Quel numero di
«Casabella» introduceva alla cultura architettonica italiana
ed europea in generale, presentandone anche lo statuto e
l’organigramma, l’Institute
newyorkese fondato nel 1967
da Peter Eisenman assieme ad Arthur Drexler, l’allora
direttore del Department of Architecture and
Design
del Museum of Modern Art di New
York
e dallo storico e critico inglese Colin Rowe professore presso la Cornell University, e può con il senno di
poi essere interpretato come un passaggio fondamentale
verso la futura pubblicazione della rivista «Oppositions»,
destinata a diventare negli anni ’70 agente di trasformazioni
radicali per la
cultura architettonica statunitense ed iniziatrice e punto di
riferimento,
l’unico a suo tempo, dell’articolarsi di un
dibattito teorico sull’architettura
e della sua internazionalizzazione.[2]
Il primo numero
di «Oppositions» uscirà dalle stanze
dell’Institute,
alle cui vicende sarà inestricabilmente legata, due anni
dopo, nel settembre del
1973 proponendo un progetto di revisione della culturale architettonica
che
intendeva allinearsi alle risposte date alle trasformazioni
socio-economiche dei
due decenni precedenti ed ai sommovimenti politici e culturali che
negli anni
precedenti avevano messo in discussione i precetti modernisti
sull’architettura
e la città.[3]
A dirigerla è un comitato di redazione formato dall’architetto statunitense Peter Eisenman, dall’architetto argentino Mario Gandelsonas e dallo storico inglese Kenneth Frampton e tra il 1974 e il 1982, e con successive aggiunte al corpo redazionale degli storici Anthony Vidler e Kurt Forster, a questo primo numero ne seguiranno altri 24. Il numero 26 del 1984, considerato apocrifo da molti dei membri dell’IUAS, chiuderà in sordina la serie marcando anche la definitiva chiusura dell’Institute.
Il numero di «Casabella», presentando per la prima volta pubblicamente una
sintesi di temi di fondo che stavano alle spalle delle discussioni
condotte all’interno
dell’Institute
sull’ambiente urbano ed
il ruolo dell’architettura nei processi della sua formazione,
ed evidenziandone
le comuni premesse teoriche, si presenta come punto di passaggio
determinante e
chiarificatore per la storia intellettuale dell’IAUS
e, in quanto tale, passo fondamentale di transizione verso la
produzione della sua rivista «Oppositions».
La monografia rappresenta in oltre la prima concretizzazione
dell’ambizione a
lungo perseguita dal suo fondatore e direttore Eisenman di inserirsi
nella ricca
storia delle riviste d’avanguardia, le cosiddette Little Magazines, ambizione questa di cui
forse è utile rendere
seppur brevemente conto.[4]
Durante la sua permanenza in Inghilterra agli inizi degli anni ’60, a contatto con riviste come «Architectural Design» e «Architectural Review», innovative e profondamente coinvolte nei cambiamenti culturali della società post-bellica anglosassone, e con le pubblicazioni di gruppi impegnati nella revisione e contestazione della lettera del Movimento Moderno come Team 10 ed Archigram, sia con i vivaci ambienti dell’Architectural Association e dell’Indipendent Group, Eisenman si rende subito conto della necessità per la cultura architettonica americana divisa tra il dominante pragmatismo professionale e l’isolamento culturale dell’accademia, di un luogo di discussione critica che, similmente alla situazione inglese, potesse istituire un rapporto produttivo tra ricerche teoriche e storiche, nuovi modelli pedagogici e nuove proposte di pratica professionale rispetto al tema della progettazione urbana, intrappolata, negli Stati Uniti, nei processi di pianificazione quantitativa incapaci di affrontare, se non addirittura loro causa diretta, le pressanti contraddizioni socio-economiche che la città americana ed il territorio extraurbano stavano vivendo in quegli anni.
La convinzione
dell’importanza per la cultura architettonica in generale, e
per quella americana in particolare, della definizione di un gruppo di
ricerca autonomo,
sul modello del Team 10, e sulla vitale necessità di un organo di
stampa quale strumento per la diffusione di ricerche e di discussione
sull’esempio dei numeri monografici di «Architectural
Design» o di «Le
Carré
Bleu» dedicati
appunto al lavoro del Team10, si rafforza durante due viaggi che
Eisenman compirà con
il suo collega e mentore Colin Rowe nell’Europa
continentale ed in particolare in Italia. Durante questi viaggi
Eisenman
scoprirà le avanguardie europee e soprattutto le loro
riviste, da «De Stjil» a
«Mecano», a «L’Esprit Nouveau» fino a «Casabella» di Pagano e
«Spazio» di Moretti,
riviste di cui diventerà per altro un insaziabile
collezionista, comprendendone
a pieno il ruolo polemico che esse avevano giocato
nell’affermarsi della
cultura modernista tra le due guerre.[5]
Nel 1963, al
ritorno negli Stati Uniti con un incarico da Assistant Professor
a Princeton, Eisenman inizia a lavorare assieme al collega M. Graves ad
un
progetto di città lineare
aggregata attorno al
sistema infrastrutturale esteso tra Boston e Washington, di cui
disegneranno il
segmento compreso tra New York e Philadelphia. Il progetto che prenderà il nome di
Jersey Corridor, e che nella sua forma sperimentale intendeva
testare l’architettura quale pratica specifica di definizione
spaziale in
relazione a scale caratteristiche delle pratiche di pianificazione
territoriale
e a confronto con un sostanzioso contributo interdisciplinare, così come il
cospicuo supporto finanziario al progetto da parte della scuola
offrirà
ad Eisenman l’opportunità di raccogliere un numero
di giovani
architetti agli esordi della carriera accademica.[6]
Ciò che caratterizzava questo gruppo era, come per Eisenman,
la coscienza
dell’insufficienza rispetto ai problemi
dell’ambiente costruito sia dei modi
della pratica professionale corrente tendenzialmente ad orientamento
tecnocratico ed a-critico, che dei contenuti
dell’insegnamento universitario che
nei suoi argomenti appariva isolato, ed impotente, nei confronti delle
vicende
reali delle trasformazioni urbane. Il risultato fu
l’organizzazione di un
gruppo di lavoro che prese il nome di CASE, acronimo di Conference of Architects for the Study of
the Environment.[7]
L’intenzione programmatica del gruppo era quella di discutere
nel contesto di
una serie di conferenza, se ne terranno 8 in tutto tra Princeton,
il MIT ed il
MoMA, e con presentazioni pubbliche di progetti concreti, quei temi che
riguardavano le questioni del ruolo dell’architettura in
quanto pratica di definizione
della forma fisica dell’ambiente costruito in relazione ai
processi di
pianificazione, della sua formulazione teorica e della sua funzione
politica a
fronte dei problemi della città americana
contemporanea,
particolarmente pressanti in quegli anni sia per la incontrollata
crescita dei
suburbs, sia per le tensioni sociali presenti nei centri urbani spesso
degradati, dei temi sollevati dalla spinta alla multi-disciplinarietà, del rinnovo
dei modelli pedagogici assieme ad una ridefinizione del rapporto
tra cultura architettonica e pratica professionale, fino ad occuparsi
di questioni
di percezione e psicologia della forma. Convinto della necessità di un canale di
diffusione e discussione dei prodotti di CASE, con i fondi
stanziati dall’università per le ricerche legate
al progetto del Jersey
Corridor e con l’offerta di un insegnamento a Princeton,
Eisenman “importò”
dall’Inghilterra lo storico Kenneth Frampton, conosciuto
durante il
soggiorno inglese e al tempo editore tecnico di «Architectural Design»,
con lo
specifico compito di impostare una rivista che diventasse
l’organo ufficiale di
CASE. La rivista, che avrebbe dovuto prendere il significativo nome di «Re:Form», a causa delle divergenze tra
Eisenman
e Frampton, quest’ultimo propose infatti un gruppo di
redattori che non
comprendeva l’architetto americano, non vide mai la luce.
