È di qualche giorno fa la
riflessione di Nicola di Battista
sul ruolo e la funzione delle riviste di architettura cartacee nel
contesto
dell’avvicendamento alla direzione di «Domus», a cui approda un Michele
de
Lucchi che si presta con Carlo Cracco e Lapo Elkann a posare per la
copertina
di «AD
- Architectural Digest»
(dicembre 2017) in un nuovo progetto comune ideato dallo
stesso rampollo di casa Agnelli – Garage Italia –,
che ha trasformato la
stazione di servizio Agip progettata da Mario Bacciocchi nel Dopoguerra
in
Piazzale Accursio a Milano in hub dell’italian style: cibo,
macchine e design.
Di Battista sostiene che «una
rivista deve essere
capace
sì, di far vedere e conoscere progetti, prodotti, pensieri
che il nostro tempo
produce ma, soprattutto, di raccontare le storie che li rendono
possibili, le
storie che li sottendono»[1].
È
quello che abbiamo cercato di fare in questo numero
inaugurale di «FAMagazine», che inaugura non la
rivista – nata
ormai già nel lontano 2010 – ma la sua nuova veste
grafica e la nuova
piattaforma OJS – Open Journal System insieme con il nuovo
indirizzo web www.famagazine.it.
La storia che abbiamo voluto
raccontare in questo numero 43
è la storia di alcune riviste di architettura italiane e
degli USA, che hanno
deciso il dibattito architettonico nell’ultimo quarto del
secolo scorso e il
racconto del passaggio dal mondo delle riviste cartacee a quello del
digitale,
cui appartiene «FAMagazine».
La decisione di aprire questa nuova
stagione di
«FAMagazine
»
con un numero sulle riviste di architettura è di per
sé un esplicito
riferimento autoanalitico. Tra queste ci sono molte “piccole
riviste” o “Little
Magazine” per cui se inizialmente l’appellativo era
riferibile soprattutto al
formato e ad un circuito limitato di influenza, spesso frutto di
un’editoria
indipendente, di nicchia o non commerciale, con il passare del tempo ha
finito
per denotare alcuni caratteri che rendono tali riviste particolarmente
interessanti per la ricerca di architettura come l’impulso
alla
sperimentazione, la tendenza (o meglio la tendenziosità) del
board editoriale
nell’indirizzare il pensiero e nella volontà di
solcare nuove strade di
ricerca, il dar voce a linguaggi disciplinari nuovi, meno comuni,
avanguardistici. Una sorta di laboratorio sperimentale delle idee.
Il fenomeno delle Little Magazine,
nato negli anni venti
nell’ambito delle correnti letterarie americane e molto
indagato negli Stati
Uniti soprattutto a partire dal Secondo Dopoguerra, ha finito per
sconfinare
disciplinarmente – come spesso accade tra le diverse arti
– ed investire
l’architettura, cosicché, come ci ricorda Claudio
D’Amato, alla
Little Magazines
Conference: After modern
Architecture, il 3-5 febbraio 1977 organizzata
dall’IAUS di New York erano
presenti molti dei protagonisti del dibattito architettonico che in
quel
momento si proponevano di rilanciare attraverso lo strumento della
rivista il
dibattito sull’architettura, la teoria e la critica:
«Architese
»
(Bruno Reichlin, Stanislaus Von Moos),
«Arquitectura
Bis
»
(Oriol Bohigas, Federico Correa, Rafael Moneo),
«AMC-Architecture
Mouvement
Continuité
»
(Jacques Lucan, Patrice Noviant),
«Controspazio
» (Alessandro Anselmi,
Claudio
D’Amato),
«Lotus
»
(Pierluigi Nicolin, Joseph Rykwert) e molti altri interessati a partire
dall’organizzatore stesso, Peter Eisenman e dagli amici
dell’Institute of
Architecture and Urban Studies neworkese come Edith Girard, Mario
Gandelsonas,
Anthony Vidler, Stanford Anderson, Livio Dimitriu, Alessandra Latour,
Lluis
Domenech, Peter Blake, Kenneth Frampton, Robert Gutman, Colin Rowe,
George
Baird, Peter Marangoni, Diana Agrest, Suzanne Frank.
