FA(little)Magazine e le “piccole riviste” di architettura del XX secolo

Lamberto Amistadi, Enrico Prandi

CCA
Immagine della mostra Clip/Stamp/Fold 2: The Radical Architecture of Little Magazines 196X - 197X, Canadian Centre for Architecture, 2007. © CCA


È di qualche giorno fa la riflessione di Nicola di Battista sul ruolo e la funzione delle riviste di architettura cartacee nel contesto dell’avvicendamento alla direzione di «Domus», a cui approda un Michele de Lucchi che si presta con Carlo Cracco e Lapo Elkann a posare per la copertina di «AD - Architectural Digest» (dicembre 2017) in un nuovo progetto comune ideato dallo stesso rampollo di casa Agnelli – Garage Italia –, che ha trasformato la stazione di servizio Agip progettata da Mario Bacciocchi nel Dopoguerra in Piazzale Accursio a Milano in hub dell’italian style: cibo, macchine e design. 
Di Battista sostiene che «una rivista deve essere capace sì, di far vedere e conoscere progetti, prodotti, pensieri che il nostro tempo produce ma, soprattutto, di raccontare le storie che li rendono possibili, le storie che li sottendono»[1]. 
È quello che abbiamo cercato di fare in questo numero inaugurale di «FAMagazine», che inaugura non la rivista – nata ormai già nel lontano 2010 – ma la sua nuova veste grafica e la nuova piattaforma OJS – Open Journal System insieme con il nuovo indirizzo web www.famagazine.it
La storia che abbiamo voluto raccontare in questo numero 43 è la storia di alcune riviste di architettura italiane e degli USA, che hanno deciso il dibattito architettonico nell’ultimo quarto del secolo scorso e il racconto del passaggio dal mondo delle riviste cartacee a quello del digitale, cui appartiene «FAMagazine».
La decisione di aprire questa nuova stagione di «FAMagazine» con un numero sulle riviste di architettura è di per sé un esplicito riferimento autoanalitico. Tra queste ci sono molte “piccole riviste” o “Little Magazine” per cui se inizialmente l’appellativo era riferibile soprattutto al formato e ad un circuito limitato di influenza, spesso frutto di un’editoria indipendente, di nicchia o non commerciale, con il passare del tempo ha finito per denotare alcuni caratteri che rendono tali riviste particolarmente interessanti per la ricerca di architettura come l’impulso alla sperimentazione, la tendenza (o meglio la tendenziosità) del board editoriale nell’indirizzare il pensiero e nella volontà di solcare nuove strade di ricerca, il dar voce a linguaggi disciplinari nuovi, meno comuni, avanguardistici. Una sorta di laboratorio sperimentale delle idee.
Il fenomeno delle Little Magazine, nato negli anni venti nell’ambito delle correnti letterarie americane e molto indagato negli Stati Uniti soprattutto a partire dal Secondo Dopoguerra, ha finito per sconfinare disciplinarmente – come spesso accade tra le diverse arti – ed investire l’architettura, cosicché, come ci ricorda Claudio D’Amato, alla Little Magazines Conference: After modern Architecture, il 3-5 febbraio 1977 organizzata dall’IAUS di New York erano presenti molti dei protagonisti del dibattito architettonico che in quel momento si proponevano di rilanciare attraverso lo strumento della rivista il dibattito sull’architettura, la teoria e la critica: «Architese» (Bruno Reichlin, Stanislaus Von Moos), «Arquitectura Bis» (Oriol Bohigas, Federico Correa, Rafael Moneo), «AMC-Architecture Mouvement Continuité» (Jacques Lucan, Patrice Noviant), «Controspazio» (Alessandro Anselmi, Claudio D’Amato), «Lotus» (Pierluigi Nicolin, Joseph Rykwert) e molti altri interessati a partire dall’organizzatore stesso, Peter Eisenman e dagli amici dell’Institute of Architecture and Urban Studies neworkese come Edith Girard, Mario Gandelsonas, Anthony Vidler, Stanford Anderson, Livio Dimitriu, Alessandra Latour, Lluis Domenech, Peter Blake, Kenneth Frampton, Robert Gutman, Colin Rowe, George Baird, Peter Marangoni, Diana Agrest, Suzanne Frank.