Molti dei temi dibattuti riguardo il ruolo specifico dell’architettura nelle trasformazioni della città centrali per gli sviluppi di CASE rimarranno tali anche durante i primi anni di attività dello IAUS e costituiranno l’esperienza da cui emergeranno i testi pubblicati su «Casabella», ma tra tali temi uno in particolare, non ancora esplicitamente in evidenza nel numero della rivista italiana come lo sarà poi invece in «Oppositions», e spesso trascurato dalla critica, delinea chiaramente quello che sarà un tratto fondamentale del progetto culturale del gruppo dello IAUS e contemporaneamente struttura portante della rivista. Tale tema è il risultato del convergere nella formazione di CASE da un lato del modello storico-critico definito alla fine degli anni ’40 da Colin Rowe, membro di CASE fin dall’inizio e che ricordiamo allievo di Wittkower al Warburg Institute, nei suoi saggi Mathematics of the Ideal Villa e Mannerism and Modern, assieme alle elaborazioni in forma teoretica che di tale modello stava sviluppando Eisenman a seguito della sua tesi di dottorato e dei primi sviluppi del lavoro su Terragni, e dall’altro delle posizioni di altri due membri fondatori di CASE, Stanford Anderson and Herry Millon, entrambi professori di storia al MIT, posizioni le loro emerse dalla discussione tenutasi al famoso Cranbrook Teachers Seminar del 1964 dove venne proposta come storicamente necessaria la connessione tra Storia, Critica e Teoria quale base su cui ripensare, in esplicita opposizione alla tradizione del Movimento Moderno, la struttura dell’insegnamento e della pratica dell’architettura.[8] Questa triangolazione di Storia, Critica e Teoria sarà, come detto, per Eisenman ed i suoi compagni di strada alla base dell’idea dell’IAUS pensato come un luogo dove «condensare in un singolo processo l’insegnamento, la ricerca e la progettazione» con l’intenzione di «colmare il vuoto tra il mondo teorico delle università e quello pragmatico degli enti preposti alla pianificazione»[9] e concepito come un centro studi dove una ristretta comunità di professionisti impegnati nell’articolazione teorico-disciplinare, storici, critici, e studenti collaborava a ricerche e progetti concreti in cui la disciplina architettonica si esercitava su temi urbani reali proposti e finanziati da istituzioni pubbliche quali l’agenzia federale Department of Housing and Urban Development (HUD) o l’Urban Development Corporation (UDC), agenzia delle stato di New York, il tutto sotto il patronato del Dipartimento di Architettura e Design del MoMA. Soprattutto, questa triangolazione diventerà la struttura portante attorno a cui si ordinerà la produzione della futura rivista dell’Institute.
Nonostante il
primo fallimento del progetto di una rivista, prima CASE
e poi, come sua continuazione, lo IAUS
riusciranno a produrre un numero di
pubblicazioni esemplari delle attività del gruppo e di
un certo impatto culturale, per lo meno per la scena
americana. Le ipotesi di lavoro iniziali di CASE sul tema del progetto
urbano
trovarono una prima concretizzazione nel catalogo della mostra New City: Architecture and Urban Renewal
in cui membri di CASE presentarono
progetti
di riformulazione urbana per l’intera parte settentrionale
dell’isola di
Manhattan prodotti da gruppi di lavoro costituiti all’interno
delle rispettive
università.[10]
È sull’onda di questa mostra, e come risposta di Eisenman alla
bocciatura
della sua candidatura alla cattedra a Princeton, che l’Institute prenderà forma,
continuando il lavoro
iniziato da CASE e perseguendo
sempre
l’obiettivo di pubblicazioni dallo spiccato contenuto di
ricerca. Le pubblicazioni
per mano dello IAUS che
precederanno l’uscita
di «Oppositions» includeranno il
lavoro
di ricerca New Urban Settlements
commissionato nel 1968 dalla New York City Planning Commission solo
parzialmente pubblicato nell’anno successivo; An
Other Chance for Housing: Low Rise Alternatives del 1973,
catalogo dell’omonima mostra tenutasi sempre al MoMA e che
presentava i
risultati progettuali di un lavoro di ricerca e progettazione su nuove
tipologie residenziali iniziato alla fine degli anni ’60 e
commissionato del
New York State Urban Development Corporation e di cui alcuni esempi
saranno poi
realizzati negli anni seguenti e, forse il più importante tra
questi, l’impegnativo studio diretto da Stanford Anderson,
esemplare
per la ricchezza degli importati contributi multidisciplinari, sul tema
della
strada urbana e che vedrà la stampa solo
nel 1978 con il
volume On Streets, curato dallo
stesso Anderson, con fondamentali saggi prodotti per la maggior parte
di membri
dello IAUS come quelli di J.
Rykwert,
A. Vidler, T. Schumacher, D. Agrest, K. Frampton, ma anche con
importanti
contributi di sociologi ed antropologi come quello di R. Gutman. A ciò vanno aggiunti
la pubblicazione nel 1972 del volume Five
Architects, esito dell’ultimo meeting di CASE al MoMA,
e del
catalogo della mostra, la prima organizzata all’Institute,
dedicata al Costruttivismo e curata da K. Frampton e dal
pittore R. Slutky.[11]
È in relazione a questo panorama di ricerche e pubblicazioni diverse per soggetto e formato, che emerge il ruolo e l’importanza che rivestirà per l’Institute, e per le ambizioni di Eisenman, sempre proiettate verso il progetto di una rivista emule di quelle delle avanguardie storiche, il numero monografico di Casabella quale momento di sintesi, ed al contempo di esposizione internazionale, non tanto delle singole ricerche e degli specifici casi studio, quanto, cosa molto più importante, per la definizione dello sfondo teorico comune da cui tale ricerche specifiche traevano origine e sul cui sfondo potevano essere inquadrate.
Per avere un quadro certamente non esaustivo ma forse sufficiente a comprendere il contesto e le ragioni implicite al progetto del numero monografico di «Casabella» è fondamentale anche tenere conto dei cambiamenti che si stavano verificando all’interno dello stesso IAUS tra la fine degli anni ‘60 ed il ’73, e di come questi, allargando e moltiplicando l’orizzonte dei temi e prospettive messi in discussione nelle attività dell’Institute contribuiranno ad una trasformazione ed ampliamento dei contenuti critico-teorici di cui «Casabella» può essere considerato il primo tentativo di sintesi, ed «Oppositions» quello maturo ed al contempo più problematico. Il gruppo iniziale, allargatosi subito a comprendere lo storico Stanford Anderson, l’architetto argentino e liaison con il MoMA Emilio Ambasz ed il pittore Robert Slutzky, nel ’71 si arricchirà stabilmente di figure culturalmente alquanto diverse con l’arrivo di K. Frampton, che guardava all’architettura da posizioni critiche della società consumistica vicine al neo-marxismo della Scuola di Francoforte ed alle posizioni di Hannah Arendt, di Joseph Rykwerk, dell’architetto T. Schumaker, del sociologo ed antropologo Robert Gutman, aggiunta importante che introdurrà temi legati all’antropologia strutturale, e soprattutto degli architetti argentini Mario Gandelsonas a Diana Agrest, arrivati da Parigi dove avevano frequentato i corsi di R. Barthes alla Ecole Pratique des Hautes Etudes e i circoli intellettuali post-strutturalisti raccolti attorno alla rivista «Tel Quel», per ricordare qui solo alcuni dei molti arrivi, attivi con varie responsabilità nelle attività dell’Institute. Da non sottovalutare è anche il contributo, per ora esterno, di A. Vidler che portava nell’Institute una visione della storia informata dal pensiero foucaultiano. L’arrivo di queste nuove figure corrisponde, e ne è reso in parte possibile, alla crescente popolarità dell’Institute ed alla conseguente crescita del numero delle scuole affiliate che ebbe come effetto il significativo aumento delle rette pagate da un sempre maggior numero di studenti. A seguito di questa crescita l’Institute cambierà sede spostandosi in uno spazio molto più ampio che comprendeva, nei due piani occupati, uno spazio dedicato a mostre, una biblioteca, una sala conferenze, ed altri spazi disponibili ad altre attività oltre che all’insegnamento e che permettevano la gestione delle numerose nuove attività culturali che iniziavano allora a prendere autonomamente forma. In tale nuovo contesto il numero di «Casabella» avrebbe quindi dovuto offrire l’opportunità di rispondere a una necessaria formulazione, al di là delle specifiche occasioni di ricerca e progettazione, dei possibili principi concettuali generali condivisibili dai diversi discorsi che iniziavano emergere all’interno dell’Institute.