Autentiche Little Magazine in
Architettura sono state le
riviste d’avanguardia degli Anni Venti del Novecento che
hanno raccolto attorno
a sé correnti ideologiche e i loro gruppi promulgatori,
quando non nascevano
specificatamente come strumento di diffusione dei loro valori:
«G
»
(1923-26) e
«Bauhaus
» (1928-1933)
in Germania,
«Sovremennaia
Arkhitektura
»
(1926-30),
«Lef
»
(1923-25) e
«Veshch
»
(1922) in Russia,
«Wendingen
» (1918-1931) e
«de Stijl
»
(1917-31) in Olanda,
«L'Esprit
Nouveau
» (1920-25)
in Francia e tutti i
periodici futuristi in Italia come
«Valori
plastici
» (1918-21),
«Lacerba
»
(1913-15),
«Noi
»
(1917-20 e 1923-25).
Analogo fenomeno è
riscontrabile nella seconda metà del
Novecento in cui le condizioni storiche rendevano possibile un ritorno
non
tanto delle avanguardie storiche quanto un atteggiamento di rottura,
quello sì
neo-avanguardistico, che tra gli anni Sessanta e Settanta ha prodotto
il
fenomeno della seconda stagione di Little Magazine oggetto di indagine
(e di
una mostra) organizzata al CCA-Centre Canadian of Architecture da
Beatriz
Colomina e Craig Buckley dal titolo
Clip/Stamp/Fold
2: The Radical Architecture of Little Magazines 196X-197X.
[2]
È interessante notare come
la seconda stagione delle Little
Magazine in Architettura ha come caratteristica quella di scaturire
dall’interno delle Scuole di Architettura in cui gli
studenti, più dei Maestri
della prima stagione (basti pensare a Le Corbusier e
«L’Esprit
Nouveau
»)
rappresentano la voce del cambiamento culturale. Non è un
caso, quindi, che
«Perspecta
»
sia rivista di studenti e
«Casabella
» pubblichi, in quel
periodo, i
radicali fiorentini che ancora sui banchi di scuola lanciano le loro
offensive
verso il tradizionalismo, piuttosto che i giovani
dell’AASchool, Rem Koolhaas,
Zenghelis, Hadid o Archigram
[3].
Tale fenomeno non passò
inosservato nemmeno
all’intellighenzia dell’architettura del periodo
che tra il 1966 e il 1972 esce
con articoli di storici e critici che scrivono sull’argomento
rilevando che
anche riviste che propriamente non possono essere definite
“little” hanno avuto
in quel momento una parentesi “little” (come nel
caso di
«Casabella
» e
di
«Architectural
Design
»)
[4].
Tra questi, Denis Scott Brown sul
«Journal
of the American Institute of
Planners
»
nel 1968
[5],
Peter Eisenman su
«Architectural
Forum
» nel 1969 e su
«Casabella
»
nel 1970
[6],
Chris Holmes su
«Architectural
Design
» nel 1972
[7],
mentre Reyner Banham su
«AAQ-Architectural
Association Quarterly
»,
elogia le “zines” studentesche e Robin Middleton
negli ultimi tempi della sua
conduzione inaugura il periodo “little magazine” di
«Architectural Design
».
[8]
Le motivazioni
dell’interesse verso le piccole riviste era
da ricercarsi nel clima di grande vivacità culturale che si
andava affermando
nel mondo dell’arte e dell’architettura: Denise
Scott Brown nel suo
Little Magazines in
Architecture and
Urbanism scrive che
«le
piccole riviste [...] forniscono ottime indicazioni per
quanto riguarda le nuove tendenze nella professione e un indicatore di
ciò che
ci si può aspettare negli anni successivi
».
