Archite(s)tura, Testi e pre-testi di architettura per la rovina.

Chiara Barbieri



L’architettura come disciplina è in sé una forma di linguaggio che si propone di trasmettere messaggi: nel testo architettonico, osserva Luciano Semerani, c’è infatti un uso intenzionale delle forme, un iter decisionale che deriva dalla volontà di raggiungere effetti determinati. L’opera architettonica a sua volta può essere intesa come un testo da decodificare attraverso l’analisi delle proprie strutture sintattiche e delle questioni semantiche, al fine di ricostruire il processo delle scelte formali che conducono a una costruzione narrativa[1]. L’accostamento al racconto narrativo in ambito architettonico si rivelava aperto e complesso, in quanto capace di costituire un tessuto discorsivo all’interno del quale incontrare opinioni e orientamenti diversi[2]

Come scrive Vittorio Gregotti infatti, il racconto è uno dei materiali più concreti per l’architettura: «la narrazione architettonica (ma non mi pare molto diverso per gli altri tipi di narrazione) è un procedere-dentro, per mezzo di un soggetto verso un contenuto che è anzitutto disciplinare, e muove attraverso di esso e per mezzo di esso, verso qualcosa che può divenire nel significato, oggi, domani o forse tra molto tempo, per gruppi limitati o per ampie collettività, senza che ciò possa essere in alcun modo predisposto»[3]. La stessa idea di scrittura non è altro che la metafora «dell’incessante spostamento e della conseguente, continua ricollocazione di materiali tematici e motivi formali, soggetti a una costante evoluzione»[4] secondo Franco Purini. Tutta l’architettura si presenta come testo, ma solo alcuni casi sono esempi di scrittura: quest’ultima è composta da segni ma la differenza tra il segno linguistico e il segno architettonico sta nel fatto che in architettura non esistono segni arbitrari poiché essi hanno essenzialmente una funzione - formale o strutturale - e sono sempre motivati, sempre presenti. 

Sull’architettura intesa come testo tanto è stato scritto, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, grazie al contributo del filosofo francese Jacques Derrida che si è ampiamente occupato di tale questione. Egli sperimenta nella scrittura architettonica una scrittura in grado di sottrarre l’elaborazione del senso dell’esperienza - quindi del pensiero - alla sovranità del logos, inteso come parola viva concepita quale unità di segno e significato. Il filosofo sostiene che bisogna partire proprio dalla spazializzazione della scrittura, intesa come «condizione irriducibile dell’esperienza (…) costituita in rapporto all’alterità in generale, all’ambiente nel quale si inscrive, che attraversa, modificandolo»[5] e imprimendo le proprie tracce per il tempo a venire. Se da un lato, dunque, si può pensare all’architettura come testo, in cui le differenti scritture si sono stratificate nel tempo, allo stesso modo, osserva Derrida, è possibile pensare all’architettura come soggetto scrivente: «si può intendere che l’architettura stessa è scrittura, che non è solo scritta [written on] ma anche scrivente, attivamente scrivente»[6]. Alla luce di questa duplice natura, egli ritrova le caratteristiche di una scrittura pluridimensionale capace di ritracciare la dinamica dell’esperienza come elaborazione e di una sintassi propria che non dipende dal logos sovrano[7]. È possibile, inoltre, inscrivere e articolare nella scrittura architettonica l’esperienza nella sua multidimensionalità[8], poiché la dimensione fattuale è compresa nella struttura stessa del dispositivo architettonico: sequenza, serialità aperta, narratività, cinematica, drammaturgia, coreografia[9]. Alla sua multidimensionalità si aggiunge il valore multitemporale: questa caratteristica - tutta interna all’architettura - è ancor più evidente quando si opera all’interno di un testo architettonico, come quello delle rovine, che comporta necessariamente una riflessione sulle parti - esistenti e mancanti - per comprendere le modificazioni nel tempo. 