Tale sfondo concettuale troverà esplicita espressione nel titolo stesso dato al numero della rivista: il concetto di Città come un Artefatto applicabile per estensione a tutto l’ambiente antropico, cosi come, per riduzione alla singola architettura, è, con le sue complesse implicazioni, l’ipotesi concettuale, la posizione filosofica sottesa non solo ai saggi presentati ma più in generale all’attitudine culturale dell’Istitute. A tale proposito è eloquente il breve frammento iniziale del saggio L’Ambiente come Artefatto: Considerazioni Metodologiche in cui lo storico e critico S. Anderson sintetizza in maniera efficace le implicazioni generali premesse a tale assunto. Lo storico americano apre il suo saggio affermando che «Un villaggio primitivo rivela non solo i materiali e le tecnologie disponibile agli individui che l’hanno costruito, ma anche [...] la cosmologia di quella società. Ciò non è meno vero in una società tecnologica “avanzata”». Il rifiuto di discutere di tali contenuti metafisici ammonta per Anderson all’oscurare «il più significativo compito dell’architettura: lo stabilire una sempre maggiore corrispondenza tra i nostri valori e il nostro ambiente fisico. […] L’architettura – come ogni altra oggettivazione della conoscenza umana – non si limita alla pura “espressione” o alla “comunicazione”. Essa produce affermazioni di verità che sono costantemente verificate dalla continua evoluzione delle metafisiche del soggetto, sia dalle limitazioni e dalle possibilità poste dal mondo delle cose e degli individui»[12]. Per Anderson è fondamentale il riconoscimento, condiviso in forme e con accenti diversi dagli altri autori, della natura intenzionata, cosciente o inconscia che sia, e al tempo stesso dialetticamente complessa della forma della città, delle sue architetture e della sua organizzazione spaziale e ciò che è sintetizzato in queste poche righe, assumibile come si è detto a base concettuale del lavoro e degli scritti degli altri membri dell’Institute, è la comprensione dell’architettura, e con essa di tutto l’ambiente antropico, quale oggetto culturale complesso, teso tra da un lato la specificità e autonomia dei suoi obiettivi – la ricerca sulla natura, sul ruolo e sul significato della forma fisica in architettura e nella costruzione della città – e delle sue strumentazioni specifiche, e cioè la sua natura di tecnica specifica ed autonoma non solo nei suoi mezzi ma anche nei suoi contenuti, e dall’altro dalla natura di oggetto plurale, poroso, stratificato, i qualche modo “poliglotta”, posto all’intersezione di processi dialettici storicamente determinati che intercorrono tra soggetto e realtà ed in cui l’architettura è simultaneamente prodotto ed agente. E` questa duplice accezione dell’architettura quale agente primario nella costruzione dell’ambiente fisico che la porrà, per i membri dell’Institute, all’interno del campo delle discipline umanistiche mettendola cosi in relazione con i contemporanei sviluppi di discipline quali la linguistica, l’antropologia, la sociologia e la geografia urbana ed i loro contemporanei sviluppi con le implicazioni concettuali e teoriche che ciò portava con se e che come vedremo segneranno la storia di «Oppositions».
Nel numero di «Casabella» queste due polarità ancora latenti ed in tensione tra loro – la coesistenza di autonomia ed eteronomia quale duplice natura dell’oggetto architettonico quale oggetto culturale – si manifestano da un lato nel saggio di Eisenman Appunti sull’architettura concettuale - Verso un definizione, dedicato al primato del contenuto concettuale nella determinazione delle leggi interne ai processi di definizione formale dell’oggetto architettonico e, dall’altro, nella critica socio-politica di Frampton influenzata, come abbiamo detto dal pensiero della Scuola di Francoforte, all’urbanismo inclusivista venato di populismo di D. Scott Brown e R. Venturi[13]. I due saggi definiscono gli estremi di uno spettro di posizioni possibili lungo il quale si collocheranno non solo i diversi saggi critico-metodologici pubblicati sulla rivista italiana, ma costituiranno anche i poli impliciti all’interno dei quali si svilupperà l’intera storia del dibattito che caratterizzerà, soprattutto per i primi numeri, la rivista americana.
Va osservato che, definito in tal modo, quale complesso oggetto culturale, l’artefatto architettonico e la sua funzione nella costruzione dell’ambiente dell’uomo sono posti ontologicamente in antitesi all’ idea modernista sia di oggetto-manifesto, emblema di un futuro idealmente ipotizzato, che di oggetto tecnico prodotto, per usare le parole di K. Frampton, del “totalitarismo della tecnica” e del suo assemblaggio in forma urbana e, assieme alla posizione che vedeva legate indissolubilmente Storia, Critica e Teoria, rendono evidente al gruppo dell’IAUS la necessità di un tipo di pubblicazione di cui il numero di «Casabella» è un primo tentativo, ma che dovrà trovare una propria forma specifica, distanziandosi fondamentalmente dai modelli forniti originariamente ad Eisenman ed al suo gruppo dalle riviste delle avanguardie storiche. Sarà infatti la tensione prodotta da tale ricerca che costituirà la spinta vitale di «Oppositions», il dinamismo e la ricchezza del suo progetto culturale.
La coscienza
della storicità di tale
esigenza sarà chiaramente
espressa, come ha già sottolineato la storica J. Ockman[14],
solo più tardi, nel
1974, nell’editoriale
dal tono decisamente programmatico di introduzione al secondo numero
della
rivista dove i tre originari redattori, Eisenman, Frampton e
Gandelsonas, dichiareranno
come «dovrebbe essere apparso al
lettore
del nostro primo numero che «Oppositions» si presenta con uno spirito
analogo a
quello delle così
dette “Little Magazines” degli
anni ’20 e ’30, e questo non è per nulla un caso
dato che gli editori
continuano ad essere degli ammiratori di riviste polemiche come «De
Stijl» e
«L’Esprit Nouveau». Allo stesso tempo è
palesemente
ovvio che questo è difficilmente
il momento
opportuno per l’emergere spontaneo di quel tipo di riviste
polemiche; il tempo
per questi tipi di discorsi polemici è
passato e non abbiamo alcun interesse a riesumarli». A
tale condizione i tre redattori rispondono affermando che nel
praticare una critica attiva alle condizioni contemporanee della
progettazione,
il progetto perseguito dalla rivista consisterà in una
“nuova forma polemica di
natura dialettica piuttosto che retorica”, non
più quindi una militante
rivista-manifesto quanto piuttosto un forum aperto anche a posizioni
polemicamente divergenti.[15]
Ma torniamo brevemente alla cronaca. Al numero di «Casabella» farà seguito l’anno successivo il tentativo di replicare in ambito anglosassone con un numero monografico di «Architectural Design», rifiutato dagli editori che, in aggiunta, letteralmente amputarono in varie parti un articolo di Eisenman dedicato al progetto per i Robyn Hood Gardens degli Smithson[16]. Saranno questi rifiuti che spingeranno Gandelsonas a suggerire la pubblicazione di una rivista propria, di cui propose anche il titolo, prodotta interamente all’interno dell’Institute e curata dallo stesso Gandelsonas assieme ad Eisenman e Frampton.