[9]
Mentre Banham rileva come in quegli anni più che gli edifici
costruiti sono i
progetti pubblicati su alcune riviste [little] che segnano il passo
della
teoria dell’architettura. A suo avviso queste riviste,
attraverso i progetti, erano
in grado di riportare un pensiero sull’architettura
costantemente aggiornato a
differenza che con gli edifici che nascevano già obsoleti
[10].
Che fosse un periodo di grande cambiamento culturale è fuori
discussione come
anche il fatto che il clima e il fervore culturale riuscirono a sedurre
anche
storici e critici notoriamente ortodossi.
Le Little Magazine sono state
protagoniste di una
little
revolution.
A
partire da questo punto di
vista le riviste migliori non potevano che rivestire un ruolo polemico,
che
cercasse di mantenere alta la guardia e parare i colpi letali che il
mondo del
profitto e delle logiche quantitative vuole affondare non tanto nei
loro
confronti – che non gliene importa nulla – ma
dell’architettura; la quale può
rispondere con un qualche colpo ben assestato, fatto di buone idee, che
a volte
riescono addirittura ad esercitare un influsso benefico su quello
stesso mondo.
Non
senza qualche forzatura
abbiamo raccolto alcune di queste riviste –
«Zodiac
»,
«Perspecta
»,
«Controspazio
»,
«Lotus
»,
«Casabella
»,
«Phalaris
»,
«Oppositions
» –
sotto la comune etichetta di “piccole riviste” non
tanto perché siano
direttamente ascrivibili al concetto di avanguardia o siano nate tutte
in seno
a movimenti studenteschi – anzi, quanto per il coraggio, la
freschezza e
finanche la spegiudicatezza con cui hanno portato avanti un discorso a
loro
modo coerente sull’architettura, più o meno
compiaciutamente affrancate dalla
logica dell’utile, raccogliendo intorno a loro delle
comunità affezionate di giovani
architetti, studiosi e lettori.
Anche
se i rapporti di queste
riviste con l’avanguardia e la storia, la
continuità e la discontinuità è
piuttosto diverso, specialmente al di qua e al di là
dell’oceano, il loro grado
di parentela, gli intrecci e i presi a prestito sono talmente e
inaspettatamente numerosi che invece che di fondazioni, dovremmo
parlare di
ri-fondazioni e riaffioramenti continui di punti di vista, temi,
riviste di
architettura. Al punto che, in alcuni momenti, ci pare che tutte loro
appartengano ad un’unica grande avventura culturale
collettiva, che comprenda
cioè autori, redattori e l’unica – per
Bataille – comunità possibile, quella
dei lettori.
Guido
Zuliani ci racconta della
passione di Peter Eisenman per le “piccole riviste”
delle avanguardie europee –
«De
Stijl»,
«Mecano», «L’Esprit
Nouveau»,
la «Casabella»
di Pagano, «Spazio»
di Moretti – o il suo debito nei confronti di riviste inglesi
degli anni ‘60
come «Architectural
Design»
e «Architectural
Review»
o del numero doppio 359-360 di «Casabella», la cui pubblicazione dei
lavori dell’Institute of Architecture and Urban Studies col
titolo di “The City
as Artifact” anticipa la nascita di «Oppositions». E di come
all’origine della
nascita di «Oppositions»
albergasse una certa insofferenza per un mondo della pubblicistica
piuttosto
refrattario alle idee e piuttosto subalterno alla pratica
commerciale.
Non
sono molto diverse le
motivazioni dalle quali sorge «Perspecta», né molto
minore il debito
nei confronti dell’Italia. «La prima ragione
– scrive Norman Carver, uno dei
redattori del primo numero – è stata la nostra
frustrazione per la mancanza di
progetti stimolanti e la fatale assenza di contenuti che
caratterizzavano le
riviste di architettura commerciale dell’epoca».