Autentiche Little Magazine in Architettura sono state le riviste d’avanguardia degli Anni Venti del Novecento che hanno raccolto attorno a sé correnti ideologiche e i loro gruppi promulgatori, quando non nascevano specificatamente come strumento di diffusione dei loro valori: «G» (1923-26) e «Bauhaus» (1928-1933) in Germania, «Sovremennaia Arkhitektura» (1926-30), «Lef» (1923-25) e «Veshch» (1922) in Russia, «Wendingen» (1918-1931) e «de Stijl» (1917-31) in Olanda, «L'Esprit Nouveau» (1920-25) in Francia e tutti i periodici futuristi in Italia come «Valori plastici» (1918-21), «Lacerba» (1913-15), «Noi» (1917-20 e 1923-25).
Analogo fenomeno è riscontrabile nella seconda metà del Novecento in cui le condizioni storiche rendevano possibile un ritorno non tanto delle avanguardie storiche quanto un atteggiamento di rottura, quello sì neo-avanguardistico, che tra gli anni Sessanta e Settanta ha prodotto il fenomeno della seconda stagione di Little Magazine oggetto di indagine (e di una mostra) organizzata al CCA-Centre Canadian of Architecture da Beatriz Colomina e Craig Buckley dal titolo Clip/Stamp/Fold 2: The Radical Architecture of Little Magazines 196X-197X.[2]
È interessante notare come la seconda stagione delle Little Magazine in Architettura ha come caratteristica quella di scaturire dall’interno delle Scuole di Architettura in cui gli studenti, più dei Maestri della prima stagione (basti pensare a Le Corbusier e «L’Esprit Nouveau») rappresentano la voce del cambiamento culturale. Non è un caso, quindi, che «Perspecta» sia rivista di studenti e «Casabella» pubblichi, in quel periodo, i radicali fiorentini che ancora sui banchi di scuola lanciano le loro offensive verso il tradizionalismo, piuttosto che i giovani dell’AASchool, Rem Koolhaas, Zenghelis, Hadid o Archigram[3]
Tale fenomeno non passò inosservato nemmeno all’intellighenzia dell’architettura del periodo che tra il 1966 e il 1972 esce con articoli di storici e critici che scrivono sull’argomento rilevando che anche riviste che propriamente non possono essere definite “little” hanno avuto in quel momento una parentesi “little” (come nel caso di «Casabella» e di «Architectural Design»)[4]. Tra questi, Denis Scott Brown sul «Journal of the American Institute of Planners» nel 1968[5], Peter Eisenman su «Architectural Forum» nel 1969 e su «Casabella» nel 1970[6], Chris Holmes su «Architectural Design» nel 1972[7], mentre Reyner Banham su «AAQ-Architectural Association Quarterly», elogia le “zines” studentesche e Robin Middleton negli ultimi tempi della sua conduzione inaugura il periodo “little magazine” di «Architectural Design».[8]
Le motivazioni dell’interesse verso le piccole riviste era da ricercarsi nel clima di grande vivacità culturale che si andava affermando nel mondo dell’arte e dell’architettura: Denise Scott Brown nel suo Little Magazines in Architecture and Urbanism scrive che «le piccole riviste [...] forniscono ottime indicazioni per quanto riguarda le nuove tendenze nella professione e un indicatore di ciò che ci si può aspettare negli anni successivi».[9] Mentre Banham rileva come in quegli anni più che gli edifici costruiti sono i progetti pubblicati su alcune riviste [little] che segnano il passo della teoria dell’architettura. A suo avviso queste riviste, attraverso i progetti, erano in grado di riportare un pensiero sull’architettura costantemente aggiornato a differenza che con gli edifici che nascevano già obsoleti[10]. Che fosse un periodo di grande cambiamento culturale è fuori discussione come anche il fatto che il clima e il fervore culturale riuscirono a sedurre anche storici e critici notoriamente ortodossi.
Le Little Magazine sono state protagoniste di una little revolution.
A partire da questo punto di vista le riviste migliori non potevano che rivestire un ruolo polemico, che cercasse di mantenere alta la guardia e parare i colpi letali che il mondo del profitto e delle logiche quantitative vuole affondare non tanto nei loro confronti – che non gliene importa nulla – ma dell’architettura; la quale può rispondere con un qualche colpo ben assestato, fatto di buone idee, che a volte riescono addirittura ad esercitare un influsso benefico su quello stesso mondo. 