Il primo numero
di «Oppositions»
sarà composto da cinque saggi, quasi tutti già
scritti in precedenza, firmati
da altrettanti membri dell’Institute: Rowe pubblica il saggio
Neoclassicism and Modern Architecture
scritto tra il ’56 e il ‘57; Eisenman propone From Golden Lane to Robin Hood Gardens,
versione integrale del
testo censurato da «Architectural Design» con enfatizzati in grassetto i
passaggi
soppressi dagli editori della rivista inglese; Frampton pubblica Industrialization and the Crisis of
Architecture, testo di una conferenza risultato dei suoi
studi sul lavoro
della filosofa tedesca Hannah Arendt; Vidler un saggio critico sulla
natura
regressiva delle contemporanee utopie architettoniche dal titolo News from the Realm of No-where;
Gandelsonas
e Diana Agrest, pubblicano Semiotics and
Architecture: Ideological Consumption or Theoretical Work,
sintesi del loro
approccio semiotico alla critica del rapporto tra ideologia e teoria
nella
pratica architettonica.
Ai tre redattori la difficile dialettica tra posizioni che assumendo la natura di oggetto culturale della architettura si muovevano a partire da contesti e preoccupazioni culturali affatto diversi e che «intendono discutere e sviluppare nozioni specifiche riguardo alla natura dell’architettura e della progettazione in relazione al mondo costruito» appare da subito evidente: nell’editoriale di apertura i tre redattori sottolineano tre differenti terreni di discussione sottolineando come «le […] rispettive preoccupazione per discorsi formali, socio-culturali e politici si faranno sentire nel redire congiuntamente «Oppositions». L’opposizione a cui si allude nel titolo incomincia prima e soprattutto in casa.»[17] Il riferimento, in parte diretto all’allargamento del dibattito interno all’Institute ampliatosi con l’arrivo di Frampton, Agrest e Gandelsonas, e non solo, è diretto soprattutto ai contenuti dei tre saggi rappresentativi delle posizioni dei tre redattori – l’analisi e la critica concettuale della forma nel saggio di Eisenman, l’analisi e la critica del rapporto tra architettura ed industria culturale nel contesto tardo-capitalista di Frampton, l’analisi e la critica dal punto di vista semiotico della natura ideologica della prassi teorica in architettura di Agrest e Gandelsonas - che triangolando fin da subito il dibattito interno alla rivista tra autonomia ed eteronomia delineano il terreno tematico su cui si depositeranno nel tempo una costellazione variegata di contributi critici. E se la scelta della parola “opposition” come titolo della rivista intende ritagliare, sulla falsa riga polemica delle riviste d’avanguardia care al gruppo, una posizione e una linea programmatica comune di critica alla pratica contemporanea dell’architettura, è la resa plurale della parola, con l’aggiunta della “s” finale, che conferma il taglio plurale, ma non neutralmente pluralista, dei possibili contenuti che in essa troveranno spazio, cosi come la constatazione, ed accettazione, che l’analisi e la critica all’architettura in quanto oggetto culturale non potrà che riprodurne le molteplici, coesistenti ed a volte antitetiche nature. E ancora, quale significativa evidenza della discussione interna sulla natura ed il senso della rivista è la stessa grafica scelta da Eisenman per la bozza della copertina che con la prima P di «Oppositions» resa trasparente, scelta che significativamente rimarrà tale solo per i primi due numeri, propone la lettura alternativa del titolo come “O Positions”, suggerendo da un lato l’idea di un contenitore neutro, un forum nelle parole degli editori, disponibile almeno in parte, a ricevere contenuti appunto diversi e dall’altro, come è stato già notato, proponendo un chiaro riferimento di ascendenza barthiana ad un grado-zero del pensiero sull’architettura, ad un momento cioè di ripensamento e rifondazione delle basi ontologiche del discorso teorico in architettura.[18] Come nota a margine, va notato il fatto, tutt’altro che irrilevante soprattutto riguardo non solo all’evoluzione del profilo internazionale che la rivista assumerà a breve, ma anche alla mutata composizione degli affiliati all’Institute, che gli autori, ad eccezione di Eisenman, e a differenza dal numero di «Casabella», sono tutti direttamente o per specifiche influenze culturali, come nel caso di Gandelsonas e di Agrest, di provenienza europea.
Il tentativo di
soluzione in sintesi di questa difficile dialettica, la
necessità di trovare una
forma alla
relazione tra posizioni divergenti e di fatto in polemica tra di loro,
trova
nel secondo numero una risposta nella formula di una griglia
concettuale che denoterà le diverse
sezioni del palinsesto della rivista e che, come programmaticamente
riconosciuto nell’editoriale scritto ancora a tre mani,
introduce ora esplicitamente
il trittico Critica-Storia-Teoria quale ordito della sua struttura:
«In breve, ciò
a cui
tendiamo è incentivare
un numero di discorsi
specifici; vale a dire, la critica di progetti costruiti quali veicoli
di idee;
la revisione del passato quale mezzo per determinare le necessarie
relazioni
esistenti tra forma costruita e valori sociali; la definizione di uno
spettro
di discorsi teorici che colleghino ideologia e forma
costruita;». Come corollario
e supporto a questa ossatura tematica sono aggiunti «la documentazione di archivi poco conosciuti
quale mezzo per l’avanzamento del sapere e del pensiero nel
settore in
generale: la pubblicazione di recensioni e lettere direttamente
collegati alle
discussioni in atto. Per quel che riguarda il valore di
quest’ultimo punto,
esso ci sembra essere essenzialmente duplice: innanzitutto quello di
una
discussione in atto sul ruolo della forma fisica
nell’architettura e
nell’urbanistica di oggi: e poi le indivisibili implicazioni
ideologiche e
socio-politiche della produzione architettonica nel suo insieme.».
I titoli
delle diverse sezioni, che rimarranno tali per tutto l’arco
della vita della rivista,
saranno rispettivamente Oppositions,
specificatamente dedicata all’attività critica, History e Theory,
seguiti
da Documents e Reviews
and Letters.[19]
In coerenza con questo definizione programmatica il secondo numero si apre a contributi esterni alquanto differenti tra loro quali quelli di Stuart Cohen, Physical Context/Cultural Context: Including it All, dedicato ai concetti in inclusione e contestualismo, di C. Rowe su Character and Composition e The Fountainhead della critica d’arte Rosalin Krauss dedicato al Minimalismo, e vede, nella sezione documenti, assieme od un testo di R. Koolhaas sul Dom Narkomtjazjpron di Leonidov, l’esordio quale curatrice di un’ampia bibliografia ragionata sugli Smithsons di Julia Bloomfield, che dal numero successivo diventerà redattore tecnico della rivista, e d’ora in poi sarà unanimemente riconosciuta figura indispensabile per il suo assemblaggio e la riuscita della sua pubblicazione.