Mentre dell’Italia «Perspecta», è
debitrice della sua tradizione storico-critica e, più
direttamente, il suo
numero più famoso – il n. 9-10, caratterizzato dal
noto dibattito White/Gray –
è ispirato al numero 281 della «Casabella
Continuità»
di Rogers dal titolo “Architettura USA”.
Questo
rapporto di scambio
continuo, di
do ut des fra America ed Europa
è anche il tema nonché il
titolo del numero 13 di «Phalaris», “giornale di
architettura” – come si
chiamava – diretto da Luciano Semerani tra il 1988 e il 1992.
Scrive Semerani
nel suo editoriale: «Vanno e vengono attraverso e sopra
l’Atlantico,
dall’Europa all’America e dall’America
all’Europa, stormi di idee migratorie,
forse sempre le stesse idee, che però ogni volta che tornano
da un viaggio si
sono modificate perché non sono idee eterne, o forse, sono
tracce, percorsi,
punti di partenza e di arrivo sempre identici, ma il viaggio e il tempo
del
viaggio, di per sé stessi, ci cambiano; perlomeno
nell’aspetto esteriore». E
pubblica progetti di Frank Gehry, John Hejduk, Steven Holl, oltre ad un
formidabile articolo sul mito di Elvis Presley.
Anche
Claudio D’Amato rievoca
l’immagine delle “piccole riviste” per
definire la forma di queste riviste di
ricerca, teoria e critica, «prodotte al di fuori dei grandi
circuiti
editoriali» e portate avanti quasi esclusivamente da docenti
universitari.
Anche «Controspazio»,
come «Perspecta»,
nasce in seno alla passione politica di un movimento studentesco e come
«Perspecta» è
la reazione vivida ad un sentimento di impotenza nei confronti del
massacro che
la pratica professionale e la speculazione edilizia stavano infliggendo
alle
periferie delle città italiane. La vena polemica di «Controspazio» –
diretta da Paolo Portoghesi dal 1961 al 1981 –
è d’altronde già compresa
in quel “Contro” affiancato al termine
“spazio”, che rievoca un’altra
affiliazione (o contro-affiliazione), quella con
la rivista «Spazio»
diretta da Luigi Moretti.
Consanguinea
a «Phalaris» e
«Controspazio» –
come la definisce Enrico Bordogna – anche «Zodiac» si colloca tra le riviste
di
ricerca. In questo caso il legame con l’America e New York
è inscritto nella
grafica di Massimo Vignelli. Anche «Zodiac» è una rivista
“riaffiorante”
o il frutto di una ri-fondazione, che affonda le sue radici ben dentro
la
tradizione culturale italiana, a partire dalla casa editrice
Comunità di
Adriano Olivetti e dalla sua prima serie di «Zodiac». Questo legame olivettiano
è
dichiarato esplicitamente fin dal colophon del 1988 che recita:
“Nuova serie.
Rivista internazionale di architettura fondata nel 1957 da Adriano
Olivetti”.
Lo stesso comitato di orientamento è l’espressione
di una “tendenza” e di una
“continuità”, annoverando personaggi
come Carlo Aymonino, Ignazio Gardella,
Aldo Rossi, Gianugo Polesello, Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co e
stranieri
del calibro di Richard Meier, Rafael Moneo, James Stirling, Kurt W.
Forster.
A
questa tradizione delle riviste
di ricerca si possono ascrivere anche alcune fasi di «Casabella»,
per lo meno alcune di quelle che precedono l’attuale
dimensione un poco
paludata. La «Casabella» che Gregotti dirige tra
il 1982 e il
1996, ad esempio, insiste in una proposta programmatica radicale,
secondo la
quale la trasformazione della città e del territorio
coinvolge architetti,
urbanisti e ingegneri in un complesso processo multidisciplinare
integrato. La
rivista vuole altresì aprirsi ad un dibattito che coinvolga
il mondo dei
professionisti e li conduca mano nella mano verso una buona pratica
dell’architettura. L’importante sezione tematica
dedicata all’innovazione
edilizia ed agli sponsor è abbastanza indicativa in tal
senso, come anche c’è
una bella differenza tra i concetti di “città come
artefatto” della «Casabella» di
Alessandro Mendini e quello di “architettura della
modificazione” della «Casabella» di
Vittorio Gregotti.