Non senza qualche forzatura abbiamo raccolto alcune di queste riviste – «Zodiac», «Perspecta», «Controspazio», «Lotus», «Casabella», «Phalaris», «Oppositions» – sotto la comune etichetta di “piccole riviste” non tanto perché siano direttamente ascrivibili al concetto di avanguardia o siano nate tutte in seno a movimenti studenteschi – anzi, quanto per il coraggio, la freschezza e finanche la spegiudicatezza con cui hanno portato avanti un discorso a loro modo coerente sull’architettura, più o meno compiaciutamente affrancate dalla logica dell’utile, raccogliendo intorno a loro delle comunità affezionate di giovani architetti, studiosi e lettori. 
Anche se i rapporti di queste riviste con l’avanguardia e la storia, la continuità e la discontinuità è piuttosto diverso, specialmente al di qua e al di là dell’oceano, il loro grado di parentela, gli intrecci e i presi a prestito sono talmente e inaspettatamente numerosi che invece che di fondazioni, dovremmo parlare di ri-fondazioni e riaffioramenti continui di punti di vista, temi, riviste di architettura. Al punto che, in alcuni momenti, ci pare che tutte loro appartengano ad un’unica grande avventura culturale collettiva, che comprenda cioè autori, redattori e l’unica – per Bataille – comunità possibile, quella dei lettori.
Guido Zuliani ci racconta della passione di Peter Eisenman per le “piccole riviste” delle avanguardie europee – «De Stijl», «Mecano», «L’Esprit Nouveau», la «Casabella» di Pagano, «Spazio» di Moretti – o il suo debito nei confronti di riviste inglesi degli anni ‘60 come «Architectural Design» e «Architectural Review» o del numero doppio 359-360 di «Casabella», la cui pubblicazione dei lavori dell’Institute of Architecture and Urban Studies col titolo di “The City as Artifact” anticipa la nascita di «Oppositions». E di come all’origine della nascita di «Oppositions» albergasse una certa insofferenza per un mondo della pubblicistica piuttosto refrattario alle idee e piuttosto subalterno alla pratica commerciale. 
Non sono molto diverse le motivazioni dalle quali sorge «Perspecta», né molto minore il debito nei confronti dell’Italia. «La prima ragione – scrive Norman Carver, uno dei redattori del primo numero – è stata la nostra frustrazione per la mancanza di progetti stimolanti e la fatale assenza di contenuti che caratterizzavano le riviste di architettura commerciale dell’epoca». Mentre dell’Italia «Perspecta», è debitrice della sua tradizione storico-critica e, più direttamente, il suo numero più famoso – il n. 9-10, caratterizzato dal noto dibattito White/Gray – è ispirato al numero 281 della «Casabella Continuità» di Rogers dal titolo “Architettura USA”. 
Questo rapporto di scambio continuo, di do ut des fra America ed Europa è anche il tema nonché il titolo del numero 13 di «Phalaris», “giornale di architettura” – come si chiamava – diretto da Luciano Semerani tra il 1988 e il 1992. Scrive Semerani nel suo editoriale: «Vanno e vengono attraverso e sopra l’Atlantico, dall’Europa all’America e dall’America all’Europa, stormi di idee migratorie, forse sempre le stesse idee, che però ogni volta che tornano da un viaggio si sono modificate perché non sono idee eterne, o forse, sono tracce, percorsi, punti di partenza e di arrivo sempre identici, ma il viaggio e il tempo del viaggio, di per sé stessi, ci cambiano; perlomeno nell’aspetto esteriore». E pubblica progetti di Frank Gehry, John Hejduk, Steven Holl, oltre ad un formidabile articolo sul mito di Elvis Presley. 
Anche Claudio D’Amato rievoca l’immagine delle “piccole riviste” per definire la forma di queste riviste di ricerca, teoria e critica, «prodotte al di fuori dei grandi circuiti editoriali» e portate avanti quasi esclusivamente da docenti universitari. Anche «Controspazio», come «Perspecta», nasce in seno alla passione politica di un movimento studentesco e come «Perspecta» è la reazione vivida ad un sentimento di impotenza nei confronti del massacro che la pratica professionale e la speculazione edilizia stavano infliggendo alle periferie delle città italiane. La vena polemica di «Controspazio» – diretta da Paolo Portoghesi dal 1961 al 1981 –  è d’altronde già compresa in quel “Contro” affiancato al termine “spazio”, che rievoca un’altra affiliazione (o contro-affiliazione), quella con la rivista «Spazio» diretta da Luigi Moretti. 