Il terzo numero
di «Oppositions»
pubblicato nel maggio del ’74 segna un altro decisivo e
fondamentale passo
nell’evoluzione del dibattito tra gli editori sui contenuti
critici della
rivista a fronte dell’aporetica contrapposizione tra
autonomia ed eteronomia. Dopo
aver affermato con lucidità che «[…] siamo
più
che coscienti della necessità
di giustificare l’esistenza di una rivista che persiste nel
tentativo di
offrire un discorso critico su un soggetto la cui essenze e significato
sono
troppo marginali rispetto agli interessi della società
in generale. Un prevalente scetticismo ci obbliga […] a
chiederci in che cosa,
semmai, costituisce il fattore comune alla nostra posizione editoriale», i
tre editori continuano costatando che al contempo
“E` diventato progressivamente chiaro che siamo profondamente
divisi
riguardo all’importanza che ciascuno di noi attribuisce alla
relazione tra architettura
e società.” e
che «[…] le nostre
rispettive
posizioni come redattori sono più rilevanti per il modo in
cui si differenziano
che per quello che hanno in comune. In breve, ci siamo resi conto
sempre di più
dell’impossibilità
di scrivere un editoriale a più
mani e come risultato abbiamo raggiunto la decisione che questo
sarà il nostro
ultimo sforzo comune.»[20]
Dalle parole di Eisenman, Frampton e Gandelsonas, ben lontane dal descrivere una semplice polemica personale quanto piuttosto testimonianza della condizione critica in cui si viene a trovare la cultura architettonica negli anni ‘70 constatata direttamente all’interno del loro dibattito, emerge la coscienza ormai chiara dell’irriducibilità a sintesi dialettica dei diversi linguaggi di lettura e interpretazione critica dei processi di costruzione dell’ambiente fisico, letto al di fuori del determinismo tecnico del modernismo, e del contemporaneo neo-modernismo, cosi come di una lettura univoca della natura e del ruolo dell’architettura al loro interno. Paradossalmente sarà proprio questa riconosciuta ed accettata impossibilita, questo riconosciuto “fallimento” nel costruire una rivista “di movimento”, di tendenza come furono quelle delle diverse avanguardie storiche, espressa cosi chiaramente dagli editori, assieme al permanere della struttura del suo palinsesto, a determinare la fortuna, e la longevità, della rivista che continuerà fino alla fine e con successo ad essere il contenitore delle voci e dei contributi più importanti del dibattito internazionale e che anzi di questa internazionalizzazione sarà la principale artefice.
A conferma della
presa di coscienza di tale condizione, e realizzando che a
fronte dell’impossibilità storica di convergenze
movimentiste la strada da
seguire sarà quella della moltiplicazione, sebbene alquanto
selettiva, delle
voci iscritte al dibattito, in
quello stesso
numero viene pubblicato il saggio L’Architecture
dans le Boudoir di Manfredo Tafuri, che introduce ai lettori
di lingua inglese
la posizione dello storico italiano, e con lui quella
dell’Istituto di Storia
dell’Architettura di Venezia, sullo stato
dell’architettura di quegli anni, aggiungendo
cosi altri contenuti di discussione e orientando l’attenzione
verso la
produzione critica italiana particolarmente cara non solo a Eisenman ma
anche a
Gandelsonas e Agrest, responsabile quest’ultima
dell’invito di Tafuri a
Princeton e del conseguente incontro tra lo storico italiano ed il
gruppo dell’Institute.[21]
Come
preannunciato i tre successivi numeri di «Oppositions» saranno
introdotti da tre editoriali, aggiunti con titolo proprio quali parti
organiche
alla scaletta della rivista e firmati ognuno da un singolo redattore.
– nel
numero 4 On Reading Heidegger di K.
Frampton; nel numero 5 Neo-Fuctionalism
di M. Gandelsonas; nel numero 6 Post-Fuctionalism
di P. Eisenman – in cui vengono riaffermate le rispettive
linee di ricerca ed a
cui seguirà, nel numero 7, l’editoriale The
Third Typology scritto da A. Vidler, nuova aggiunta, a
partire da questo
numero, al gruppo dei redattori. Contemporaneamente si
amplierà lo spettro dei
contributi, e con essi dei contenuti, che troveranno spazio nelle
pagine della
rivista. Tra i più significativi, ed indicativi
dell’ampio ventaglio di posizioni
che grazie alla struttura della pubblicazione troveranno congruo posto
nelle
sue pagine, possiamo menzionare nel numero 5 dell’estate 1976
il saggio di R.
Moneo Aldo Rossi: The Idea of
Architecture and the Modena Cemetery, il progetto stesso di
Rossi presentato
con il titolo originale The Blue of the
Sky assieme ai testi alquanto critici, sebbene da versanti
opposti, delle
posizioni di parte del gruppo dei redattori, come quello di Tafuri sul
lavoro
dei NYFive American Graffiti: Five x Five
= Twenty-five e quello di D. Scott Brown On
Architectural Formalism and Social Concern: A Discourse for Social
Planners and Radical Chic Architects; nel numero 6
l’importante testo di
Agrest Design versus Non-Design,
acuta
analisi di natura semiotica proprio della tensione concettuale tra
autonomia ed
eteronomia disciplinari, assieme a tre saggi, rispettivamente di C.
Rowe, C.
Moore e V. Scully dedicati al lavoro di R. Venturi ed al suo progetto
per il Yale
Mathematics Building; nel numero 7 assieme al saggio di J. Rykwert Classic and Neo-Classic, il testo di B.
Tschumi Architecture and Trasgression.
[22]
A marcare la
discontinuità conseguente alla chiusura di
quest’altro ciclo
nella vita della rivista, chiusura che verrà riconosciuta
con l’editoriale del
numero 9, l’ultimo prodotto a firma collettiva dai redattori,
il numero 8, definito
come Special Issue, sarà
un numero
monografico curato da A. Vidler dal titolo Paris
under the Academy: City and Ideology quale risposta critica
al
convenzionalismo critico della mostra The
Architecture of the Ecole des Beaux-Arts allestita al MoMA
alla fine del
1975. A questa prima versione a tema monografico della rivista ne
seguiranno
altre tre, tutti considerabili quali veri e propri volumi a
sé stanti: i due
ricchi numeri doppi 15/16 del 1979 e 19/20 del 1980 curati entrambi da
K.
Frampton e dedicati rispettivamente all’opera di Le Corbusier
prima e dopo la
guerra e il numero 25 del 1982 dal titolo Monument/Memory
curato dello storico svizzero K. Forster, che si aggiungerà
al gruppo
redazionale a partire da «Oppositions»
numero 12 nella primavera del ’78.[23]
Nell’editoriale
premesso al n. 9 che risulterà, se si esclude il caso
isolato di quello a firma di Vidler nel n. 17[24]
a buon diritto un vero e proprio saggio dedicato al confronto critico
tra
Storicismo ottocentesco e neo-storicismo Post-modernista, essere come
detto l'ultimo
della serie prodotto collettivamente, i redattori delineano il bilancio
dei
primi quattro anni di pubblicazioni, sottolineando con ragione il ruolo
ricoperto
da «Oppositions» nel definire il
luogo
ed il terreno deputati allo sviluppo di una discussione teorico-critico
di alto
livello promuovendo ed animando da un lato il dibattito tra critici ed
architetti e dall’altro quello tra Europa ed America. Gli
autori riaffermano
poi l’obiettivo di fondo di una ricerca impegnata alla
definizione delle “basi ontologiche
dell’architettura
contemporanea; la natura della sua pratica e le fondamenta della sua
produzione
formale e tecnica.” e di come questa
continuerà a essere esercitata sui tre
livelli di Critica, Teoria e Storia, e cioè attraverso il
mantenimento delle
originali sezioni della rivista, esaminando la natura di concetti come
“formalismo”, “realismo”,
“modernismo” e
“post-modernismo”.[25]
Con l’intento di continuare nel loro ruolo simultaneo di promotori ed attori della discussione, sia all’interno della rivista che per suo tramite, i redattori, abbandonata la forma dell’“Editorial”, si proporranno da qui in poi, oltre che sollecitare e selezionare i saggi da pubblicare ed a firmarne un buon numero loro stessi, di commentare i testi delle sezioni “Oppositions” e “Theory” con estese introduzioni critiche definite prima come “Commentary” ed in seguito “Postscript”. Questa nuova forma di intervento si estinguerà nel giro di pochi numeri per poi scomparire del tutto a sottolineare in parte i cambiamenti culturali avvenuti agli inizi degli anni ’80 sia fuori, con l’emergere di correnti post-strutturaliste che iniziando una critiche profonda di alcune delle categorie culturali da cui era emersa «Oppositions» incominciarono a re-orientare gli interessi di alcuni dei principali attori, che dentro all’Institute che a questo punto con l’arrivo di figure quali R. Moneo, R. Koolhaas e B. Tschumi, A. Rossi, M. Scolari e G. Ciucci, per menzionare solo alcuni, risulta così ampliato e così diversificato da vivere ormai per necessità di una articolata vita propria. A ciò si devono aggiungere motivi legati alle preoccupazioni e agli impegni dei redattori, che seppur ancora impegnati nella produzione della rivista, si trovano progressivamente sempre più coinvolti in attività accademiche e progettuali al di fuori dell’Institute.