Le tracce preesistenti in cui si trama la scrittura architettonica, difatti, «non hanno più il valore di documenti, illustrazioni annesse, note preparatorie o pedagogiche»[10] ma contribuiscono a costituire «un testo voluminoso di scritture multiple» - quale è l’architettura -, una «testualità sovra-sedimentata, stratigrafia senza fondo, mobile, leggera e abissale, stratificata, fogliforme»[11]. Ciò è particolarmente manifesto nel caso in cui si ha a che fare con il progetto per l’archeologia: anch’esso rappresenta l’ipotesi di un testo che, come scrive Francesco Rispoli, «ordina successive ‘postille’». Man mano che queste si costituiscono muta anche l’impianto iniziale del testo e la sua coerenza finale è affidata al compimento di questa operazione ‘circolare’ di riscrittura[12], in cui passato, presente e futuro coincidono.

Nella cultura contemporanea, è consolidata l’idea secondo cui la figura dell’architetto ha il compito di acquisire nella propria memoria i dati raccolti dallo storico e dall’archeologo, leggendoli come processo dinamico e ricercando i valori di permanenza proprio nelle ragioni delle trasformazioni[13] necessarie per la progettazione del nuovo. Nelle sue lezioni americane, Italo Calvino fa appunto riferimento al tema della trasformazione come caratteristica principale e vitale dell’opera letteraria: «(…) l’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia, ma all’interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva. l’opera letteraria», e tanto più l’opera di architettura, «è una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo»[14]

Come un’opera letteraria, anche un’architettura è tale quando sopravvive al suo tempo e si trasforma plasticamente e semanticamente per adattarsi alle esigenze e alle qualità delle epoche che le succedono. Tale concetto è espresso anche da Daniel Libeskind in Radix-Matrix, quando scrive che «se fossi sicuro (…) [che un’] opera non sarà mai alterata, allora non sarebbe un’opera. Un’opera deve essere lasciata oltre la tua vita, lasciata esposta alla manipolazione o alla reinterpretazione. Questa è la ragione per cui tu costruisci. la fragilità stessa è parte della possibilità dell’opera»[15]. La re-interpretazione di cui parla Libeskind non assume più come quadro una restituzione/restaurazione di un ‘significato originario’, ma segue il succedersi di una serie di interpretazioni molteplici, che modificano al tempo stesso sia l’oggetto dell’interpretazione sia l’approccio dell’interprete. Questo perché si instaura un rapporto, una mediazione che rende simultanei il passato, indagato e interpretato, la tradizione, con il presente dell’interprete, con la contemporaneità inconsapevolmente esperita dal progettista[16]. Si viene, così, a generare quello che Vittorio Gregotti chiama ‘ispessimento’ semantico di un’opera[17], dovuto all’interpretazione/modificazione narrativa di un contesto: il progetto del nuovo, dunque, va considerato in quest’ottica, come interpretazione del rapporto di reciproca interdipendenza fra pre-testo (la preesistenza, la rovina, il passato) e con-testo (il paesaggio, il presente e la storia dei luoghi), nella misura in cui l’uno riesce a descrivere e a dare senso all’altro, in un processo sempre invertibile. 

Accanto al ruolo interpretativo del progetto del nuovo in relazione alla preesistenza si riconosce, tuttavia, un ruolo parallelo e attivo[18] dell’azione progettuale: a partire da un lavoro di lettura, di interpretazione e di comprensione dell’opera stessa appena venuta alla luce, il progetto assume un ulteriore senso diventando esso stesso un testo, in quanto, come osserva Torsello, «il comprendere non è mai solo un atto riproduttivo, ma anche un atto produttivo (…) secondo un ciclo produttore di senso che si rinnova sempre»[19]. È in virtù di questa operazione di riscrittura dell’architettura che si può definire la rovina archeologica come opera aperta e virtuale.