Consanguinea a «Phalaris» e «Controspazio» – come la definisce Enrico Bordogna – anche «Zodiac» si colloca tra le riviste di ricerca. In questo caso il legame con l’America e New York è inscritto nella grafica di Massimo Vignelli. Anche «Zodiac» è una rivista “riaffiorante” o il frutto di una ri-fondazione, che affonda le sue radici ben dentro la tradizione culturale italiana, a partire dalla casa editrice Comunità di Adriano Olivetti e dalla sua prima serie di «Zodiac». Questo legame olivettiano è dichiarato esplicitamente fin dal colophon del 1988 che recita: “Nuova serie. Rivista internazionale di architettura fondata nel 1957 da Adriano Olivetti”. Lo stesso comitato di orientamento è l’espressione di una “tendenza” e di una “continuità”, annoverando personaggi come Carlo Aymonino, Ignazio Gardella, Aldo Rossi, Gianugo Polesello, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co e stranieri del calibro di Richard Meier, Rafael Moneo, James Stirling, Kurt W. Forster. 
A questa tradizione delle riviste di ricerca si possono ascrivere anche alcune fasi di «Casabella», per lo meno alcune di quelle che precedono l’attuale dimensione un poco paludata. La «Casabella» che Gregotti dirige tra il 1982 e il 1996, ad esempio, insiste in una proposta programmatica radicale, secondo la quale la trasformazione della città e del territorio coinvolge architetti, urbanisti e ingegneri in un complesso processo multidisciplinare integrato. La rivista vuole altresì aprirsi ad un dibattito che coinvolga il mondo dei professionisti e li conduca mano nella mano verso una buona pratica dell’architettura. L’importante sezione tematica dedicata all’innovazione edilizia ed agli sponsor è abbastanza indicativa in tal senso, come anche c’è una bella differenza tra i concetti di “città come artefatto” della «Casabella» di Alessandro Mendini e quello di “architettura della modificazione” della «Casabella» di Vittorio Gregotti. 
Infine, la «Lotus» è di un’altra natura ancora, pensata com’è stata nel 1963 da un appassionato di automobilismo – Bruno Alfieri – come Annuario di architettura. A partire dal numero 3 diventa anch’essa una rivista internazionale di approfondimento critico e il suo numero 7 dal titolo “L’architettura nella formazione della città moderna” passa alla storia.
«FAMagazine» non è propriamente una rivista di tendenza (forse non siamo abbastanza snob!). Sicuramente – com’è scritto ancora più chiaramente nella nuova testata blu disegnata da Carlo Gandolfi – è una rivista di ricerca, sull’architettura e la città. 
Come atteggiamento la sua redazione assomiglia molto a quelle strane comunità di cercatori d’oro raccontate nei documentari del National Geographic: intere comunità, con l’ausilio di ingegnosi e a volte improbabili macchinari, dragano tonnellate su tonnellate di acqua e di sabbia in questi sterminati fiumi dello Yucon alla ricerca di qualche grammo d’oro. Ne escono numeri e temi inaspettatamente ma sicuramente interessanti, a volte più à la page, altre straordinariamente demodé. Nel periodo 2010-2013, «FAMagazine» ha pubblicato articoli su/di figure dell'architettura internazionale come Asplund, Lewerentz, Mart Stam, Mendes da Rocha, Artigas, Bogdanovic, e italiana come Rogers, Samonà, Muratori, Quaroni, Aymonino, Semerani, Isola e Polesello. «FAMagazine» si è occupato di diversi temi tra i quali: le Scuole di Architettura in Italia e in Europa, la Scuola Paolista brasiliana e alcuni suoi esponenti, il rapporto tra architettura e crisi, il racconto di eventi come la Biennale di Venezia 2010 e la Biennale dello spazio pubblico di Roma 2012, le problematiche legati alla condizione della città contemporanea, dalle esperienze dei Quartieri INA-Casa fino agli odierni processi di rigenerazione della città storica (dalla densificazione alla valorizzazione dei vuoti urbani) e delle periferie (il caso di Tor Bella Monaca), inoltre, temi più specifici come il restauro del Moderno e il ruolo delle Rovine nel progetto di architettura. Ha affrontato questioni teoriche di attualità nel dibattito disciplinare come il ruolo della morfologia o delle infrastrutture nei processi di trasformazione del territorio e il tema del Progettare il costruito, applicato ai casi italiano e tedesco (Bauen im Bestand).