E se
quest’ultimo editoriale che assume contemporaneamente il tono
di consuntivo,
di seppur minimo programma futuro, e in un certo senso di commiato,
segna la
fine del dibattito interno alla rivista concentrato sul grande sforzo
di
definizione in termini unitari della specifica natura disciplinare
dell’architettura e di una sua definizione teorica, «Oppositions» nei successivi 16 numeri non
vedrà per nulla ridotta la
sua funzione di palcoscenico delle posizioni e discussioni
più avanzate che la
cultura architettonica degli anni ’70 e primi ’80
ha espresso. La programmatica
posizione critica nei confronti della pratica
dell’architettura e la struttura
delle sezioni in cui la rivista continuerà ad essere
organizzata, legate, lo ripetiamo, all’ipotesi della
fondamentale relazione tra Critica, Storia e Teoria attraverso il cui
filtro,
per usare le parole conclusive di quest’ultimo editoriale, «Oppositions» proseguirà ad
interrogare «il destino
dell’eredità umanista nell’epoca della
modernità; la
specifica natura dell’ideologia ed il suo ruolo nella
produzione culturale; la
natura problematica dell’architettura e
dell’urbanistica soggette all’impatto
dell’accelerazione della produzione e del consumo; ed infine
la natura delle
operazioni linguistiche nella produzione ed assimilazione
dell’arte non verbale»,
continueranno ad inquadrare in discussione i contributi più
significativi avanzati
dalla cultura architettonica del decennio.[26]
Non è qui il luogo per entrare nel dettaglio dei singoli contributi o delle differenti posizioni e scuole di pensiero che troveranno spazio nelle pagine della rivista, è pero forse necessario citare i nomi di alcuni dei più significativi autori per rendere l’idea dell’ampiezza dell’orizzonte culturale che continuò a convergere nella rivista. Nelle sue pagine, assieme ai numerosi saggi dei redattori, in particolare Frampton e Vidler che continueranno a sviluppare le loro linee critiche, troveranno spazio gli interventi di storici di diverse scuole come il già citato M. Tafuri, che tra il ’74 ed il ’79 pubblicherà le sezioni principale di La Sfera ed il Labirinto, inclusa l’introduzione Il Progetto Storico, a cui va aggiunto il lungo testo Giuseppe Terragni: Il Soggetto e la Maschera, e di altri esponenti della scuola veneziana come F. dal Co, G. Teyssot, G. Ciucci, R. Masiero, accanto ad S. Anderson, A. Colquhoun, K. Forster, ed anche S. von Moos, I. Sola-Morales, H. Yatsuka, per citare solo alcuni tra i più conosciuti, ed ai primi scritti di una emergente leva femminile di storiche come Mary McLeod e Joan Ockman. Tra gli architetti “progettisti”, responsabilizzati dalla redazione ad esprimere posizioni teorico-critiche piuttosto che semplicemente dei progetti, oltre ai già citati Eisenman, Agrest, Gandelsonas, Moneo che continueranno a pubblicare loro saggi, possiamo citare figure affatto diverse che andranno da D. Libeskind a P. Johnson a G. Grassi, da H. Fujii a O. Bohigas, L. Kier.
Negli anni ’80 e ’90, con il consolidarsi delle carriere accademiche dei fondatori e di molti degli autori associati alla rivista, le discussioni che avevano animato le pagine di «Oppositions» si trasferiranno nel mondo accademico: al MIT Anderson stabilisce il PhD in History, Theory and Criticism in Architecture, Art and Urban Form che dirigerà dal 1974 fino al 1991; Eisenman insegna alla Cooper Union ed a Princeton; alla Cooper Union insegna anche Agrest e, per un breve periodo, Tschumi; a Princeton, dove insegnava anche Gandelsonas, Vidler sarà Chair del programma di PhD dedicato alla Teoria e Storia dell’Architettura fino ai primi anni ‘90; nei primi anni ‘70 Frampton inizia ad insegnare alla Columbia dove poi dirigerà per molti anni il programma di dottorato in Teoria e Storia dell’Architettura; alla Columbia insegneranno anche le storiche Mary McLeod e Joan Ockman che sarà a lungo direttrice del Buell Center for the Study of American Architecture, cosi come B. Tschumi che nel 1988 ne diventerà Dean.
A raccogliere il testimone della discussione teorica sull’architettura ed a riempire il vuoto culturale che la chiusura di «Oppositions» aveva lasciato, sarà la rivista «Assemblage», diretta per 41 numeri, dal 1986 al 2000, dallo storico Michael Hays, formatosi sotto la guida prima di H. Millon e poi di S. Anderson, e da Alicia Kennedy, e che tra i membri dell’iniziale Advisory Board annoverava M. Gandelsonas, S. Anderson and M. McLeod.[27] «Assemblage» procederà sulle orme del progetto culturale impostato dalla rivista dell’Institute ampliandone con una diversa e maggiore consapevolezza l’orizzonte dei temi e delle ambizioni che ne avevano sostenuto il dibattito al suo interno, cosi come all’esterno, ed aprendosi ad una nuova generazione di critici, storici e progettisti che stava emergendo verso la fine degli anni ‘80.
Caratterizzando
nel editoriale posto ad introduzione del primo numero la
nozione di «Assemblage» come un
concetto che «suggerisce materiali
presi
in prestito e trasformati, dalla storia, dalla critica letteraria,
dalla
filosofia, dalla politica; suggerisce eterogeneità,
collisione, incompletezza»,
ma «distinto dal passivo ed
omni-comprensivo
pluralismo», i redattori definiranno appunto la
rivista come «un contenitore
dedicato ad una conoscenza di
opposizione» e dirigeranno la loro attenzione
direttamente alla questione
del confine instabile tra autonomia ed eteronomia non solo della
pratica
architettonica, ma anche quelle della storia e della critica
riconoscendo che «forme di
attività dalle modalità accettate
come standards operativi possono essere tanto coercitive quanto
produttivi; e
confini disciplinari sono troppo spesso definiti per mantenere lo status
quo» e che quindi «Occuparsi
adeguatamente
di architettura e della sua condizione mondana deve spesso implicare
l’attraversamento di barriere disciplinare
istituzionalizzate» ponendo per così
dire sotto inchiesta proprio quel trittico iniziale su cui si era
costituito il
progetto di «Oppositions».[28]
Le
parole che lo
storico Michael Hays pone a conclusione di una sua
riflessione sulla vicenda di «Oppositions»
illustrano chiaramente la fase di transizione generazionale che
Assemblage ha rappresentato: «mentre la teorizzazione del
autonomo operare
dell’architettura non fu mai abbandonato del tutto dalla
generazione che adottò il
discorso di «Oppositions», nuove strategie testuali, basate
su quelle
forgiate
da «Oppositions», incominciarono a reindirizzare
l’architettura
verso costruzioni
tematiche che mai erano state parte del repertorio di
«Oppositions»
– soggettività
e sessualità, potere e proprietà, geopolitica ed
altri temi» ricorrendo, in
questi processi di transcodificazione sempre più a tecniche
derivate dal decostruttivismo, dalla psicoanalisi e dalla critica
teorica. Hays
conclude: «Sebbene alla
metà degli anni
’80 la teoria avrà già
cominciato ad articolarsi in
maniera diversa dal modello di «Oppositions», la
modalità teorica
continuerà ad avere il
medesimo effetto di allargamento degli ambiti sociali e culturali
dell’architettura, ampliandone nei fatti le conseguenze
pratiche.»[29]
