L’unica architettura sarà la nostra vita” – o il suo racconto.
Questioni narrative nella produzione del Superstudio.

Giovanni de Flego



Il presente saggio intende affrontare una tematica relativa alla produzione del Superstudio[1], che ad oggi non è stata oggetto di trattazione specifica, vale a dire il ruolo che la narrazione – intesa come vero e proprio racconto – assume all'interno della progettazione del gruppo fiorentino[2]. Analizzerò nello specifico questo aspetto nella fase centrale dello scritto; prima di farlo intendo infatti cercare una parziale ragione dell'adozione di tale pratica narrativa, non unica nel corso della storia dell'architettura ma certo poco frequente: avremo modo in questa prima parte di rilevare alcune affinità con precedenti disciplinari, nonché di mettere in moto delle letture di altri episodi, in una chiave legata al racconto.

Procedendo con ordine, ritengo che questo inserimento di un fattore narrativo nella progettazione vada ascritto a due differenti origini, la prima legata all'inquadramento culturale e sociale in cui il gruppo si muove, la seconda insita nell'indole stessa dei suoi componenti. La produzione del Superstudio si inserisce all'interno della seconda ondata di avanguardie che solcano il corso del Novecento, un'eterogenea sommatoria di gruppi e singoli che contribuirà ad un ripensamento critico dell'architettura in merito al suo compito e al suo orizzonte di senso, inserendo all'interno di essa tematiche e modalità precedentemente escluse. Volendo dare dei sommari limiti cronologici al fenomeno, spesso definito con il termine Neoavanguardia, possiamo collocarlo tra la seconda metà degli anni '50 e la prima metà degli anni '70. Ai sensi della presente trattazione, tra quelli messi in moto dai vari protagonisti, uno in particolare pare essere l'aspetto su cui merita soffermarsi: quello del mutato ruolo cui il progetto di architettura è adibito. Assistiamo infatti ad una sorta di inedito slittamento dei valori di “mezzo” e “fine” in seno alla progettazione, che conduce ad uno stravolgimento del senso usuale dell'architettura. In altre parole, se il “fine” più comune della composizione architettonica è la costruzione di un'architettura, o un'indagine sull'architettura stessa come costruzione, tale sistema di rapporti nella produzione di Neoavanguardia viene a saltare, a favore di una visione altra, all'interno della quale l'architettura è un “mezzo”, nella fattispecie di un mezzo critico. È in questa luce che molti episodi dell'epoca trovano ragione, giustificando aspetti che altrimenti riconosceremmo come mancanze: se il progetto di architettura è un dispositivo critico, allora l'effettiva costruibilità, il realismo di ambienti, dettagli, apparati tecnologici e via discorrendo si rivelano tematiche off topic, questioni di pertinenza scarsa o nulla, prevaricate dalla finalità di una composizione tutta indirizzata alla critica. Detta critica prende le forme di una posizione profondamente antagonista, spesso negativa, complici il clima sociopolitico del tempo e la giovane età dei protagonisti: resta da capire quale ne sia l'oggetto. Sono anni nei quali l'interrogazione critica è fortemente presente pressoché in ogni campo della cultura, della quale vengono messi in discussione in maniera profonda parametri, prassi e preconcetti. Nel caso dei giovani gruppi di Neoavanguardia le tematiche sono spesso quelle che semplicemente gran parte dei giovani europei portano avanti: antagonismo politico e sociale nei confronti di un mondo tanto appartenente al passato prossimo quanto al presente, negazione di quel mondo tecnico, tecnologico e consumistico che all'orizzonte pare profilarsi[3]. È proprio questo futuro, questo mondo del domani, a rivelarsi una delle più affilate armi a disposizione dei vari protagonisti: l'architettura diviene quindi un mezzo per raccontare un universo nuovo, differente, capace di mettere a nudo e di far emergere quelle contraddizioni che il capitale pare intrinsecamente innescare[4], salvo poi sopirle, appianarle. “Immaginare un futuro diverso” è una maniera – seppure sommaria – per dire: “fare utopia”. Eppure questo “fare utopia” della Neoavanguardia si mostra profondamente differente rispetto agli episodi del passato, poiché quella prefigurazione del futuro, come detto, è una prefigurazione che è mezzo critico: i mondi che nascono dai disegni dei vari gruppi non sono scenari utopici – e quindi desiderabili – ma meccanismi che permettono un antagonismo nei confronti del presente, una negazione dei suoi valori. In tale maniera assumono a volte la forma di luoghi del tutto indesiderabili, orribili. Questo scarto semantico rispetto all'utopia classica ha portato al conio del termine utopia critica. Qualunque sia la sua specificità, l'utopia si accompagna al racconto fin dalla propria origine, quell'Utopia[5] – questa volta maiuscola – che è la narrazione di un viaggio verso un'isola lontana ma raggiungibile, seppure con fatica. Il binomio utopia-racconto è giustificato dall'indubbia efficacia comunicativa del secondo fattore: attraverso la narrazione è certo più agevole trasmettere concetti e principi, facendo leva non solo sull'aspetto contenutistico, ma anche su quello emozionale. Utopia, comunicazione e architettura non si incontrano certo per la prima volta nela Neoavanguardia, e sussistono esempi precedenti, tra i quali merita brevemente evidenziarne due, uno più diretto – gli utopisti francesi del Settecento – e uno che è interpretabile secondo questa chiave di lettura – il movimento Moderno. Nel primo esempio si parla spesso di architettura “parlante”, essa non prefigura cioè solo l'immagine di un mondo nuovo, ma assolve anche il ruolo, attraverso diversi espedienti, di comunicarne allo spettatore i principi simbolici, civili e rivoluzionari. Anche per quanto concerne il Moderno possiamo riconoscere entro una certa quota parte una simile aspirazione, forse anche più radicale: la città moderna non solo intende assolvere ai nuovi compiti imposti da una società in mutazione, diversa dal passato, ma nelle proprie rappresentazioni comunica in maniera più o meno palese l'utopia di un mondo nuovo, di una società differente, più giusta, efficiente e soprattutto egalitaria, una società che non è quella del presente, ma dell'allora immediato futuro. Se non possiamo parlare in senso stretto di racconto, inteso come intreccio narrativo, certo è che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un'architettura che è anche comunicazione, e quello della comunicazione, tornando ora al periodo della Neoavanguardia, è certamente un tema fortemente sentito dai vari protagonisti: escono importanti studi sull'argomento[6], si assiste a un costante ampliamento dei mass media e della loro copertura, e buona parte dei gruppi si dedica alla redazione di bollettini indipendenti[7] o si appoggia con regolarità a riviste ufficiali[8] Architettura come mezzo critico, utopia, comunicazione: alla luce di quanto finora detto appare comprensibile come la dimensione del racconto giochi un ruolo importante nella produzione di Neoavanguardia, e come un considerevole quantitativo di progetti mostri aspetti narrativi non trascurabili. Ci si potrebbe qui dilungare con numerosi esempi[9], ma usciremmo eccessivamente dal tema principale dello scritto, focalizzato sul solo Superstudio; quest'ultimo tuttavia costituirà di per sé un'argomentazione a favore di quanto sostenuto poc'anzi. Come annunciato, nel concorrere alla comparsa di questioni narrative legate al progetto di architettura, nel caso del gruppo fiorentino alle circostanze ambientali finora disanimate si aggiungono fattori legati alla formazione e agli interessi dei vari componenti. Sebbene il Superstudio sia un gruppo eterogeneo per quanto concerne il percorso culturale dei singoli protagonisti[10], questi ultimi sono uniti da una comune passione per quella fantascienza[11], soprattutto di tipo sociologico, che possono leggere sulle pagine di Urania: essa non manca, come vedremo, di influenzarne testi e immagini. Notiamo quindi come alla predisposizione alla comunicazione, alla critica e al racconto della Neoavanguardia, si affianchi nel caso del Superstudio una passione personale per il futuro narrato.