Per operare con le rovine, occorre dunque comprendere attentamente gli orientamenti che esse sono in grado di offrire, al fine di trasformarle in entità partecipi della contemporaneità[20]: la modalità affinché questo processo venga attuato non può essere univoca perché univoco non è il significato della rovina. 

Tra gli approcci possibili vi è quello che Andres Hild chiama “continuare a scrivere”: quest’idea non si preoccupa se sia necessaria una continuità o il ricorso all’innovazione, bensì «si preoccupa tutta della propria ragione interna e non di una sua classificazione lineare»[21]. Il “continuare a scrivere” considera, appunto, l’architettura come forma di scrittura con proprie regole interne ma aperta a diverse interpretazioni, in cui l’archeologia diviene materia attiva e fondativa: le rovine archeologiche si presentano pertanto come brandelli di testi antichi, parole che necessitano di essere rimesse in circolo, attraverso nuovi linguaggi e nuovi ritmi narrativi che nel tempo si sono trasformati. Come scrive Raffaele Panella, infatti, se non si considerano «i resti (…) come materiale del progetto moderno, per essere più chiari, se essi non sono declinabili nello stesso sistema semiologico dell’architettura, è come se lavorassimo ad una grande tela con dei buchi. Abbiamo fatto un passo avanti notevole nel senso della continuità risolvendo le connessioni, i bordi (su cui in ogni caso c’è ancora tanto da esplorare), ma se dobbiamo entrare (…) in quello che Manacorda chiama “lo spazio archeologico”, con l’obiettivo di comunicare attraverso l’uso e la forma, quale che sia, il senso di quel luogo, non c’è altro modo che considerare i resti, i pezzi (…), come materiali manipolabili dall’architettura, in un rapporto che non può essere altro che di contaminazione. D’altra parte, tutte le grandi opere che testimoniano di una continuità realmente realizzata sono effetto di una contaminazione»[22].

La grande distanza temporale tra il passato delle archeologie e il contemporaneo pone quindi al centro della problematica compositiva proprio la questione del linguaggio e delle differenti interpretazioni dei testi stratificati. La sovrapposizione degli strati architettonici si manifesta tutta nella qualità della relazione - o delle relazioni - tra nuovo ed esistente. 

Una possibile scelta, ricca di inesplorate potenzialità, del progettare in ambito archeologico è proprio quella di accogliere la logica del progetto in sé come un atto linguistico che, a partire dagli oggetti di cui dispone, ossia le rovine - gli stessi oggetti che Claude Lévi-Strauss chiamerebbe les moyens du bord[23] - e dai quali risulterà a sua volta disposto, determina nuove relazioni ordinatrici, nuove forme criticamente modificatrici e portatrici di senso, così come fa il bricoleur.

Interagire con le preesistenze, con le relazioni tra le parti, con i materiali e talvolta con «semplici indizi affioranti dagli interstizi di trame sdrucite»[24], comporta necessariamente la selezione di alcuni elementi disponibili, alcuni segni appunto, per organizzarli secondo criteri e tecniche che determinano gerarchie e sequenze, attraverso un ritmo narrativo. Tali relazioni ridefiniscono i rapporti con le rovine, rivelando le potenzialità e il valore dei luoghi carichi di memorie, piuttosto che stabilire una scontata contrapposizione tra vecchio e nuovo. Tramite i segni dell’antico, tracce significative ricevute in eredità, il progettista identifica le permanenze e gli elementi di lunga durata che determinano il progetto, interpretando il loro passato.

Considerare il progetto come narrazione e come atto linguistico, porta necessariamente ad analizzare quelle che sono le tecniche alla base di tale processo: il controllo compositivo dei nuovi insiemi architettonici comprendenti le preesistenze e costituiti da parti diverse, legate da forti dipendenze formali, funzionali e costruttive, avviene in questa ottica sulla base di tecniche linguistiche, sintattiche e tipologiche[25]. Imitazione, citazione, autonomia, ipotassi, paratassi, analogia, ibridazione e contrapposizione diventano gli strumenti attraverso cui, il progettista può definire un percorso possibile che eviti di trovare meccanicamente nel campo contestuale preesistente i suoi elementi di definizione e allo stesso tempo eviti di rifarsi a modelli astratti e privi di ogni memoria del luogo[26], continuando a scrivere con il passato racconti futuri.