Ma il vero
legato di «Oppositions» rimane la grande messe di materiali
critici depositata nelle sue pagine, un lascito che testimonia di uno
dei più
ricchi dibattiti nella storia dell’architettura sulla natura
e funzione della
disciplina, della sua autonomia e del suo complesso legame con processi
politici,
economici e sociali, quale attività intellettuale investita
di valori ed
obiettivi che trascendono la pura e semplice risposta tecnologica a
bisogni e
necessità pratiche. Un
lascito questo di
particolare importanza in tempi in cui, usando le concise parole
proferite da
K. Frampton nel recensire sul numero 7 di «Oppositions» il volume di R.
Banham The Architecture of the Well-Tempered
Enviroment, «la
più grande felicità
del più gran numero è
vista nella razionalizzazione
del benessere dell’uomo per mezzo della tecnologia; la
polemica anti-arte vede
benaccetta la determinazione di “cultura”
attraverso il consenso; la
realizzazione del destino umano è
[perseguito] non attraverso
scelte politiche,
ma attraverso i processi di un mercato manipolato», tempi in cui
rimane fondamentale ricordare che «alla
fine, un “a-priori tecnologico è un a-priori
politico” per quanto
remoto possa apparire dai campi di azione immediata del potere».[30]
[1] Casabella n.359-360: The City as an Artifact -
Dicembre 1971, EditriceCasabella. Il numero della rivista fu
interamente
prodotto da K. Frampton che per l’occasione si
trasferì per un breve periodo a
Milano per lavorare a contatto con la redazione della rivista.
[2] Frank, Suzanne: IAUS: An Insider Memoir,
AuthorHouse, AuthorHouse - 2010; Förster Kim: The Institute
for Architecture
and Urban Studies, New York, 1967–1985: Networks of Cultural
Production, gta
Publisher, ETH Zurich – 2017.
Fondamentale
testimonianza sull’Institute è il documentario
prodotto da Diana Agrest: The
Making of an Avant-Garde: The Institute for Architecture and Urban
Studies
1967-1984 – 2013. Vedi anche: Rispoli, Ernesto-Ramon: Ponti
sull’Atlantico.
L’Institute for Architecture and Urban Studies e le relazioni
Italia-America
(1967-1985). Quodlibet – 2013.
[3] La rivista «Oppositions»: Journal for Ideas and
Criticism in Architecture è solo una, seppure la prima, di
numerose iniziative
editoriali che a partire dal 1973 saranno intraprese dall’Institute for
Architecture and Urban Studies. Del 1976 è la pubblicazione
presso l’Institute
della rivista «October», tuttora attiva, curata dalle critiche
d’arte R. Krauss e
A. Michelson. Nel 1978, sotto la guida iniziale di A. McNair, viene
lanciato il
mensile in formato tabloid «Skyline» dedicato specificamente agli eventi
che
animavano sia la vita culturale dell’Institute che la scena
newyorkese completo
di annunci, recensioni, brevi saggi e calendario degli eventi. Nello
stesso
anno inizia la pubblicazione della serie dei cataloghi dedicati alle
mostre
organizzate dall’Institute. Ne verranno pubblicati 16 in
tutto e tra questi
vale la pena ricordare quelli dedicati a M. Scolari – il
primo della serie con
un’introduzione di M. Tafuri– ad A. Rossi, alle
case texane di J. Hejduk, a I.
Leonidov o quelli dedicati a mostre collettive come Idea as Model e New
Wave in
Japanese Architecture. Tra l’‘81 e
l’’82 l’Institute inizia la pubblicazione
degli Oppositions Books. Ne verranno pubblicati 5: il volume Essays in
Architectural Criticism di A. Colquhoun, la Scientific Autobiography,
prima
edizione in assoluto, e The Architecture of the City di A. Rossi,
Spoken into
the Void di A. Loos e la traduzione degli scritti di M. Ginzburg Style
and
Epoch. Tra i volumi progettati la seconda raccolta di saggi loosiani In
Spite
of, le raccolte di saggi di T. van Doesburg, di K. Frampton, di M.
Cacciari e
di A. Isozaki, e The Sphere and the Labirinth di M. Tafuri. Come per «Oppositions», la grafica di tutte le pubblicazioni
dell’Institute fu curata da
M. Vignelli.
[4] Vedi B. Colomina, G. Buckley: Clip, Stamp, Fold:
The Radical Architecture of Little Magazines 196X to 197X, Actar
– 2011. Il
volume contiene una conversazione e delle interviste con P. Eisenman,
K. Frampton,
M. Gandelsonas e A. Vidler.
[5] La ricca collezione di riviste assemblata da
Eisenman, pamphlets e documenti originale delle avanguardie, dai primi
anni ’20
fino agli anni ’60, è ora conservata presso la
Beinecke Rare Books &
Manuscripts Library della Yale University. Vedi il catalogo pubblicato
in
occasione della mostra della collezione a cura della biblioteca stessa:
Architecture in Dialogue: The Peter Eisenman Collection at Yale,
Beinecke Rare
Books & Manuscripts Library della Yale University –
2012.
[6] Per il progetto del Jersey Corridor vedi P.V.
Aureli, M. Biraghi, F. Purini, Peter Eisenman. Tutte le Opere, Electa
– 2007,
pg. 56 – 57. Anche:
http://www.architectmagazine.com/videos/michael-graves-new-jersey-corridor-project.
[7] S. Anderson, CASE and MIT: Engagement in AAVV a
cura di A. Dutta, A Second Modernism: MIT, Architecture, and the
‘Techno-Social’ Moment, MIT Press – 2014
pg. 578-651. Sulla storia di CASE vedi
anche gli atti del convegno Revisiting CASE tenutosi al MIT nel 2015.
Parte
degli atti è consultabile nella pagina
https://architecture.mit.edu/history-theory-and-criticism/event/revisiting-case.
[8] C. Rowe: Mathematics of the Ideal Villa in
Architectural Review, Marzo 1947; Mannerism and Modern Architecture in
Architectural Review, Maggio 1950; entrambi ora in C. Rowe: La
matematica della
villa ideale ed altri scritti, a cura di P. Berdini, Zanichelli Editore
– 1990.
P.
Eisenman: The
Formal Basis of Modern Architecture. Dissertation 1963, Lars
Müller – 2003;
Traduzione italiana P. Eisenman: La base formale
dell’architettura moderna, Pendragon
– 2009.
AAVV:
The History,
Theory and Criticism of Architecture. Papers from the 1964 AIA-ACSA
Teacher Seminar,
a cura di M. Whiffen. The M.I.T. Press – 1965. Il
volume contiene
saggi di P. Collins, B. Zevi, S. Chermaieff, S. Moholy-Nagy, S. W.
Jacobs, S.
Anderson e R. Banham.
[9] Citato in: Frank, Suzanne: IAUS: An Insider
Memoir, AuthorHouse– 2010;
[10] AAVV:
The New
City: Architecture and Urban Renewal, The Museum of Modern
Art, New York –
1967.
[11] AAVV: New Urban Settlements n1: analytical phase,
Institute for Architecture and Urban Studies – 1969; AAVV:
Another chance for housing:
low-rise alternative; Brownsville, Brooklyn, Fox Hills, Staten Island:
an
exhibition at the Museum of Modern, The Museum of Modern Art, New York
– 1973;
AAVV: On Streets: Streets as Elements of Urban Structure, a cura di S.
Anderson, MIT Press – 1978; AAVV: Five Architects, Wittenborn
Art Book, Inc. -
1972.
[12] S. Anderson: L’ambiente come artefatto:
considerazioni metodologiche in: Casabella n. 359-360: The City as an
Artifact
- Dicembre 1971, pg. 71-77, Editrice Casabella. E` forse interessante
notare
come l’interesse per il rapporto strutture culturali e
costruzione
dell’ambiente fisico espresso da Stanford Anderson attraversi,
seppure in forme
e con obiettivi e risultati alquanto diversi, una parte significativa
della
cultura architettonica degli anni ’50 e ’60, dagli
interessi per l’antropologia
di elementi del Team X come gli Smithson, A. van Eyck, G. Candillis e
S. Woods
al tema della memoria collettiva negli scritti di Aldo Rossi e Vittorio
Gregotti, eredi delle analisi urbane di Saverio Muratori e del pensiero
di
Ernesto Rogers.