Procederò ora ad un rapido excursus delle opere, allo scopo di dimostrare come la dimensione narrativa acquisisca sempre maggiore importanza con il procedere della produzione del gruppo nel tempo; per brevità non considererò tutte le opere, bensì quelle che maggiormente rispetto ad altre permettono una chiara lettura in questo senso.

Nel 1969, sulle pagine di Domus[12] esce Un viaggio nelle regioni della ragione, lavoro che inaugura l'uso di una strategia di rappresentazione che sarà spesso usata dal Superstudio, ereditata dal mondo del cinema: quella dello storyboard, vale a dire una serie di immagini che rappresentano una sequenza cronologica di avvenimenti. In questo caso il documento si configura come una sistematizzazione di alcuni disegni e progetti, concepiti dal gruppo fin dal 1966: invece di optare per apparati grafici come abachi o tavole sinottiche, i fiorentini inseriscono quanto da loro prodotto in una cornice narrativa, in una sorta di sviluppo nel tempo. Essendo i progetti di partenza eterogenei, ne risulta un racconto dalle tinte oniriche, psichedeliche, all'interno del quale i progetti stessi si muovono come personaggi, stravolgendo in parte il loro senso primigenio e abbandonando qualsivoglia limite di scala o di materiale. È a tratti più facile riconoscere la descrizione consequenziale di semplici processi compositivi primari, come quello legato alla suddivisione del cubo, solido importantissimo nella composizione del Superstudio[13], mentre in altri casi i nessi logici e cronologici paiono di più complessa interpretazione. Quello che è importante ai sensi del presente saggio è come in questo si possa riconoscere un primo episodio all'interno del quale una palese narrazione compare nella produzione del gruppo: essa assume un ruolo cardinale, da un lato si costituisce come giustificazione poetica di processi compositivi precedenti, dall'altro ne modifica e amplia il campo di significato. L'aspetto narrativo è in questo caso prevalentemente legato alla componente iconografica, i brevi testi a corredo sembrano porsi su un ulteriore piano interpretativo, sospeso tra poesia e ironia, e letti senza le immagini risultano di difficile comprensione, soprattutto per quanto concerne i rapporti causali e cronologici. Il documento non sembra mostrare un'unica sequenza, bensì differenti scene, giustapposte senza soluzione di continuità, alcune delle quali limitate ad un solo still frame[14] Un'anima narrativa accompagna anche uno dei brevi testi relativi al progetto per gli Istogrammi di architettura, il tono è quasi rivelatorio, biblico, si predilige l'uso del passato remoto[15], tuttavia la cosa sembra rivelarsi maggiormente un espediente stilistico e poetico, piuttosto che un meccanismo compositivo. Il testo muove verso territori cari alla seconda fase di attività del gruppo, che dopo un inizio vicino una composizione pop in cui sono riconoscibili influssi di area anglosassone[16] si spinge sempre di più verso un universo onirico, minimale e distaccato, fatto di disegni unici, architettura non fisica[17], composizione “senza sforzo” e riti antropologici: un universo che costituirà terreno fertile per il fiorire di ben più complesse narrazioni, come avremo modo di osservare in seguito.

Analoghi toni rispetto a quelli utilizzati per gli Istogrammi si ritrovano nello scritto relativo alla Grazerzimmer[18], che darà inizio all'iter progettuale del celebre Monumento continuo. Nel testo Lettera da Graz, edito su Domus[19], l'allestimento della mostra cui Superstudio è invitato a partecipare, esponendo proprio una porzione minima di quello che poi sarà il Monumento, è descritto in maniera narrativa, come si trattasse del punto di arrivo di un viaggio dai toni favolistici o leggendari[20] . Ancora una volta la narrazione non entra a fare parte della composizione, ma ne accompagna gli esiti, tuttavia è proprio con il Viadotto di architettura, poi Monumento continuo, che assistiamo ad una svolta in questo senso. Le prime immagini del gigantesco edificio presentano una sorta di rapporto cronologico implicito per quanto concerne i contenuti, in altre parole esse sembrano diverse fasi, cronologicamente disposte, sella stessa storia: il primo fotomontaggio del Monumento lo mostra emergere dalle sabbie del deserto, come in un atto di nascita, e successivamente lo vediamo solcare il deserto, le cocktown inglesi, Medina, per poi approdare nella grande metropoli per antonomasia, New York. Si noti come l'ipotetico movimento dell'edificio non sia solo collocato all'interno di una consequenzialità geografica, ma anche cronologica, come si trattasse di un elemento antico, ancestrale. Un dattiloscritto del 1969 riporta un primo storyboard, dal quale rileviamo un incremento della dimensione di racconto insita nel progetto: si tratta di un documento più ampio ed omogeneo rispetto al Viaggio nelle regioni della ragione, all'interno del quale la consequenzialità delle vicende è molto più agevole da seguire rispetto al precedente. Esso da un lato restituisce una ricostruzione della genesi progettuale, dall'altra aiuta a fare chiarezza su questioni poetiche e compositive. Una sequenza di 92 cornici ci conduce attraverso varie scene: in quella che potremmo riconoscere come la prima, dal taglio argomentativo e didattico, ci troviamo di fronte ad una sorta di antefatto, nel quale si riflette sulla geometria e sulla misura, lette come elementi di ordine cosmico, e quindi fautrici di pace e tranquillità per l'umanità inquieta. Dal diciassettesimo quadro le cose cambiano, e si entra nel vivo del racconto, con la visione onirica di un cubo nero, puro, che emerge dalle sabbie del deserto, per poi fasciarsi e partizionarsi nella stessa maniera vista nel Viaggio nelle regioni della ragione. Del tutto simile è anche l'operazione che prende vita nella terza scena: riconosciamo infatti dei frame che rimandano allo stesso documento, nella fattispecie si tratta di disegni che descrivono un viaggio all'interno di un “museo drive in dell'architettura”. Altre scene si susseguono, Come arredare il deserto, Come illuminare il deserto, fino a raggiungere un punto nodale del racconto per immagini: il gruppo di avvenimenti denominato Le apparizioni. In questo quintetto di scene assistiamo a sequenze profondamente oniriche, enigmatiche e dense di carica simbolica, in cui convivono riferimenti al quadrato nero di Malevic e jet supersonici; è la quinta di esse a condurre la narrazione verso il Monumento continuo, alla sua conclusione assistiamo infatti ad un cambio radicale del punto di vista, nel quale l'angolazione si allontana dal deserto, per abbracciare l'intero pianeta Terra. Lentamente l'immagine si stringe verso il suolo e due linee, all'altezza dei tropici, solcano senza soluzione di continuità la superficie del pianeta, mostrandosi come un unico elemento, un disegno unico, un monumento di scala ciclopica, che è sintesi e modello finale di tutte quelle apparizioni viste nelle sequenze precedenti: esso, all'interno del quadro 67, si mostra interrotto, restituendoci l'idea di un elemento in movimento rettilineo – e pertanto razionale nella visione dei fiorentini[21] – il cui scopo ultimo è quell'abbraccio planetario prefigurato una cornice prima. Lo sguardo si stringe, vediamo il monumento ripercorrere più precisamente quel sentiero nello spazio e nel tempo di cui abbiamo parlato in precedenza; l'edificio si inserisce prima nella natura, poi intacca e si sostituisce ai grandi monumenti del passato, per poi approdare al grande monumento della modernità: la città nuova, la metropoli americana, ormai superata e ridotta ad “un mazzo di antichi grattacieli” dal Monumento continuo. Capiamo quindi in questa sede come il racconto stia assumendo un ruolo importante nella progettazione del gruppo: senza di esso una buona parte delle immagini prodotte non sarebbero affatto esaustive ad una ricostruzione e una giustificazione sul piano poetico e compositivo.

