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Sbacchi



Architettura che cura il pianeta




L’architettura e il pianeta malato di Michele Sbacchi è la terza pubblicazione della collana «Architettura Sostenibile. Estetica risorse riuso». Il testo affronta il tema della sostenibilità non solo in termini tecnici e tecnologici ma da un punto di vista anche umanistico e culturalmente più vicino al campo della progettazione architettonica. Il titolo del volume prende spunto dalle note riflessioni di Debord raccolte nel saggio degli anni ’70 Il pianeta malato per proiettare poi il proprio campo di indagine sull’architettura intesa come “terapia”, ovvero come una disciplina che dovrebbe smettere di essere riflesso di una società malata anch’essa per farsi invece di nuovo espressione, così come lo era in passato, del difficile equilibrio tra i poli dello sviluppo e del progresso da una lato e della sostenibilità e cura dell’ambiente dall’altro e risolvendo quindi il dilemma di questo rapporto dialettico attraverso la cultura del progetto.

Il saggio affonda le proprie radici alle origini del pensiero ambientalista nato tra gli anni ’60 e ’70 per andare ancora più a fondo in quelli che l’autore individua come due fondamentali poli di riferimento culturale per una possibile riflessione sul rapporto tra società, sviluppo e ambiente, ovvero il Trascendentalismo Americano e la Scuola di Francoforte. Del primo Sbacchi dimostra come alcuni temi nati in campo artistico e letterario con Emerson, Whitman, Thoreau abbiano transitato poi in una certa cultura architettonica che ha avuto ampia risonanza nel secolo scorso, riguardo la seconda poi, a partire da una lettura della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer, si spiega come la critica allo sfruttamento dell’ambiente operato da una società capitalista “malata” abbia animato sotto traccia la ricerca di figure come Soleri o i Metabolisti giapponesi.

Ciò che emerge è una non velleitaria permanenza della nozione di sostenibilità all’interno del nocciolo fondativo di una episteme architettonica che può rispondere, come sempre storicamente ha fatto, a questa complessa sfida in quanto “terapia dello spazio”, concetto introdotto già da Platone ne La Repubblica, innanzitutto a partire dalla città vista come un pascolo da curare che alimenta il benessere della società.

Oggi l’architettura è ancora impegnata nello svolgere con profitto questa sua fondamentale finalità terapeutica? È ancora il mezzo attraverso cui l’uomo si prende cura del proprio ambiente e quindi della società di cui si fa espressione? Tutto sembrerebbe puntare invece verso una direzione opposta nonostante gli appelli accorati da più parti. È facile infatti constatare come al cambiamento climatico non sia corrisposto un analogo cambiamento architettonico. Con lo sguardo del progettista colto Sbacchi vuole occuparsi proprio di leggere nel profondo i motivi di questo mancato allineamento e della crisi di identità disciplinare che ne deriva. Crisi che è innanzitutto incapacità di cogliere nell’intimo la necessità di una transizione non solo come fenomeno da affrontare pragmaticamente attraverso le sue manifestazioni tangibili ma da inquadrare come il risultato di quel processo di involuzione culturale che ha afflitto il nostro rapporto con la scienza e la tecnica e che è stato ben descritto da figure come Husserl. Temi di rilievo di cui l’autore riesce a descrivere con chiarezza, in esempi concreti alla piccola e alla grande scala dell’architettura e del paesaggio, il saldo radicamento nelle generali espressioni dell’abitare, trattando episodi poco noti o riscoprendoli alla luce dei nuovi interessi che sfide epocali come quella ambientale ci pongono, per restituirne sempre il tratto di una viva e motivata originalità come solo chi conosce a fondo gli argomenti e ne ha meditato nel tempo le questioni significative, lasciandole decantare nel proprio archivio personale di riferimenti, può fare.

I luoghi di riflessione sono vari, i nuovi significati ed espressioni dell’abitare e della domesticità, alcune esperienze innovative del secolo scorso non sufficientemente valorizzate, l’utilizzo dei territori per una nuova visione di paesaggio. Ambiti di ricerca che vengono in definitiva sigillati insieme attraverso una matura lettura del progetto di architettura anche alla luce dei principi dell’ermeneutica filosofica e del pensiero fenomenologico ed esistenzialista. Ci sembra quindi non scontato concordare con l’autore nel ritenere che l’architettura può continuare ad avere un ruolo solo attraverso un consapevole recupero di una necessaria profondità culturale di cui essa si deve nutrire e fare espressione. Il patrimonio delineato da Husserl e poi sviluppato da giganti come Heidegger e Merleau-Ponty è infatti lo stesso che attraverso una lunga serie di rimandi arriva poi ad alimentare la tradizione di studi di figure come Rykwert, Vesely e Perez-Gomez di cui l’autore può vantare una diretta conoscenza e che nel saggio fa da nutrimento per una critica alla attuale deriva verso una desemantizzazione anti-umanista dove gli unici parametri utili sembrano essere quelli quantitativi e non qualitativi. Deriva ben sintetizzata dal riconoscimento fatto da Adorno già agli inizi degli anni ’50 della “impossibilità dell’abitare”, ovvero la perdita di significato della nozione di domesticità. Tema che ovviamente non riguarda solo la casa ma tutta l’architettura in generale, come tramite tra il mondo, il sistema degli oggetti, il nostro corpo.