A partire dal 2014 i numeri sono diventati rigorosamente tematici e l’uscita trimestrale. I titoli si spiegano da soli: Lo spettacolo della dismissione n. 42, Rapporto sullo stato degli ex Ospedali Psichiatrici in Italia n. 41, Amnistia per l'esistente n. 40, La legge e il cuore. Analogia e composizione nella costruzione del linguaggio architettonico n. 39, per il 2017; Pedagogie architettoniche. Visioni del mondo n. 38, Costruire e/è costruirsi. Il complesso rapporto tra architettura e educazione n. 37, Carattere e identità dell'opera n. 36, Madrid riconsiderata. 35, per il 2016; Campus universitario e città n. 34, Il progetto intelligente per la città intelligente n. 33, La città ordinata. Dispositio e Forma Urbis n. 32, Epifenomeni architettonici n. 31, per il 2015; Sei ricerche dai dottorati italiani in Composizione architettonica e urbana n. 30, 2004-2014 Dieci anni di Festival dell'Architettura n. 29, La ricerca impossibile. L'immaginazione nel progetto di architettura n. 27-28, L’insegnamento intensivo del progetto n. 26, Oscar Niemeyer: architettura, città n. 25, per il 2014. 
Ma anche nel campo del digitale non è tutto oro ciò che luccica! 
Siccome l’impresa di una rivista online oggi – sicuramente meno gravosa ed onerosa di una a stampa –, è operazione piuttosto semplice (basta un indirizzo web, un direttore iscritto all’albo dei giornalisti e un ISSN), registriamo un certo quantitativo di riviste attive non meno di quelle dormienti o dismesse nell’arco di cicli ben più brevi che in passato. Senza parlare della confusione generata dalle forme ibride che annovera semplici siti web, blog, e-zines, e quant’altro, a dimostrazione di un assetto, quello delle riviste di Architettura, quanto mai variabile e minato da un lato dalla persistente e cronica carenza di investimenti nell’editoria scientifica (e più in generale nella ricerca e nei suoi strumenti di divulgazione) e dall’altro dal maldestro tentativo degli organi ministeriali di regolamentare tutto. Da qui l’equivoco di fondo di trasferire il valore del contenitore (la rivista) al contenuto (il singolo articolo) nelle valutazioni qualitative.
Noi, che da sempre abbiamo creduto a questa forma di comunicazione dell’architettura e del suo pensiero critico, ci apprestiamo ad un rinnovamento sostanziale. Nel Manifesto fondativo della rivista (che vi invitiamo a leggere) paragonavamo la rivista ad uno “spazio libero (ed accogliente)” per il confronto delle diverse posizioni. Ebbene questo spazio, oggi, si presenta nella sua veste rinnovata. Per quanto “l’abito non faccia il monaco”, l’adozione di una piattaforma internazionale specificatamente studiata per le riviste scientifiche consente di avere molti vantaggi: dalla gestione del workflow (i passaggi che accompagnano un articolo dal momento dell’arrivo in redazione al momento della sua pubblicazione sono molti e complessi) all’aspetto finale, fino al mantenimento nel tempo dell’archivio con il tracciamento persistente degli indirizzi e la garanzia di una perenne consultabilità. Se un tempo le biblioteche erano la garanzia di mantenimento nel tempo dei contenuti preziosi della conoscenza disciplinare (i famosi granai pubblici in cui ammassare riserve contro l'inverno dello spirito nell’accezione yourcenariana) oggi molto di quel “grano” viaggia in una inconsistenza immateriale nell’etere, in quel World Wide Web (letteralmente "rete di grandezza mondiale") che rappresenta la nostra più grande opportunità. Se il compito di «FAMagazine», richiamando ancora il Manifesto, è anche quello del “dispositivo mnemonico per ricordare” bisogna che il ricordo sia mantenuto vivo costantemente, senza rischio di “perdita di memoria”. 