Dopo le indagini attorno all'architettura non fisica e al disegno unico, l'attenzione del gruppo devia verso una sempre maggiore smaterializzazione dell'architettura stessa, a favore di un rinnovato interesse attorno alla sua origine di tipo antropologico. È questa la premessa dell'eterogenea raccolta che porta il nome di Atti fondamentali, un progetto per cinque film, cinque “capitoli”, non tutti realizzati, dedicati appunto a quegli atti antropologici, riconosciuti come generativi tanto dell'architettura, tanto in senso più ampio del vivere umano: Vita, Educazione, Cerimonia, Amore, Morte. Una raccolta eterogenea, si è detto: differenti sono infatti le tipologie di documento che dovrebbero concorrere alla realizzazione dei filmati, come testi critici, immagini, storyboard e narrazioni, che in questo caso si conformano come veri e propri racconti. Rileviamo a volte una assenza di soluzione di continuità, vale a dire che quello che comincia come un testo critico o una relazione pseudo-tecnica, repentinamente può tramutarsi in una storia. Opererò nel caso di questo documento una selezione, soffermandomi su passaggi che non richiedano trattazioni troppo complicate: numerosi sono gli esempi narrativi presenti all'interno degli Atti che necessiterebbero infatti ragionamenti lunghi, qui omessi per brevità e pertinenza al tema del presente saggio. Inoltre, dal punto di vista delle fonti, farò riferimento alla raccolta di opere recentemente curata da Gabriele Mastrigli, certo il testo più completo da questo punto di vista al momento disponibile[22]. Venendo ora agli Atti, Casabella pubblica nell'anno 1972 la raccolta dei testi che il gruppo contemporaneamente presenta al MoMA di New York[23], inerenti il primo dei cinque macro-temi che compongono l'operazione, ossia Vita: Supersuperficie. Si tratta di uno dei progetti più iconici e conosciuti del gruppo, che analizzerò più approfonditamente degli altri capitoli del documento, proprio alla luce di questa maggiore notorietà. La Supersuperficie si pone come un “modello alternativo”[24] di esistenza sul pianeta Terra: ad accompagnare le notissime immagini a fotomantaggio e le installazioni, e a fare inoltre da commento al video esplicativo, vi sono dei testi di particolare interesse, caratterizzati da quella disinvoltura nel cambio di registro cui si è in precedenza asserito. Su Casabella, come detto, possiamo leggere dei cospicui estratti dallo storyboard del video; dai primi paragrafi, di carattere programmatico e tecnico, il testo muove rapidamente verso un taglio narrativo, riconosciamo come le immagini prodotte altro non siano che illustrazioni a vere e proprie storie di un futuro più o meno possibile. Brevi brani come La montagna lontana o L'accampamento[25] altro non sembrano che incipit di racconti, la cui continuazione è affidata alla fantasia del lettore-spettatore, stimolata dalle affascinati immagini a corredo del testo, fino a giungere a intensi passaggi come Cosa faremo[26], all'interno del quale il tono si sposta ancora, verso la parabola, la profezia. Merita sottolineare come la narrazione non sia più in questo caso un accompagnamento o un elemento generativo della composizione architettonica, bensì si sostituisca ad essa: quello della Supersuperficie si mostra come il culmine di un percorso riduttivo sull'architettura, a favore proprio di quella Vita che ne dà il titolo, e in questo senso appare comprensibile come la tecnica del racconto si riveli ben più utile a comunicare questo concetto, efficacemente riassunto nella nota frase “L'unica architettura sarà la nostra vita”.

Se all'interno di Vita abbiamo riconosciuto vari momenti di narrazione – o pseudo-narrazione, essa risulta ancor più presente in seno al secondo capitolo, quello dedicato all'Educazione: in seguito a due testi introduttivi, ci imbattiamo in una serie di possibili storie. La prima è in realtà una meta-storia, una sorta di progetto per una storia, e porta il titolo di Una vita intera: all'interno di essa ci troviamo di fronte all'idea di realizzazione di un film, un film lunghissimo, che dura quanto il ciclo vitale di una persona, con finalità didattica ed educativa. La seconda storia si configura come una finta conferenza, tenuta da un elemento del Superstudio, attorno alla vita e le opere di un architetto d'invenzione Almerigo Baccheschi: il tono è farsesco, ironico e a tratti cinico. La tecnica della finta conferenza, con toni analoghi, è presente anche in un altro passo, intitolato Un esempio di cerimoniale, all'interno del quale ci ritroviamo ad assistere ad un ipotetico congresso di etnologia: l'Italia è un paese abitato da “indigeni” che vanno studiati. Il meccanismo messo in atto dal racconto è tutto sommato semplice ma efficace, ai sensi di una critica ironica del mondo dell'educazione nel Bel Paese: la carriera scolastica è infatti figurata e interpretata come una serie di riti iniziatici, l'educazione stessa è dipinta come qualcosa di inerente a un mondo tribale, in cui greco e latino altro non sono che “dialetti arcaici”.

Procedendo speditamente, all'interno di Cerimonia, il terzo capitolo degli Atti, ci troviamo di fronte a vari racconti che nuovamente si basano su etnologie fittizie: Quelli che non alzano i muri e sono felici, Los esclavos, Il grande pellerinaggio, Un rito espiatorio, Gli uomini che vollero il deserto, Un edificio per una cerimonia sconosciuta. Si tratta di una raccolta che necessiterebbe una trattazione a parte, a causa della vastità dei temi affrontati, basti in questa sede sottolineare come questi sei racconti etnologici si rivelino in realtà delle aspre critiche in forma di metafora nei confronti di alcune pratiche proprie del design e dell'architettura commerciale, unitamente ad alcuni tipici meccanismi messi in moto dal capitalismo.