Infine,
la
«Lotus»
è
di un’altra natura ancora, pensata com’è
stata nel 1963 da un appassionato di
automobilismo – Bruno Alfieri – come Annuario di
architettura. A partire dal numero
3 diventa anch’essa una rivista internazionale di
approfondimento critico e il
suo numero 7 dal titolo “L’architettura nella
formazione della città moderna”
passa alla storia.
«FAMagazine»
non è propriamente una rivista di tendenza (forse non siamo
abbastanza snob!).
Sicuramente – com’è scritto ancora
più chiaramente nella nuova testata blu
disegnata da Carlo Gandolfi – è una rivista di
ricerca, sull’architettura e la
città.
Come
atteggiamento la sua
redazione assomiglia molto a quelle strane comunità di
cercatori d’oro
raccontate nei documentari del National Geographic: intere
comunità, con
l’ausilio di ingegnosi e a volte improbabili macchinari,
dragano tonnellate su
tonnellate di acqua e di sabbia in questi sterminati fiumi dello Yucon
alla
ricerca di qualche grammo d’oro. Ne escono numeri e temi
inaspettatamente ma
sicuramente interessanti, a volte più
à
la page, altre straordinariamente
demodé.
Nel periodo 2010-2013,
«FAMagazine»
ha pubblicato articoli su/di
figure dell'architettura internazionale come Asplund, Lewerentz, Mart
Stam,
Mendes da Rocha, Artigas, Bogdanovic, e italiana come Rogers,
Samonà, Muratori,
Quaroni, Aymonino, Semerani, Isola e Polesello.
«FAMagazine»
si
è occupato di diversi temi tra i quali: le Scuole di
Architettura in Italia e
in Europa, la Scuola Paolista brasiliana e alcuni suoi esponenti, il
rapporto
tra architettura e crisi, il racconto di eventi come la Biennale di
Venezia
2010 e la Biennale dello spazio pubblico di Roma 2012, le problematiche
legati
alla condizione della città contemporanea, dalle esperienze
dei Quartieri
INA-Casa fino agli odierni processi di rigenerazione della
città storica (dalla
densificazione alla valorizzazione dei vuoti urbani) e delle periferie
(il caso
di Tor Bella Monaca), inoltre, temi più specifici come il
restauro del Moderno
e il ruolo delle Rovine nel progetto di architettura. Ha affrontato
questioni
teoriche di attualità nel dibattito disciplinare come il
ruolo della morfologia
o delle infrastrutture nei processi di trasformazione del territorio e
il tema
del Progettare il costruito, applicato ai casi italiano e tedesco (
Bauen im Bestand).
A
partire dal 2014 i numeri sono
diventati rigorosamente tematici e l’uscita trimestrale. I
titoli si spiegano
da soli:
Lo spettacolo della dismissione
n. 42,
Rapporto sullo stato degli ex
Ospedali Psichiatrici in Italia n. 41,
Amnistia
per l'esistente n. 40,
La legge e
il
cuore. Analogia e composizione nella costruzione del linguaggio
architettonico
n. 39, per il 2017;
Pedagogie
architettoniche. Visioni del mondo n. 38,
Costruire
e/è costruirsi. Il complesso rapporto tra architettura e
educazione n. 37,
Carattere e
identità dell'opera n. 36,
Madrid
riconsiderata.
35, per il 2016;
Campus universitario e
città n. 34,
Il progetto
intelligente
per la città intelligente n. 33,
La
città ordinata. Dispositio e Forma Urbis n. 32,
Epifenomeni architettonici n. 31, per il
2015;
Sei ricerche dai dottorati italiani in
Composizione architettonica e
urbana n. 30,
2004-2014 Dieci anni
di
Festival dell'Architettura n. 29,
La
ricerca impossibile. L'immaginazione nel progetto di architettura
n. 27-28,
L’insegnamento intensivo del progetto
n. 26,
Oscar Niemeyer: architettura,
città n. 25, per il 2014.