Se Victor Hugo vedeva nella rivoluzione di Gutenberg un grande pericolo per l’architettura, l’invenzione della stampa e dei libri come il killer dell’architettura, cosa potrebbe scrivere oggi di fronte a questa ulteriore rivoluzione che vede da un lato la carta stampata cedere il posto a quella ben più volatile della carta digitale e dall’altro i monumenti di pietra contemporanei (sempre meno di pietra, sempre meno monumenti nel senso rossiano del termine) testimoni di fenomeni non più secolari ma brevi e transitori quanto precari? «Sotto forma di stampa, il pensiero è più che mai immortale; è volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si mescola all'aria. All'epoca dell'architettura, esso si faceva montagna e potentemente si impossessava di un secolo e di un luogo. Ora si fa stormo di uccelli, si spande ai quattro venti, e occupa contemporaneamente tutti i punti dell'aria e dello spazio»[11]. La metafora hughiana del pensiero stampato oggi paga il prezzo di un’ulteriore rivoluzione, quella del digitale, che ha tra i più grandi pregi la diffusione capillare delle informazioni ma tra i più grandi difetti la moltiplicazione degli stessi tale da non rendere sempre e subito disponibile l’informazione cercata e di conseguenza ci si affida all’informazione più divulgativa, di superficie (in attesa che i gestori dei big data inventino agili sistemi di gestione delle informazioni). 
Passiamo ora a ciò che sta sotto l’abito rinnovato di «FAMagazine». Come sempre, un momento di passaggio è l’occasione per un bilancio nel nostro caso limitato al periodo 2014-2017: 4 anni, 17 numeri, 116 articoli, (a cui si aggiungono altri precedenti 3 anni e mezzo e ulteriori 122 articoli). Se è vero che i numeri non sono importanti (in un’epoca in cui anche la qualità è ridotta a numero, come dimostra la logica dell’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) sono i contenuti ad offrire alla comunità scientifica un valido strumento di valutazione critica dell’operato della nostra rivista. 
Forse è utile riassumere la storia. Il “Magazine del Festival dell’Architettura” nasce nel settembre 2010: contestualmente l’Anvur effettua la prima VQR (in cui «FAMagazine» non compare nell’elenco delle riviste scientifiche). Nel 2012, nella prima finestra utile per inoltrare istanza di riconoscimento, esponiamo le nostre ragioni e nel 2013 veniamo riconosciuti scientifici. Nello stesso giudizio, excusatio non petita, accusatio manifesta, l’Anvur risponde che inizialmente «FAMagazine» non è stata ritenuta scientifica perché considerata solo una newsletter informativa. Soprassediamo e, già nel 2014-15, regolamento Anvur alla mano, scopriamo di possedere un punteggio ben oltre la soglia indicata per essere in classe A[12].
Attendiamo la finestra temporale utile per presentare la seconda istanza di riconoscimento (stavolta per la classe A) e poco prima, complice anche il dibattito sulle anomalie contenute nelle liste delle riviste scientifiche per i settori non bibliometrici, viene emanato un nuovo regolamento (Regolamento per la classificazione delle riviste nelle aree non bibliometriche - Criteri di classificazione delle riviste ai fini dell'abilitazione Scientifica Nazionale) che serra la vite a tal punto da dubitare sulla liceità della maggior parte delle riviste già contenute nelle liste. Come si suol dire “chiudono la stalla quando i buoi ormai sono fuori”. 
Conseguentemente al dibattito animato dalla voce di coloro i quali si sono visti restringere di molto la porta di accesso alla Classe A (soprattutto quando dentro ci sono anche riviste che non soddisfano i criteri, non più pubblicate, e via dicendo), Anvur decide di ammonire i direttori delle riviste scientifiche con l’annuncio dell’effettuazione di verifiche periodiche dei requisiti e in caso negativo di revoca della scientificità o della classe A alla rivista stessa. Iniziano così ad apparire, nell’ultima versione dell’elenco delle riviste scientifiche ad oggi disponibile, indicazioni sulla periodicità in cui la tal rivista è stata scientifica. 
Noi attendiamo fiduciosi la prossima finestra utile per presentare formale istanza di riconoscimento della Classe A e nel frattempo continuiamo a “dragare” ed accumulare numeri e temi grazie soprattutto ad una vasta comunità di studiosi appassionati, per lo più giovani e molto preparati, e ad una non meno vasta ed internazionale comunità di lettori. Che ringraziamo.