[13] P. Eisenman: Appunti sull’architettura
concettuale - Verso una definizione, pg. 48-57; D. Scott Brown: Il
“Pop”
insegna, pg. 14-23; K. Frampton: America 1960-1970. Appunti su alcune
immagini
e teorie della città, pg. 24-38; D. Scott Brown: Risposta
per Frampton, pg.
39-46, in: Casabella n.359-360: The City as an Artifact - Dicembre
1971,
Editrice Casabella.
[14] J. Ockman: Resurecting the Avant-Garde: the
history and program of Oppositions in ARCHITECTUREPRODUCTION, Revision
n.2, a
cura di Beatriz Colomina, Princeton Architectural Press –
1988, pag. 181-199.
[15] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas:
Editorial statement in Oppositions n. 2, The Institute for Architecture
and
Urban Studies – Gennaio 1974.
[16] P. Eisenman: Robin Hood Garden London E14,
Architectural Design n. 42 – settembre 1972, pag. 73
– 92.
[17] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas:
Editorial statement, in Oppositions n.1, The Institute for Architecture
and
Urban Studies – Settembre 1973.
[18] A tale proposito vedi J. Ockman: Resurecting the
Avant-Garde: the history and program of OPPOSITIONS in
ARCHITECTUREPRODUCTION,
Revision n.2, a cura di Beatriz Colomina, Princeton Architectural Press
– 1988,
pag. 182.
[19] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas:
Editorial statement in Oppositions n. 2, The Institute for Architecture
and
Urban Studies – Gennaio 1974.
[20] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas:
Editorial statement in Oppositions n. 3, The Institute for Architecture
and
Urban Studies – Maggio 1974.
[21] In realtà Tafuri, solo pochi anni
prima, aveva
già pubblicato un saggio critico in lingua inglese nel
catalogo della mostra
dedicata all’architettura radicale italiana allestita
nell’estate del 1972 al
MoMA da E Ambasz ed intitolata Italy: New Domestic Landscape.
Achievements and
problems of Italian Design.
M.
Tafuri: Design
and tecnological utopia in Italy: New Domestic Landscape. Achievements
and
problems of Italian Design a cura di E. Ambasz, The Museum of Modern
Art e
Centro Di – 1972.
[22] Scorrere gli indici di questi 4 numeri di «Oppositions» da un’idea della sorprendente, ed al tempo stesso
disorientante,
varietà di posizioni espresse nelle pagine della rivista.
«Oppositions» n. 4,
Wittenborn Art Book, Inc. – Ottobre 1974: Editoriale di K.
Frampton: On
Heidegger; P. Eisenman: Real and English: Robert A.M. Stern: Yale
1950-1965;
Mimi Lobell: Kahn, Penn, and the Philadelphia School; E. Ambasz: A
Selection
from Working Fables; A. and P. Smithson: The Space in between. Nella
sezione
Documents: Karel Teige’s Mundaneum, 1929 and Le
Corbusier’s In Defense of
Architecture, 1929, Introduction by George Baird; Luigi Moretti: The
Values of
Profiles, 1951; Structures and Sequences of Spaces, 1952, Introduction
by
Thomas Stevens; Paul Rudolph: Alumni day speech: Yale School of
Architecture,
February 1958.
«Oppositions» n. 5,
MIT Press – Estate 1976: Editoriale di M. Gandelsonas:
Neo-Fuctionalism; R
Moneo: Aldo Rossi: The Idea of Architecture and the Modena Cimitery; A.
Rossi:
The Blue of the Sky; M. Tafuri: American Graffiti: Five x Five =
Twenty-five;
A. Vidler: The Architecture of the Lodges: Ritual Form and
Associational Life
in the Late Enlightenment; D. Scott Brown: On Architectural Formalism
and
Social Concern: a discours for Social Planners and Radical Chic
Architects.
Nella sezione Documents: The magazine Veshch/Gegenstand/Object.
Commentary,
Bibliography, and Translation by Kestutis Paul Zygas.
«Oppositions» n.6 MIT
Press – Autunno 1976: Editoriale di P. Eisenman:
Post-Functionalism; C. Rowe:
Robert Venturi and the Yale Mathematics Building; C. More: Conclusion;
V
Scully: The Yale Mathematics Building: some Remarks on Sitting; K.
Frampton:
Constructivism: The Pursuit of and Elusive Sensibility; D. Agrest:
Design
versus Non-Design; Nella sezione Documents: William S. Huff: Symmetry:
An
Appreciation of its Presence in Man’s Mind; Gruppo Sette:
“Architettura” (1926)
and “Architettura (II): The Foreigners” (1927)
– Introduction by Ellen R.
Shapiro.
«Oppositions» n.7 MIT
Press – Inverno 1976: Editoriale di A Vidler: The Third
Typology; W. Seligmann:
Runcor: Historical Precedents and the Rational Design process; M.
Pawlwy: “We
shall not bulldoze WestminsterAbbey”: Archigram and the
Retreat from Tecnology;
J. Rykwert: Classic and Neo-Classic; B. Tschumi: Architecture and
Transgression. Nella sezione Documents: i 10 – Commentary,
Bibliography and
Translations by Suzanne Frank.
[23] «Oppositions» n. 8, Paris under the Academy: City
and Ideology a cura di A. Vidler -Primavera 1978, MIT Press; «Oppositions» n.
15/16, Le Corbusier 1905-1933 a cura di K. Frampton –
Inverno/Primavera 1979,
MIT Press; «Oppositions» n. 19/20, Le Corbusier 1933-1960 a cura di K.
Frampton –
Inverno/Primavera 1980, MIT Press; «Oppositions» n.25, Monument/Memory a
cura di
K. Forster – Autunno 1982, MIT Press.
[24] A. Vidler: Editorial – After Historicism
in «Oppositions» n. 17 – Estate 1979, MIT Press.
[25] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas, A.
Vidler: Editorial, in «Oppositions» n. 9 – Estate 1977, MIT
Press, pg. 1. «[..]
the
ontological bases of contemporary architecture: the nature of its
practice and
the foundations of its formal and technical production».
[26] P. Eisenman, K. Frampton, M. Gandelsonas, A.
Vidler: Editorial, in «Oppositions» n. 9 – Estate 1977, MIT
Press, pg. 2.
[27] Le vicende della rivista «Assemblage», ed in
particolare quelle che porteranno alla sua volontaria chiusura, si
intrecciano
a partire dagli anni ’90 con il dibattito attorno
all’emergere della tecnologia
digitale e meritano un’analisi approfondita ancora tutta da
fare. Lo stesso
discorso vale per i prodotti editoriali - rivista, conferenze e libri -
di
quell’operazione cultura, anch’essa partita nei
primi anni ’90, che andava
sotto il nome di «ANY», e che, diretta da Cynthia Davidson, aveva alle
spalle il
diretto input di Eisenman. «ANYONE Corporation» è tuttora
attiva e sempre sotto
la direzione di Davidson continua la sua attività
pubblicando la rivista «LOG» e
la serie per MIT Press Writing Architecture.
[28] M. Hays, Alicia Kennedy: About Assemblage in
Assemblage n.1 – Ottobre 1986, MIT Press, pg. 4-5.
[29] M. Hays: The Oppositions of Autonomy and History
in «Oppositions Reader: Selected readings from A Journal for Ideas and
Criticism
in Architecture 1973-1984, a cura di M. Hays – 1998,
Princeton Architectural
Press, pg. XIV.
[30] K. Frampton: On Reyner Banham’s The
Architecture
of the Well-Temper Environment, in «Oppositions» n. 7 – Inverno
1976, MIT Press,
pg. 86-89.