Ma anche nel campo del digitale non
è tutto oro ciò che
luccica!
Siccome l’impresa di una
rivista online oggi – sicuramente
meno gravosa ed onerosa di una a stampa –, è
operazione piuttosto semplice
(basta un indirizzo web, un direttore iscritto all’albo dei
giornalisti e un
ISSN), registriamo un certo quantitativo di riviste attive non meno di
quelle
dormienti o dismesse nell’arco di cicli ben più
brevi che in passato. Senza
parlare della confusione generata dalle forme ibride che annovera
semplici siti
web, blog, e-zines, e quant’altro, a dimostrazione di un
assetto, quello delle
riviste di Architettura, quanto mai variabile e minato da un lato dalla
persistente e cronica carenza di investimenti nell’editoria
scientifica (e più
in generale nella ricerca e nei suoi strumenti di divulgazione) e
dall’altro
dal maldestro tentativo degli organi ministeriali di regolamentare
tutto. Da
qui l’equivoco di fondo di trasferire il valore del
contenitore (la rivista) al
contenuto (il singolo articolo) nelle valutazioni qualitative.
Noi, che da sempre abbiamo creduto a
questa forma di
comunicazione dell’architettura e del suo pensiero critico,
ci apprestiamo ad
un rinnovamento sostanziale. Nel Manifesto fondativo della rivista (che
vi
invitiamo a leggere) paragonavamo la rivista ad uno “spazio
libero (ed
accogliente)” per il confronto delle diverse posizioni.
Ebbene questo spazio,
oggi, si presenta nella sua veste rinnovata. Per quanto
“l’abito non faccia il
monaco”, l’adozione di una piattaforma
internazionale specificatamente studiata
per le riviste scientifiche consente di avere molti vantaggi: dalla
gestione
del workflow (i passaggi che accompagnano un articolo dal momento
dell’arrivo
in redazione al momento della sua pubblicazione sono molti e complessi)
all’aspetto finale, fino al mantenimento nel tempo
dell’archivio con il tracciamento
persistente degli indirizzi e la garanzia di una perenne
consultabilità. Se un
tempo le biblioteche erano la garanzia di mantenimento nel tempo dei
contenuti
preziosi della conoscenza disciplinare (i famosi granai pubblici in cui
ammassare riserve contro l'inverno dello spirito
nell’accezione yourcenariana)
oggi molto di quel “grano” viaggia in una
inconsistenza immateriale nell’etere,
in quel World Wide Web (letteralmente "rete di grandezza mondiale")
che rappresenta la nostra più grande opportunità.
Se il compito di
«FAMagazine»,
richiamando ancora il Manifesto, è anche quello del
“dispositivo mnemonico per ricordare” bisogna che
il ricordo sia mantenuto vivo
costantemente, senza rischio di “perdita di
memoria”.
Se Victor Hugo vedeva nella
rivoluzione di Gutenberg un
grande pericolo per l’architettura, l’invenzione
della stampa e dei libri come
il killer dell’architettura, cosa potrebbe scrivere oggi di
fronte a questa
ulteriore rivoluzione che vede da un lato la carta stampata cedere il
posto a
quella ben più volatile della carta digitale e
dall’altro i monumenti di pietra
contemporanei (sempre meno di pietra, sempre meno monumenti nel senso
rossiano
del termine) testimoni di fenomeni non più secolari ma brevi
e transitori
quanto precari?
«Sotto
forma di stampa, il pensiero è più che mai
immortale; è volatile, inafferrabile, indistruttibile. Si
mescola all'aria.
All'epoca dell'architettura, esso si faceva montagna e potentemente si
impossessava di un secolo e di un luogo. Ora si fa stormo di uccelli,
si spande
ai quattro venti, e occupa contemporaneamente tutti i punti dell'aria e
dello
spazio
»[11].