Nel quarto capitolo, Amore, tutti gli scritti si avvalgono della finzione narrativa: incontriamo una serie di brevi racconti, all'interno dei quali, in maniera originale per quanto concerne gli Atti, ricorre l'immagine di una fantomatica “macchina innamoratrice”. Un momento particolarmente interessante in rapporto a questa indagine è riconoscibile nel passaggio intitolato Un edificio nella Giungla, nella cui cornice possiamo riconoscere una sorta di meta-storia, un racconto che ne contiene un altro; si tratta peraltro di una delle parti del documento maggiormente focalizzate sull'architettura, ormai spesso abbandonata a favore di posizioni critiche che coinvolgono spettri più ampi dell'esistenza umana. Il racconto in questione narra l'incontro con l'architetto di un edificio dall'alto valore simbolico posto all'interno di una vastissima radura nel fitto di una foresta: la gigantesca architettura si configura come un sistema di scatole nella scatola, in forma di parallelepipedo. Dalle parole dell'architetto apprendiamo come esse rappresentino fasi successive della costruzione dell'edificio, in un movimento cronologico inverso rispetto a quello che presagiremmo: la parte centrale, apparentemente antica, originaria, si rivela la più recente. L'edificio è abitato unicamente dal suo progettista, è stato abbandonato dai suoi abitanti, il racconto nel racconto – le parole dell'architetto – si rivela un espediente narrativo capace di mettere in moto una metafora critica nei confronti della disciplina architettonica, sul piano della teoria, della storia, della composizione e del rapporto con la committenza[27] L'ultimo capitolo, Morte, comincia con una tipologia di scritto non ancora incontrata all'interno del documento, vale a dire un catalogo, una raccolta di quelli che sono gli usi funebri tipici di varie parti del mondo[28]. Seguono poi altri cataloghi di citazioni sulla morte, tematizzati per area disciplinare. Mi interessa rilevare come anche in questo caso sia presente la narrazione, all'interno del passaggio Morte, ovvero dell'immagine pubblica del tempo e della memoria. Il tono è quello biblico e profetico che abbiamo imparato a riconoscere in molti degli esempi precedenti, e anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una storia nella storia: la voce narrante si trova immersa in un ambiente sconosciuto e surrealista[29], che comprende essere un cimitero, o meglio uno dei modelli di cimitero che ormai sono collocati lungo tutta la superficie del pianeta, di cui apprende in seguito il funzionamento, a mezzo di una sorta di “foglio di istruzioni”[30] – appunto la nostra storia nella storia. Qui i colori del racconto si tingono di fantascienza, quello che sembrava un mondo mistico e simbolico si stravolge in un'utopistica tecnica informatica satellitare, capace di perpetrare in eterno la memoria, tramutando di fatto i cimiteri in un database di personalità decedute, e realizzando alfine un nuovo e pacifico rapporto con la morte. Come per l'Edificio nella giungla visto in precedenza, è questo uno dei racconti che ancora considerano centrale l'architettura, tanto da mostrare dei riferimenti al progetto redatto dallo studio per il concorso del cimitero di Modena[31]. Vero è che in linea generale, all'interno degli Atti, la dimensione disciplinare passa in larga parte in secondo piano, a favore di tematiche sociologiche: in questo possiamo riconoscere non solo l'efficacia ma la necessità dell'uso della forma narrativa, come mezzo di comunicazione certo più agevole alla trasmissione dei concetti desiderati e della poetica che li sottende. Con questo intendo nuovamente sottolineare come il racconto, da espediente compositivo, divenga nella fase tardo-mediana della produzione del gruppo un inevitabile bisogno.

Ho intenzionalmente lasciato per ultimo un documento redatto poco tempo prima, a cavallo tra 1971 e inizio del 1972, poiché riconoscibile come il punto massimo raggiunto dalla dimensione di racconto nella produzione del Superstudio, un documento in cui possiamo ancora riconoscere una forte presenza di quell'architettura che abbiamo visto spesso svanire in questa fase. Si tratta delle 12 città ideali[32], una raccolta non sistematica[33] di altrettanti racconti, distopie[34] di città del futuro, scritta dal solo Gian Piero Frassinelli, “antropologo” e fronte critico interno del gruppo. Ogni scritto descrive e disegna una città, partendo da un'operazione che è propria della letteratura di fantascienza nella sua frangia più critica e sociologica, vale a dire l'incremento di un singolo aspetto del contemporaneo ritenuto negativo. In tal senso queste città del futuro altro non sono che delle metaforiche ipertrofie delle città dell'allora contemporaneità, in cui quella complessità di coercizioni, contraddizioni e ingiustizie che si riconosceva viene dissezionata e restituita in una forma aumentata e allo stesso tempo drammaticamente risolta. Centrali sono i temi della tecnica – intesa come prassi di regole da applicarsi su larga scala a singole criticità – e della tecnologia – vista come elemento attuativo di detta tecnica: si parla quindi ancora di architetture, in merito alle quali si definiscono funzionamenti e meccanismi in maniera più o meno precisa, ma si tratta di architetture che altro non sono se non delle complesse ed efficacissime macchine delle torture. La raccolta allora si presenta come un catalogo disomogeneo di orrori in forma di architettura, visioni interrogative e critiche di un presente che si vede volto alla catastrofe. Si tratta a detta dell'autore dell'unico progetto del Superstudio ad aver visto la propria origine nella parola scritta e non nell'immagine, cosa che ha peraltro generato non poche difficoltà nella realizzazione degli apparati grafici[35]. In altra sede si ho potuto approfondire minuziosamente la sommatoria di tematiche, riferimenti e affinità che soggiaciono alla scrittura del documento[36], di cui tratterò qui per sommi capi, allo scopo di dimostrare come anche in questo caso quell'uso della narrazione non rappresenti una scelta stilistica ma una necessità compositiva e progettuale, in chiave critica. Le immagini non si rivelano sufficientemente efficaci infatti a trasmettere la pulsione antagonista che anima tutto il documento: si consideri ad esempio la prima città, più facile da trattare in questa sede, intitolata Città 2000t. Dalle immagini in nostro possesso otteniamo parziale informazione della sua configurazione macroscopica – una griglia di ordine ciclopico potenzialmente estesa all'infinito in due dimensioni – e microscopica – un secondo ordito grigliato, costituito da celle singole di cui conosciamo anche le misure. Tuttavia il meccanismo illusorio e al contempo repressivo che regola la città non è trasmissibile attraverso l'uso apparati grafici: apprendiamo così dal racconto che si tratta di un dispositivo[37] complesso, che applica un'autorità e un controllo profondamente coercitivi, sfruttando il palliativo di una vita eterna, fatta di desideri virtualmente esauditi e rinnovati attraverso una tecnologia avveniristica[38]. Gli abitanti infatti vivono un'esistenza infinita, in stato ipnagogico indotto, senza rapporti l'uno con l'altro, collegati a un computer centrale che ne analizza e soddisfa i desideri, agendo in maniera tecnica, ossia facendone la sommatoria e ritrasmettendone quelli comuni a tutti i singoli inquilini. La tecnologia è una grande madre, che provvede alla vita dei suoi figli: non c'è fatica, lavoro, competizione, ma mancano ambizione, impegno, condivisione. Come una vera e propria divinità, ciò che la città fornisce, può anche toglierlo: quando i pensieri e i desideri di un abitante non sono allineati a quelli della massa, ecco scendere il soffitto della sua cella, divenuto una pressa che con il peso di 2000 tonnellate mette fine all'esistenza di qualsivoglia dissenso. Non è difficile riconoscere nel progetto una grande metafora critica in forma di architettura, antagonista nei confronti della società del conformismo, dei desideri indotti dal consumo sfrenato, della repressione – anche violenta – del dissenso[39]. In maniera del tutto affine operano gli altri scenari messi in atto nel documento, scagliandosi contro il conformismo, le gerarchie e la scalata sociale a tutti i costi, il lavoro alienante, il divertimento come sfogo collettivo di istinti violenti, l'immoralità e la finzione individuale[40] Chiudendo il cerchio, è questa concezione di architettura come strumento critico e non come finalità ultima a rimarcare l'efficacia del racconto nell'opera del Superstudio: più le tematiche nel corso del tempo si allontano da questioni disciplinari, abbracciando una dimensione trasversale, più la narrazione acquisisce efficacia, per il suo maggiore valore comunicativo. Negli stessi anni possiamo riconoscere una continuazione di simili strategie nell'opera di un ammiratore del gruppo come lo è Rem Koolhaas[41], tuttavia nel Superstudio la narrazione ha indubbiamente raggiunto un'importanza a cui pochi, o forse nessuno, sono riusciti ad avvicinarsi.