Note


[1] Marzo M. (2010) - “Postfazione”. In: M. Marzo (a cura di), L’architettura come testo e la figura di Colin Rowe. Marsilio Editori, Venezia, 201.

[2] Purini F. (2012) - “Scrivere Architettura”. In: F. Rispoli (a cura di), Dalla forma data alla forma trovata. Luciano Editore, Napoli, 57.

[3] Gregotti V. (1987) - “Della narrazione in architettura”. Casabella, 540, 2-3.

[4] Purini F. (2012) - cit., 58.

[5] Vitale F. (2012) - “Tracciare Disegnare Pensare. Jacques Derrida e la scrittura architettonica”. In: F. Rispoli (a cura di), cit., 77.

[6] Cfr. Derrida J., Eisenman P. (1993) - “A proposito della scrittura. Jacques Derrida e Peter Eisenman”. Any, 0.

[7] Cfr. Rispoli F. (2012) - cit., 80-81.

[8] Cfr. Tschumi B. (1994) - Manhattan Transcripts. Academy Group, London.

[9] Cfr. Cuomo A. (2015) - La fine (senza fine) dell’architettura. Verso un philosophical design. Deleyva Editore, Roma, 64.

[10] Derrida J. (1986) - “Point de folie - maintenant l’architecture”. In: B. Tschumi, La case vide. La villette. Architectural Association, London.

[11] Ivi.

[12] Rispoli F. (1990) - Forma e Ri-forma. Interpretare/ progettare l’architettura.  CUEN, Napoli, 100.

[13] Cao U. (1995) - Elementi di progettazione architettonica. Università Laterza Architettura, RomaBari, 3.

[14] Cfr. Calvino I. (1988) - Lezioni americane. Garzanti, Milano.

[15] Cfr. Libeskind D. (1997) - Radix-Matrix. Prestel, Munchen-New York.

[16] «L’essenza dello spirito storico non consiste nella restituzione del passato, ma nella mediazione, operata dal pensiero, con la vita presente». Gadamer H. G. (1986) -  Verità e metodo. Bompiani, Milano, 207.

[17] Cfr. Gregotti V. (1987) - cit., 3.

[18] Cfr. Rispoli F. (1990) - cit., 48-50.

[19] Torsello B.P. (1997) - “Conservare e comprendere”. In: B. Pedretti (1997) - Il progetto del passato. Memoria, conservazione, restauro, architettura, cit. in V. Bagnato (2013) - Nuovi Interventi sul Patrimonio Archeologico. Un contributo alla definizione di un’etica del paesaggio, Tesi di Dottorato in Proyectos Arquitectonicos, E.T.S.A. di Barcellona (Universidad Politécnica de Cataluña).

[20] Cfr. Izzo F. (2014) - “Sostenere la civiltà. Contemporaneità e topografia del tempo”. In: A. Capuano (a cura di) (2014) - Paesaggi di rovine. Paesaggi rovinati, Quodlibet, Macerata, 276.

[21] Intervista riportata anche in Hild A. (2012) – “Gedacht/ Gebaut. Valutazioni architettoniche”. FAmagazine, 21.

[22] Panella R. (2014) - “Per la continuità”. In: A. Capuano (a cura di), cit., 66.

[23] Cfr. Derrida J. (1971) - “La struttura, il segno e il gioco”. In: J. Derrida, La scrittura e la differenza. Einaudi, Torino.

[24] Rispoli F. (2016) - Forma data forma trovata. Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Salerno, 131.

[25] Cfr. Cao U. (1995) - cit.

[26] Cfr. Rispoli F. (2016) - cit., 134.



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