 

 


[1] Congedo da Domus, in Domus 1019, Dicembre 2017, p. X, XI

[2] Beatriz Colomina and Craig Buckley, eds., Clip, Stamp, Fold: The Radical Architecture of Little Magazines, 196X - 197X (New York, NY: Actar, 2010), 451.

[3] La rivista AAQ nell’estate del 1971 pubblica un sondaggio sulle "zines" delle scuole di architettura portando alla ribalta le tendenze del tempo da Focus a Archigram. Si veda Neil Steedman, Riviste studentesche nelle scuole di architettura britanniche, in Architectural Association Quarterly, Estate 1971.

[4] Si veda Steve Parnell, Architectural Design, 1954-1972. The architectural magazine's contribution to the writing of architectural history, PhD Thesis in Architectural History, University of Sheffield School of Architecture, 2011. Parrel definisce con “littleness” questo carattere che investe anche alcune importanti testate dell’architettura.

[5] Denise Scott Brown, Little Magazines in Architecture and Urbanism, in Journal of the American Institute of Planners, Volume 34, 1968 –Issue 4 223-233, [published on line 26 Nov 2007 DOI https://doi.org/10.1080/01944366808977811]

[6] Peter Eisenman, The Big Little Magazine: Perspecta 12 and the Future of the Architectural Past, in Architectural Forum, New York, October 1969, ripubblicato in Casabella 345 Gennaio 1970, p. 28-33

[7] Chris Holmes, Small Mags, in Architectural Design, September 1972. 80

[8] Si veda l’articolo di Beatriz Colomina, Little AD (presentato per gli 80 anni di AD 1930-2010), R.I.BA, Londra, June 29, 2010) e Steve Parnell, Architectural Design, cit.

[9] Denise Scott Brown, Little Magazines in Architecture and Urbanism, cit., pag 223

[10] Reyner Banham, Zoom wave hits architecture, in New Society, 3 marzo 1966, ora in Reyner Banham, Design by Choice, (Penny Sparke, ed.), Rizzoli, 1981

[11] Victor Hugo, Notre-Dame de Paris, (traduzione di Gabriella Leto, Arnoldo Mondadori, 1985, p. 137

[12] In base al regolamento per la classificazione delle riviste scientifiche in vigore nel 2015 FAMagazine possedeva sufficienti punti per essere inserita in Classe A

DOI: http://dx.doi.org/10.1283/fam/issn2039-0491/n43-2018/139