Al giorno d'oggi, circa cinquant'anni dopo, assistiamo ad una ricomparsa dei temi del racconto in seno all'architettura, e ha senso chiederci, alla luce della trattazione finora intessuta, se vi siano o meno continuità, affinità o discrepanze tra quanto oggi in atto e questo esempio disciplinare precedente. Come prima considerazione, ho in più passaggi sottolineato come quello della narrazione sia uno strumento molto utile alla trasmissione di senso, alla comunicazione, non solo sul piano meramente concettuale ma anche su quello poetico ed emozionale. Riconosciamo qui una prima ragione dell'adozione odierna di quella pratica definita storytelling: comunicazione ed emozione giocano nel contemporaneo ruoli spesse volte affiancati, se non in rari casi sovrapposti, certo importanti in un momento storico unico come il nostro, entro la cui cornice la comunicazione è divenuta essa stessa una merce pregiata, e l'emozione uno degli elementi attrattori più efficaci all'interno di essa. Pare cioè che il racconto sia comparso o ricomparso nella disciplina architettonica poiché raccontare è divenuto importante, più importante che in passato. Notiamo quindi un parallelismo con l'opera del Superstudio, che è rappresentato dalla ineludibile necessità del racconto; tuttavia se comune è la presenza di detta necessità, ovvio non è che lo sia anche la natura di essa e la sua motivazione profonda. Per il gruppo fiorentino, come abbiamo detto, il racconto è la risposta a un bisogno di maggiore efficacia nel comunicare a più livelli una posizione critica, negativa e antagonista, che con l'avanzamento della produzione passa da una semplice tecnica della rappresentazione a una parte integrante dell'atto compositivo: non è cioè un corredo al progetto, ma parte del progetto stesso. Possiamo sostenere altrettanto per quanto concerne la progettazione contemporanea? Essendo in questo caso l'area di indagine molto vasta, non posso che dichiarare a priori la parzialità della risposta, tuttavia alcuni ragionamenti critici possono venire messi in atto. In primis, quando si parla propriamente di storytelling, termine dal conio recente e ancora privo di univoca definizione, non si intende unicamente l'atto del raccontare in forma narrativa, ma in alcuni campi il mero atto del raccontare, allo scopo di catturare l'attenzione e creare interesse. “In alcuni campi”, si è detto: uno di questi è quello della comunicazione commerciale, all'interno del quale fare storytelling significa raccontare un prodotto, raccontare un'azienda, creare interesse attorno ad essi, innalzarne nel secondo caso la awareness[42]. In questo senso ritorna quella necessità di cui si parlava in precedenza, ma non si tratta di una necessità espressiva, bensì di una necessità comunicazione, o più propriamente di mercato. Si consideri inoltre che in un meccanismo di questo tipo è possibile avvenga un'interessante inversione dei ruoli: se la cosa importante è raccontare, allora è il contenuto a essere al servizio del racconto, e non il racconto ad essere al servizio del contenuto; quest'ultimo può anche avere poca importanza, ciò che conta è che se ne parli, e avrà importanza se se ne parlerà molto e bene. A riprova di quanto appena sostenuto, merita in questa sede citare la pratica del branded content: con questo termine si indica la creazione di contenuti di marca, vale a dire storie potenzialmente interessanti che potranno essere associate ad un brand, che magari non produce affatto dei prodotti o dei servizi direttamente correlati a quelle storie. Vi sono molti esempi a riguardo[43], quello che va sottolineato è che si tratta di un'esigenza legata al maketing, che a noi in questa sede interessa nel suo ruolo di indice. Essa infatti ci segnala che quando trattiamo il contemporaneo forse qualcosa è cambiato nel nostro rapporto con il racconto, ancora prima che nel rapporto che l'architettura ha instaurato con esso. Un ragionamento di questo tipo ci porta a chiederci se è possibile considerare l'architettura un prodotto, e se pertanto esso – in maniera tutta contemporanea – necessiti come gli altri prodotti di una quota parte di racconto, di storytelling, per penetrare il mercato. In certi casi mi sento di dare una risposta affermativa, al di fuori di qualsivoglia giudizio di valore sull'architettura stessa. Un esempio pertinente pare essere la pubblicazione Yes is more, ad opera di Bjarke Ingels, un volume che come è noto utilizza lo strumento del fumetto per fare storytelling attorno alla produzione dello studio BIG. Ingels è probabilmente uno dei più consapevoli comunicatori nel campo dell'architettura contemporanea, e nel libro in oggetto ci porta attraverso una sorta di “dietro le quinte” di alcuni dei suoi maggiori progetti: l'intenzione ultima non pare tuttavia essere di tipo esplicativo, in tal senso sarebbe stato più utile ed efficace avvalersi di materiali di archivio quali fotografie di modelli e schizzi, sistematizzati in abachi cronologici o diagrammi compositivi. Tuttavia Ingels non agisce in questo modo, attraverso il fumetto racconta non la produzione, ma l'attitudine progettuale, la visione del mondo e la poetica del suo studio, divertente ma poco approfondita, e certo seducente, soprattutto per coloro che di architettura hanno scarsa esperienza ma sono inclini a lasciarsi affascinare da un discorso di questo tipo: i suoi futuri clienti, ad esempio. In questo settore lo storytelling sta acquisendo sempre maggiore importanza, ne sono prova i corsi di scrittura dedicati che stanno nascendo negli ultimi anni. Va inoltre sottolineato come molti studi di architettura più giovani profondano notevoli energie nel campo del medesimo storytelling, portando avanti efficacemente un diuturno lavoro di racconto, il cui soggetto è costituito dallo loro stessa attività professionale. Ancora una volta quindi non ci troviamo di fronte ad un rapporto particolarmente profondo tra narrazione e architettura, quest'ultima sembra più considerata come una serie di eventi quotidiani nella vita di uno studio, che più di altri meritano di venire condivisi. Allo stesso tempo il racconto sembra emergere in maniera più profonda dal punto di vista compositivo in alcune esercitazioni accademiche svolte in area anglosassone: un progetto interessante in questo senso è ad esempio The cult of the infinite, di Isaac Barraclough, del 2010, sviluppato nell'università di Huddersfield, In questo caso il punto di partenza è costituito da un racconto di Jorge Luìs Borges, non ci troviamo quindi di fronte ad una narrazione sviluppata contemporaneamente all'architettura. Esempi positivi di architettura legata al racconto, più vicini al caso del Superstudio, si possono riconoscere nell'opera di Lebbeus Woods, autore di immagini critiche che mostrano un'attitudine profondamente narrativa, come fossero still frame di storie ignote ma immaginabili, simili alle visioni dei fiorentini. Non a caso è Woods un produttore di architettura in gran parte disegnata, priva della pretesa di una costruzione, e come lui ce ne sono altri.