La metafora hughiana del pensiero stampato oggi paga il prezzo di
un’ulteriore
rivoluzione, quella del digitale, che ha tra i più grandi
pregi la diffusione
capillare delle informazioni ma tra i più grandi difetti la
moltiplicazione
degli stessi tale da non rendere sempre e subito disponibile
l’informazione
cercata e di conseguenza ci si affida all’informazione
più divulgativa, di
superficie (in attesa che i gestori dei big data inventino agili
sistemi di
gestione delle informazioni).
Passiamo ora a ciò che sta
sotto l’abito rinnovato di
«FAMagazine».
Come sempre, un momento di passaggio è l’occasione
per un
bilancio nel nostro caso limitato al periodo 2014-2017: 4 anni, 17
numeri, 116
articoli, (a cui si aggiungono altri precedenti 3 anni e mezzo e
ulteriori 122
articoli). Se è vero che i numeri non sono importanti (in
un’epoca in cui anche
la qualità è ridotta a numero, come dimostra la
logica dell’Agenzia Nazionale
di Valutazione dell’Università e della Ricerca)
sono i contenuti ad offrire
alla comunità scientifica un valido strumento di valutazione
critica
dell’operato della nostra rivista.
Forse è utile riassumere
la storia. Il “Magazine del
Festival dell’Architettura” nasce nel settembre
2010: contestualmente l’Anvur
effettua la prima VQR (in cui
«FAMagazine»
non
compare nell’elenco delle riviste scientifiche). Nel 2012,
nella prima finestra
utile per inoltrare istanza di riconoscimento, esponiamo le nostre
ragioni e
nel 2013 veniamo riconosciuti scientifici. Nello stesso giudizio
, excusatio non petita, accusatio manifesta,
l’Anvur risponde che inizialmente
«FAMagazine»
non
è stata ritenuta scientifica perché considerata
solo una newsletter
informativa. Soprassediamo e, già nel 2014-15, regolamento
Anvur alla mano,
scopriamo di possedere un punteggio ben oltre la soglia indicata per
essere in
classe A
[12].
Attendiamo la finestra temporale
utile per presentare la
seconda istanza di riconoscimento (stavolta per la classe A) e poco
prima,
complice anche il dibattito sulle anomalie contenute nelle liste delle
riviste
scientifiche per i settori non bibliometrici, viene emanato un nuovo
regolamento (Regolamento per la classificazione delle riviste nelle
aree non
bibliometriche - Criteri di classificazione delle riviste ai fini
dell'abilitazione Scientifica Nazionale) che serra la vite a tal punto
da
dubitare sulla liceità della maggior parte delle riviste
già contenute nelle
liste. Come si suol dire “chiudono la stalla quando i buoi
ormai sono fuori”.
Conseguentemente al dibattito animato
dalla voce di coloro i
quali si sono visti restringere di molto la porta di accesso alla
Classe A
(soprattutto quando dentro ci sono anche riviste che non soddisfano i
criteri,
non più pubblicate, e via dicendo), Anvur decide di ammonire
i direttori delle
riviste scientifiche con l’annuncio
dell’effettuazione di verifiche periodiche
dei requisiti e in caso negativo di revoca della
scientificità o della classe A
alla rivista stessa. Iniziano così ad apparire,
nell’ultima versione
dell’elenco delle riviste scientifiche ad oggi disponibile,
indicazioni sulla
periodicità in cui la tal rivista è stata
scientifica.
Noi attendiamo fiduciosi la prossima
finestra utile per
presentare formale istanza di riconoscimento della Classe A e nel
frattempo
continuiamo a “dragare” ed accumulare numeri e temi
grazie soprattutto ad una
vasta comunità di studiosi appassionati, per lo
più giovani e molto preparati,
e ad una non meno vasta ed internazionale comunità di
lettori. Che ringraziamo.