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Nell'aprile dello scorso anno, presso il Magazzino delle idee di Corso Cavour a Trieste, ha avuto luogo la mostra dal titolo “Tu mi sposerai”. Opere di Gigetta Tamaro
(1931-2016). Della mostra – curata da Luciano Semerani –
rimane disponibile un bel catalogo edito dalla Marsilio con
scritti di Carlo de Incontrera, Alberto Ferlenga, Giovanni Fraziano,
Giorgio Grassi, Lorenzo Michelli e Boris Podrecca. Ma soprattutto, con
numerosi disegni in parte inediti e fotografie di opere –
progetti realizzati e non, modelli, dipinti, assemblage, décollage, bricolage – e di persone.
Il catalogo è di per sé ricco che basterebbe sfogliare
l’indice per coglierne il tono lieve e il carattere riflesso nei
titoli di alcuni scritti della Gigetta: “Tu mi sposerai”,
Trieste una città per vecchi, sì/no, La formazione
artistica, gli amici, gli incontri, le mostre, La bella confusione:
«La bella confusione
è il paradigma della libertà stilistica nel modo di
lavorare, di vivere il tempo libero, nell’ospitalità,
negli abiti, nelle collezioni di oggetti, nel modo di scrivere e di
insegnare, leggero e profondo insieme, nel partecipare alla costruzione
architettonica come a un gioco» (Semerani a p. 17 del catalogo).
Il catalogo è di per sé un’opera che racconta di
opere, che raccontano la vita delle persone, di quella che è e
di quella immaginata dal progetto di architettura. Le persone e la vita
sono al centro a loro volta di un gioco in cui sono palleggiati tra
architettura e narrazione. Nella presentazione di un bel convegno sul
rapporto tra architettura e narrazione (Archiletture)
organizzato a Bologna qualche tempo fa si legge «Se il progetto
architettonico moderno nelle sue pratiche ideative e operative, ha
eletto a strumento privilegiato la rappresentazione per immagini,
confinando la scrittura nell’ambito della teoria o della
burocrazia, resta il fatto che una dimensione narrativa è
ineliminabile dal processo creativo dell’architettura nel momento
in cui, misurandosi con i suoi possibili destinatari e proponendosi la
vita di concreti esseri umani come misura, è costratta a
immaginare la vita, passata o futura, che attraverso essa scorre e
prende forma».
La creatività di Gigetta è proprio di questo tipo. Il
racconto e la scrittura (proprio nel senso materiale e concreto delle
parole scritte che accompagnano gli schizzi di progetto), da un lato e
le forme architettoniche, dall’altro si palleggiano il compito di
esprimere un’architettura densa di significato. Questo
significato – a differenza che per altri architetti – ha
ben poco di astratto e vuole essere ritrovato all’interno di un
nucleo concreto ed emozionale. Ricordo un suo bellissimo scritto (la
voce “Facciata” nel Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno)
in cui le ragioni dell’architettura sono chiarite nel circolo in
cui si rincorrono “corpo” e “desiderio”:
cioè fare dell’architettura il luogo dell’incontro (Encounter
è anche il titolo di un bel saggio su John Hejduk, un altro
architetto che si intendeva di architettura e narrazione) tra la sua
forma e i nostri desideri, tra la forma di una casa e come
desidereremmo che una casa fosse. Certo, non si può negare che
ci siano molti tipi di desideri e rispondenti a diversi caratteri
psicologici, ma Gigetta scavalca il problema con un bel salto
all’indietro verso il luogo in cui la misura
dell’autenticità del rapporto tra corpo e desiderio
è assegnata al mondo dell’infanzia, del gioco e della
favola. Questo considerare l’architettura un gioco in cui prende
forma una narrazione permette a Gigetta di far proprie le diverse
tecniche di trasfigurazione e gli artifici di cui la letteratura
dispone, le diverse figure retoriche, dalla metafora
all’allegoria. Ricordo la leggerezza con cui – in un
progetto di concorso che non compare in questo catalogo – un
nastro si svolgeva in un ponte e si arricciava in due rotoli che
poggiavano alle estremità opposte della riva di un fiume e che
assomigliavano tanto a due giganteschi capitelli ionici.
La stessa leggerezza, la stessa ironia, lo stesso nucleo emozionale si
ritrovano nel rapporto di Gigetta con le persone. Una delle cose che
non lasciano indifferenti all’interno del catalogo sono le
fotografie di persone, che raccontano la dimensione pubblica di
Gigetta. Perché Gigetta era un personaggio pubblico: alla faccia
di Bauman e della solitudine del cittadino globale lei condivideva
tutto – intelligenza, coraggio, simpatia e cibo…
Sulla natura ludica e linguistica del suo modo di comunicare (e della
sua architettura) mi piace concludere con un altro esempio, che compare
nel catalogo. Ho sempre in mente come un grande strumento didattico e
di trasmissibilità del sapere l’esempio in cui, in Passaggio a nord-est,
Luciano Semerani parla della base e del capitello come
dell’inizio e della fine della colonna. Questo stesso concetto
nel disegno della Gigetta diventa un interrogativo magico-surrealista
in cui la domanda fatta agli studenti diventa: «Un gatto che alza
la coda dichiara: fine del gatto! Una scala come lo fa?»
Che il ricordo del suo sorriso ci dia forza...
Lamberto Amistadi
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