Concludendo, è quello del Superstudio un caso non unico ma certamente limite, estremo anche rispetto al panorama contemporaneo, talmente estremo da far divenire la narrazione l'elemento preponderante, allontanando sempre di più l'architettura. E certamente, a rileggere le 12 Città oggi non possiamo che riconoscere in esse una poetica diametralmente opposta a quella che ha generato pratiche quali lo storytelling figlio di internet, tuttavia il loro apporto non si rivela privo di utilità. Perchè allo stesso tempo quello del Superstudio è anche un caso efficace: laddove essa sia ancora presente, permette all'architettura un confronto critico con tematiche che, nel caso di quelle Città, si sono poi rivelate di notevole attualità; ha permesso in altre parole di intuire questioni che in altri casi non sono state previste. L'opera del gruppo può quindi costituire un esempio operativo da affiancare alla progettazione in senso stretto, per ampliarne l'apporto critico e il risultato sul contemporaneo, naturalmente alla luce di un sistema di parametri che nel tempo è mutato. Merita quindi, almeno un po', riempire di storie le architetture che immaginiamo, prima di riempire la storia di architetture che costruiamo.

 

Note

[1] Superstudio è stato un gruppo di architetti fiorentino, facente capo alla cosiddetta architettura radicale, nato nella seconda metà del 1966 e scioltosi nel 1978, ne fecero parte Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo di Francia, Gian Piero Frassinelli, Alessandro e Roberto Magris, Paolo Poli. Il gruppo è particolarmente conosciuto per le affascinanti immagini a fotomontaggio prodotte per illustrare i progetti, i cui più noti sono il Monumento continuo e la Supersuperficie.

[2] Se ne occupa in parte in tempi recenti Laura Chiesa, all'interno del volume Space as Storyteller, Spatial Jumps in Architecture, Critical Theory, and Literature: nel capitolo 4.1, Fictionalizing the Extremes of Functionality, restituisce una interessante analisi attorno alle 12 Città ideali (Chiesa 2016).

[3] Tale oggetto si declina logicamente nel caso dei gruppi che si occupano di architettura in una avversione nei confronti del Moderno e dell'International Style, tacciati di una visione eccessivamente tecnica e focalizzata sulla massa, che trascura l'uomo nella sua individualità.

[4] Faccio qui riferimento ad una lettura marxista eterodossa, che è denominatore comune di gran parte delle formazioni di Neoavanguardia europee, soprattutto italiane: capitale e contraddizione vengono visti l'uno come la causa dell'altra, e caratteristica del capitalismo è la repressione di questa crisi che esso stesso costantemente crea, una repressione che si configura come la trasformazione di qualsiasi voce di dissenso – di avanguardia – in qualcosa di inoffensivo e spesso utile alla sopravvivenza e al perfezionamento del sistema.

[5] secondo libro di Utopia di Thomas More, del 1516, è la descrizione del viaggio compiuto dal protagonista verso una società ideale, configurata come un'isola lontana, caratterizzata da principi, norme e prassi politico-sociali positive, ideali, differenti da quelle dell'Inghilterra coeva.

[6] Il tema è affrontato approfonditamente in Italia da Umberto Eco, che all'epoca insegna proprio a Firenze ed è professore di alcuni tra i protagonisti dell'architettura radicale (il gruppo UFO ad esempio), ma l'opera più nota in questo senso è sicuramente The medium is the message (McLuhan 1967).

[7] È proprio grazie a queste riviste autoprodotte che il Superstudio inizia a muovere i primi passi e a definire la propria poetica: è Adolfo Natalini che, facendo la spola per motivi personali tra Firenze e Londra, porta in facoltà i primi numeri di Archigram; l'editoria indipendente di architettura dell'epoca è stata nell'ultimo decennio sistematizzata e analizzata grazie alla serie di mostre ed eventi denominata Clip, Stamp, Fold, poi conversa nell'omonima pubblicazione (Buckley e Colomina 2010).

[8] Sarà soprattutto Casabella a dare voce al Superstudio e all'architettura radicale, contribuendone in larga parte alla notorietà: Alessandro Mendini diviene direttore della testata nel 1970, segnando un deciso cambio di rotta, per poi abbandonare il ruolo nel 1976. Da quel momento in poi la presenza delle avanguardie sulle pagine della rivista sarà grandemente ridimensionata.

[9] Non si può non menzionare il progetto della città situazionista, quella New Babylon per lungo tempo disegnata da Constant, una metropoli globale incentrata sul nomadismo come condizione perenne e sul gioco come principale attività della vita. Le sue rappresentazioni sono intrise di una dimensione narrativa che è tipica dei Situazionisti, paiono spesso delle ispirazioni in forma di carta geografica per un racconto ancora da scrivere.

[10] Ad esempio: Adolfo Natalini è focalizzato maggiormente all'arte, Cristiano Toraldo di Francia ha una formazione scientifica – è figlio di un noto docente – e si interessa di fotografia, Gian Piero Frassinelli si occupa di antropologia.

[11] È Gian Piero Frassinelli a dirlo a Gabriele Mastrigli in un'intervista, e lo stesso Frassinelli me lo ha confermato in un'intervista da me tenuta nel 2016, nella quale abbiamo largamente conversato di fantascienza (Mastrigli 2015).

[12] Domus 479, ottobre 1969, pp 39-40.

[13] Il cubo è un solido ricorrente nella poetica del gruppo, al quale il gruppo affida significati contrastanti: esso rappresenta in alcuni casi la pace data da una composizione senza sforzo, di pura ragione, in altri l'aberrazione dello stesso meccanismo mentale e compositivo, e si riflette nella persistenza di due edifici di riferiment per i fiorenitini, quali la Kaa'ba e il Vertical Assembly Building della NASA.

[14] « 1. Una tavola sinottica da usare come mappa per il facile orientamento: 1) cubo, 2) arcobaleno, 3) nuvola, 4) ziggurat, 5) onda
2. Bollettino meteorologico ascoltato alla partenza con alcuni fenomeni facilmente prevedibili: tra le nuvole un cubo, un parallelepipedo, un parallelepipedo super, un arcobaleno a zig-zag. 
3-7. Prime prese di contatto con la geografia locale: natura naturans e natura naturata, hardware/software, esprit de géométrie e esprit de finesse. Il duro e il morbido. Alcune apparizioni significative. 
8-11. Uno strano caso. Osservando un cubo appena liberato dalle cinghiature esterne si assiste al suo sdoppiarsi, quadruplicarsi ecc e i pezzi se ne vanno per conto loro portando con sé i ricordi della loro origine. 
12-13. Due storie d’amore <tra i molti casi d’attrazione reciproca. Due elementi simili possono esser legati da un elemento dissimile (o da più elementi dissimili). Il problema dei collegamenti, particolarmente sentito nelle «regioni della ragione», può trovar soluzione solo con un intervento dall’alto richiamato da una precisa volontà della base.> 
14. Un oggetto volante immobile ed identificabile. 
15-21. Un viaggio in auto in un museo drive-in dell’architettura 
22. Un souvenir allegorico: «nella prospettiva storica la ragione domina tutto». 
23. Una foto ricordo coi compagni di viaggio. 
24. Un viaggio in aereo con un atterraggio pericoloso tra i pilastri della saggezza. 
25. Radiose prospettive. 
26. Un difficile passaggio attraverso gli specchi. »

[15] Pubblicato in Elementi: quaderni di studi – notizie ricerche, 2, 1972: « Istogrammi. In quegli anni poi divenne molto chiaro che continuare a disegnare mobili, oggetti e simili casalinghe decorazioni non era la soluzione dei problemi dell’abitare (…) Preparammo un catalogo di diagrammi tridimensionali non-continui, un catalogo d’istogrammi d’architettura con riferimento a un reticolo trasportabile in aree o scale diverse per l’edificazione di una natura serena e immobile in cui finalmente riconoscersi. (…) La superficie di tali istogrammi era omogenea ed isotropa; ogni Problema spaziale ed ogni problema di sensibilità essendo accuratamente stato rimosso. Gli istogrammi si chiamavano anche Le Tombe degli Architetti.»