Esemplare la facile brandizzazione di parole come “borgo” o “resilienza” dietro cui si cela spesso una pletora di concetti privi di un reale spessore culturale. Dove guardare allora? Il patrimonio di micro-insediamenti dell’entroterra rurale siciliano costituisce forse l’esempio più evidente di una possibile backdoor per invertire nel progetto la rotta dell’agglomerazione urbana. Archivi a cielo aperto di un sapere costruttivo che è soprattutto condivisione di una comune visione culturale che lega comunità e continuità ambientale e che fa emergere l'importanza di concetti come contaminazione o specificità contestuale rispetto a quanto invece la abnorme crescita dell’informazione riesce ad esprimere in quanto acritica egemonia di una globalizzazione che cancella il valore dei luoghi a favore del predominio tecnologico e della standardizzazione.

L’utilizzo della storia come conoscenza operativa aiuta l’autore a costruire i propri exempla muovendosi in una lingua che appare in continua trasformazione e dove il concetto di metamorfosi emerge come qualità essenziale di organismi architettonici innovativi che dimostrano una possibile armonia di moderno e vernacolare. L’importanza di categorie sia concettuali che operative come suolo e vuoto nella definizione di nuove relazioni tra paesaggio e città (Secchi, Koolhaas, Corner) mostra la possibilità di trovare sempre delle connessioni con questioni disciplinari ampiamente sedimentate (Laugier, Milizia, Tafuri, Corbu). Tra i molti temi affrontati, di particolare interesse rispetto ai temi della contemporaneità, ci sembra quello del rapporto campagna-architettura visto nei termini di costruzione del paesaggio, soprattutto là dove l’edificio diviene contestuale al sistema produttivo agricolo mettendo in luce il complesso delle regole che governa il territorio per riunire campi (l’architettura costruita e la campagna coltivata) che studi di eccellenza come quelli di Pagano e Sereni hanno indagato in modo molto approfondito ciascuno per gli ambiti di propria competenza senza addivenire però ad una logica unitaria della loro visione. Un’altra faccia della medaglia, ancora più inusuale nelle nostre riflessioni è quella data dai così detti paesaggi dell’energia, la “coltivazione” del territorio per la produzione delle risorse energetiche rinnovabili, solare ed eolico. Stessa questione per le infrastrutture, che vengono affrontate con esempi poco noti come nel caso del viadotto Morandi ad Agrigento. Agricoltura, architettura, infrastrutture, sistemi di produzione energetica, tutti ambiti che devono entrare in nuova visione omogenea e strutturata di paesaggio come “costruzione logica”. Dato che l’architettura del futuro sarà sempre più la trasformazione dell’esistente, il tema di una sua lettura ermeneutica diviene sempre più centrale, strategica rispetto all’interpretazione e governo di questa metamorfosi.

In definitiva, oltre alla scrittura di grande freschezza, serena e priva di inutili complicazioni come in tanta letteratura specialistica, alle rarissime e quanto mai brevi note, alla originale e non scontata bibliografia, ciò che appare cogente tra le caratteristiche di questo breve volume è la capacità del suo autore di creare cortocircuiti tra campi disciplinari solitamente poco propensi a dialogare, rendendo concretamente tangibili temi ed esperienze anche molto lontane rispetto alla nostra pratica quotidiana e allo stesso tempo elevando al rango di materia scientifica fatti ed esempi che in genere non riescono ad evadere dagli ambiti della cultura locale o degli specialismi, capacità che in genere è maggiormente riscontrabile come qualità del relazionare in figure più vocate all’applicazione concreta nelle discipline compositive e che qui trova espressione in un saggio che del progetto ritrova l’attitudine a far coesistere materie differenti, eterogenee per caratteristiche e temporalità, in una unità significativa rendendole tutte ugualmente contemporanee. Un atteggiamento, non privo di sprezzatura, capace di accogliere tutta la complessità del reale, il cui esempio più rappresentativo è forse proprio quello adottato da Scarpa in Sicilia nella sistemazione di ‘u Cubu, il palermitano Palazzo Steri.

Antonio Biancucci



Scheda libro

Autore: Michele Sbacchi
Titolo: L’architettura e il pianeta malato
Lingua del testo: Italiano
Editore: Tab Edizioni
Caratteristiche: formato 15 x 22 cm, brossura, colori
ISBN: 9788892955646
Anno: 2023