolo “Alle origini del Welfare (XIII-XVI
sec.). Radici medievali e moderne della cultura europea
dell’assistenza e delle forme di protezione sociale e credito
solidale”. Ebbene, nonostante gli studi sul sistema assistenziale
medievale e primo-moderno non mancavano per il medioevo tanto da un
punto di vista storico tout-court, quanto da un punto di vista della
storia dell’architettura, una riconsiderazione generale (e
globale) della questione ha contribuito negli ultimissimi anni alla
pubblicazione in Italia e non solo di volumi miscellanei che se da un
lato offrono ampi scenari ricostruttivi dell’origine dei sistemi
di assistenza (Bianchi 2020, anche per l’imponente apparato
bibliografico, è diventato un testo di riferimento),
dall’altro, attraverso specifici case-studies, si è in
parte riplasmata una concezione forse troppo ideologica del problema
delle pratiche assistenziali medievali e moderne in favore di una
più specifica analisi dei contesti. E uno dei risultati che tali
ricerche specifiche hanno suggerito con forza è che a un certo
punto alla fine del medioevo, nacquero imprese, diremmo oggi, mutatis
mutandis, “private a compartecipazione statale” pensate per
il benessere pubblico (Figg. 8-9). Si tratta di strutture connesse
certamente a ideali di propaganda e autocelebrazione dei ceti
dominanti, ma al contempo, senza arrivare a un’immagine troppo
idealizzata del welfare tra età medievale e moderna, connesse
all’idea rivoluzionaria per quei tempi secondo cui maggiore
è il numero di persone in un dato territorio che possono avere
standards dignitosi di assistenza, maggiore è la ricchezza e il
benessere generale.
Questo aspetto merita certamente tutta l’attenzione del caso
perché proietta la questione assistenziale, già nel
medioevo, in una dimensione che va oltre la questione architettonica,
antropologica, sociale o più banalmente sanitaria. La
discussione sui possibili modelli o antimodelli medievali e moderni,
per avere ricadute utili sulle più recenti soluzioni progettuali
tendenti a sistemi integrati di assistenza partendo da una scala
urbana, dovrebbe vertere sul problema non tanto e non solo
dell’efficienza, certo aspetto imprescindibile, ma anche sulla
questione della reale ricaduta sul benessere quotidiano di una
comunità. A me pare che questo sia il vero aspetto di fondo:
nessun modello architettonico, in quasi due millenni, ha risolto la
questione, ma plurimi modelli adattati ai singoli contesti territoriali
ha portato ad esiti viepiù soddisfacenti. Se è evidente
che i Luoghi e i Centri di Salute Comunitaria richiamano, almeno sulla
carta, i più antichi ospedali tardoantichi e altomedievali
polifunzionali, da questi se ne allontanano per il loro carattere
policentrico, basato sulla distribuzione spaziale in un dato
territorio, che poteva essere invariabilmente territorio di pianura, di
mare, di strada, di città costiera o di città fluviale o
di valle. Per contro, l’“addensamento spaziale” degli
Ospedali Grandi tardo medievali e moderni, il cui modello è
talvolta ancora applicato, ha concentrato sul piano urbano
l’assistenza, ma l’estrema specializzazione medica ha fatto
perdere di vista, diluendoli in rivoli poco o male comunicanti tra
loro, tutti gli altri servizi ugualmente necessari alla persona.
Bibliografia
ALBINI G. (2017) – “Pauperes recreare: accoglienza e aiuto ai poveri nelle comunità monastiche (secoli VI-XI)”. Hortus Artium Medievalium, 23, 490-499.