[16] In questa fase è riconoscibile quell'influsso degli Archigram già menzionato in precedenza, unitamente a quanto prodotto nel corso tenuto nel 1966-67 all'università di Firenze dal professor Leonardo Savioli, di cui Natalini sarà assistente, dedicato alla realizzazione di uno “spazio di coinvolgimento”: gli studenti sono chiamati a progettare un piper, un luogo dove tenere feste e dedicarsi alla libera espressione. Recentemente questo tema è stato approfondito in una pubblicazione dedicata (Piccardo 2016).

[17] Riassumendo, potremmo indicare con architettura non fisica la visione di un'architettura come esercizio mentale e critico, lontano dalle dimensioni di costruzione e costruibilità; il disegno unico è l'anelito alla riduzione dell'architettura ad un solo gesto puro e definitivo, finalmente risolutivo e creatore di pace nell'animo inquieto dell'Uomo: massima espressione ne sarà il Monumento continuo;

[18] Il progetto viene realizzato per l'edizione del 1969 di Trigon, ossia la biennale tri-nazionale di Graz, appuntamento che avrà un importante ruolo nelle vicende del gruppo, poiché permetterà il contatto con il florido ambiente dell'avanguardia austriaca, uno degli scenari più importanti dell'epoca, che annovera tra i partecipanti figure come Hans Hollein, Haus Rucker Co, Walter Pichler, Raimund Abraham.

[19] Domus 481, dicembre 1969, pp 49-54.

[20] « (…) e in mezzo a questo mondo di foreste montagne case di gnomi (…) c'è Graz (…) e nello Stadpark c'è questa costruzione, la Kunstlerhaus, (…) e dalla galleria ora sbuzzano fuori tre condotti rettangolari, uno verde, uno rosso, uno blu, col dentro buio (…) e di questo enigmatico monumento continuo (…) abbiamo presentato alcune foto a caso, abbastanza cartolinesche e quindi inquietanti (...)»

[21] In maniera in parte analoga a quanto asserito in precedenza per la figura del cubo, è per il gruppo la linea retta un altro simbolo ed espressione di razionalità assoluta, nello stesso tempo pacifica ed inquietante, un elemento ricorrente riconoscibile in molti progetti. Essa si pone spesso come processo mentale reso fisico attraverso l'architettura, all'interno degli Atti fondamentali si parlerà ad esempio della griglia di meridiani e paralleli resa reale, all'interno del capitolo Morte« (…) All’intersezione di queste due linee (presumibilmente la fisicizzazione di meridiani e paralleli passanti per il punto) si trovava un edificio neoclassico, stranamente spaesato in quel deserto cartesiano. (...)»

[22] Il libro esce in concomitanza con una mostra antologica, la più completa finora, tenutasi al MAXXI di Roma dal 21 aprile al 4 settembre 2016 (Mastrigli 2016).

[43] Nel 1972 si tiene in fatti la fondamentale mostra Italy: the new domestic landscape, curata da Emilo Ambasz, che vede presenti tutti i maggiori protagonisti del design italiano dell'epoca. Da un lato l'evento è di importanza cruciale poiché cementa la fama e il valore di molte delle personalità coinvolte, dall'altro tuttavia condanna le figure più antagoniste ad un ben preciso ruolo all'interno del sistema, spegnendone la carica di avanguardia; nello stesso tempo è in atto la condanna delle avanguardie stesse da parte di eminenti figure della critica italiana, su tutte Manfredo Tafuri. Casabella pubblica estratti dagli Atti nei numeri dal 366 al 381, da giugno 1972 a settembre 1973. Il catalogo della mostra al MoMA è disponibile per la consultazione all'indirizzo www.moma.org/documents/moma_catalogue_1783_300062429.pdf

[24] Il titolo inglese completo è Supersurface: an alternative model of life on earth.

[25] « La montagna lontana – Guarda quella montagna lontana... cosa vedi? E quello il luogo dove andare? o è solo il limite di abilità ottimale? È l'uno e l‘altro poiché non esiste più contraddizione, è solo un vaso di complementarità. Così pensava un'Alice assai adulta saltando la sua corda, molto lentamente. senza però né caldo né fatica. 
L'accampamento – Uno sta dove gli pare, portandoci tutta la tribù o la famiglia. Non c’è nessun bisogno di ripari, poiché le condizioni climatiche e i meccanismi corporei di termoregolazione sono stati modificati così da garantire un comfort totale. Tutt'al più si fa in riparo per gioco, per giocare alla casa, anzi per giocare all'architettura. (...) Il nomadismo diviene la condizione permanente: i movimenti degli individui e dei gruppi reagiscono tra di loro creando correnti continue. (…) »

[26] « Cosa faremo – Staremo in silenzio ad ascoltare il nostro corpo, sentiremo il rumore del sangue nelle orecchie, i leggeri scricchiolii delle giunture o dei denti, esamineremo la grana della pelle, i disegni dei peli e dei capelli. Ascolteremo il nostro cuore e il nostro respiro. Ci guarderemo vivere. Eseguiremo complicatissime acrobazie muscolari. Eseguiremo complicatissime acrobazie mentali. (...) Riusciremo a creare e trasmettere visioni e immagini, forse anche a far muovere piccoli oggetti per gioco. Faremo giochi bellissimi, giochi d'abilità e d’amore. (…) Andremo in luoghi lontani solo per guardarli (…) »

[27] « (…) al nostro avvicinarsi apri gli occhi e disse: “lo sono il capo dei costruttori, io sono colui che chiamano architetto. Aprimmo all'inizio una radura nella foresta e vi costruimmo l'edificio di acciaio con le pareti di specchio, ma la nostra immagine riflessa ci sconvolse e così ci ritirammo all’interno e costruimmo il cedevole edificio di tende. Ma le sue pareti erano inafferrabili, e non c'era punto cui appoggiarsi. Costruimmo così all’interno l’edificio in pietra lavorata con tutta la nostra arte. Esso esaurì le nostre forze e ci lasciò sgomenti per la sua bellezza. Cosi cercammo di ritrovare noi stessi attraverso l’uso delle nostre mani, e all’interno costruimmo la cupola di umile fango e canne in cui vivemmo. Una galleria scavata nel suolo ci portava all’esterno, alla foresta da cui ricevevamo frutta radici e piccoli animali. Mai una volta guardammo gli edifici da noi costruiti. Poi tutti sono tornati alla foresta. 
E io ormai me ne sto sdraiato sulla terra, in un punto che ricordo essere il centro degli edifici concentrici e attendo. Ma i costruttori sono fuggiti nella foresta ormai da lungo tempo, e da lungo tempo attendo l'abitatore cui la fabbrica era destinata. Di lui ho perso la memoria e il nome, ma era un uomo potente che apprezzava la bellezza.” (…) »

[28] È qui chiaramente rintracciabile il lavoro di redazione di Gian Piero Frassinelli, figura che come detto si mostra interessata a tematiche antropologiche e ha una spiccata tendenza all'accumulo e alla catalogazione, come lui stesso confessa a Gabriele Mastrigli nella già citata intervista (Mastrigli 2015).

[29] « Giunti che fummo fuori della città, si presentò ai nostri occhi un grande spiazzo uniformemente lastricato, diviso a grandi riquadri da sottili fessure. Questa specie di piazza si stendeva a perdita d’occhio: se ne intravedevano i limiti, o meglio se ne immaginavano i limiti, ove iniziava un'alta vegetazione da un lato, rilievi collinari dall’altro, e le prime costruzioni periferiche dagli altri due. (…) La superficie era perfettamente piana, e si poteva intuire che i riquadri erano orientati secondo i punti cardinali. Una piccola placca in bronzo all'incrocio di due delle fessure, all'incirca nel centro dello spiazzo, portava incise le coordinate astronomiche del punto. (…) Dalla mia destra vidi arrivare un gruppo di persone, normalmente vestite, che attraversavano il lastricato dirigendosi all’edificio. (…) »

[30] « H. Momento di immissione del cadavere e suo primo ciclo di restituzione. Il cadavere viene immerso in pozzi dislocati in vari luoghi. Tali pozzi (…) hanno la doppia funzione di trasformare il cadavere in energia e in memoria. (...) I pozzi costituiscono anche l’elemento immagazzinatore delle memorie. (...) Le loro bocche sono unità periferiche di un calcolatore. Diversi calcolatori sono collegati tra loro per mezzo di satelliti ritrasmettitori. L’accesso alle memorie immagazzinate avviene attraverso le capsule della memoria, terminali individuali di cui tutti i viventi sono forniti. Ogni bocca di pozzo è l’unico esempio di memoria architettonica e del cerimoniale tradizionale. (…) M. La memoria come elemento cosmico. Tutta l’energia-memoria è ritrasmessa dai satelliti. (…) »

[31] Lo studio ha partecipato al concorso nel 1971, allegando una relazione tecnica molto simile a parti del racconto appena analizzato.

[32] È questo il nome con cui il documento è comunemente noto in ambito italiano, esso è stato edito inizialmente incompleto sul numero 12 di AD Architectural Design del dicembre 1971 a titolo Twelve cautionary tales for christmas, premonitions of the mystical rebirth of urbanism, poi su Casabella 361, gennaio 1972, a titolo Premonizioni della parusia urbanistica, completo anche delle immagini a colori, assenti nella versione inglese.

[33] È l'autore stesso a definirla tale: non c'è un pensiero ordinato alla base del documento, ma un procedere dettato da ispirazioni successive, tanto che le città sono disposte in ordine cronologico di scrittura.

[34] Il termine distopia è stato coniato dal filosofo inglese John Stuart Mill e indica un'utopia al contrario, vale a dire la prefigurazione di un futuro negativo come risultato di principi del presente ritenuti negativi. Ai tempi il gruppo fiorentino non conosce questa parola, e usa preferibilmente il termine antiutopia.

[35] Nell'intervista che ho avuto modo di tenere con Gian Piero Frassinelli, egli mi ha riferito che nel caso degli Atti si era partiti dalle immagini, costruendoci poi delle narrazioni attorno, proprio alla luce delle difficoltà pratiche riscontrate nel procedere in maniera opposta nel caso delle 12 Città.

[36] Il mio percorso dottorale si è configurato come una ricerca attorno alle 12 Città ideali, all'interno della quale il documento è stato analizzato in maniera multidisciplinare cercando di ricostruirne tematiche, poetiche e affinità, sia dal punto di vista testuale che grafico.

[37] Intendo qui tale termine nell'accezione elaborata dalla filosofia negli stessi anni in cui sono state redatte le 12 Città, laddove si intende per dispositivo un meccanismo progettato per indurre un preciso comportamento. Ne è esempio molto efficace il Panopticon di Jeremy Bentham nella lettura fatta da Michel Foucault all'interno di Sorvegliare e Punire (Foucault 1975).

[38] « (…) Ogni cella ha quindi due pareti opposte confinanti con l'esterno; le pareti di ogni cella sono di materiale opaco ma permeabile all’aria, rigide ma soffici. La parete orientata a Nord (o se questa è confinante con l’esterno, quella orientata ad Ovest) è capace di emettere immagini tridimensionali, suoni ed odori. (…) è però il soffitto la parte essenziale della cella; esso è costituito da un unico schermo ricettore di impulsi cerebrali. In ogni cella alloggia un individuo i cui impulsi cerebrali sono continuamente captati dal pannello e ritrasmessi all'analizzatore elettronico unico, le cui complesse apparecchiature sono raccolte al sommo dell'edificio sotto una volta continua semicilindrica; l'analizzatore seleziona, compara e media i desideri dei singoli programmando attimo per attimo la vita di tutta la città mediante la parete emittente (…) Capita a volte che qualcuno si lasci prendere da assurdi pensieri di ribellione contro la vita perfetta ed eterna che gli viene concessa. La prima volta l’analizzatore ignora il crimine, ma se esso si ripete la città decide di rifiutare lo spazio vitale a colui che se ne mostra tanto indegno. Il pannello del soffitto si abbassa con una forza di duemila tonnellate fino a congiungersi al pavimento. (…) »

[39] È qui inteso soprattutto il fallimento dei moti del 1968, come riportatomi da Gian Piero Frassinelli nell'intervista che ho tenuta con lui.

[40] Il conformismo è preso di mira in molte città, tuttavia è nella Città dell'ordine che riconosciamo la critica più aspra: in essa gli abitanti vengono sostituiti con robot ubbidienti, membri efficaci e privi di personalità di un mondo ordinatissimo. Le gerarchie e la scalata sociale sono al centro della Città cono a gradoni, una megastruttura isolata che è rappresentazione della gerarchia stessa, nella quale chi sta più in alto domina chi si trova ai livelli inferiori, attanagliato dall'eterno desiderio di elevarsi, per ottenere meno doveri e più benefici. Il lavoro alienante è affrontato nella Città nastro a produzione continua, un nucleo urbano in continuo decadimento e in continua nuova edificazione, all'interno del quale la popolazione lavora continuamente per potersi permettere una nuova casa. Simili tematiche sono presenti anche nella Ville machine habitée. Il divertimento immorale, visto come valvola di sfogo violenta è tematica centrale del racconto della Barnum jr city, un parco dei divertimenti virtuale in forma di città, nel quale è possibile, pagando il dovuto, lasciarsi andare impunemente a qualsiasi nefandezza. La finzione compare all'interno della Città delle case splendide, un sistema di abitazioni progettate per dare alla collettività un'immagine dei proprietari che è quella che i proprietari stessi desiderano, lontana dal loro essere reale, dalla loro identità.

[41] Oltre al noto progetto del 1972 Exodus, or the voluntary prisoners of architecture, merita menzione The city of the captive globe, sempre del 1972, elaborato dalla forte connotazione narrativa, all'interno del quale è possibile riconoscere peraltro riferimenti agli Istogrammi del Superstudio.

[42] Vale a dire, in maniera semplicistica, la consapevolezza che il consumatore ha della marca stessa, e non dei suoi prodotti: come la marca si pone rispetto a tematiche ampie quali il lavoro, l'etica, la vita, le altre marche. Si tratta di un tema molto importante per quanto concerne il marketing contemporaneo.

[43] Di cui quello di riferimento è sicuramente Red Bull, una notissima azienda di energy drink che è anche produttrice di un ampio universo di contenuti, raccontati con efficacia su numerose piattaforme differenti.

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