Ignazio Gardella, altre architetture. Un editoriale in forma di dialogo

Angelo Lorenzi, Carlo Quintelli



«FAMagazine» si è resa disponibile ad ospitare in questo numero lo stato di avanzamento di un lavoro di ricerca, ancora in corso, intitolato Ignazio Gardella, altre architetture.
La ricerca è stata avviata nel 2016 e la sua conclusione è prevista nel 2019. Si svolge nell’ambito di un programma pluriennale del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma di cui è responsabile Carlo Quintelli, che comprende anche altre campagne di indagine sui fondi Vietti, Menghi e Ricci, ed è un’occasione importante per riaprire il dibattito critico sull’opera di alcuni maestri dell’architettura italiana. Ignazio Gardella, altre architetture è un progetto coordinato dallo stesso Quintelli (UNIPR) e da Angelo Lorenzi (POLIMI) e coinvolge un gruppo di giovani ricercatori e dottorandi di ricerca provenienti da vari Atenei, in particolare dall’Università di Parma e dal Politecnico di Milano, legati a differenti ambiti disciplinari (il progetto, la storia dell’architettura, la fotografia). Il lavoro aspira dunque a una dimensione multidisciplinare e considera come un elemento di ricchezza e di apertura il contributo di una generazione di studiosi meno “esperti” ma ancora in formazione che stanno affrontando con passione e coinvolgimento lo straordinario archivio di disegni, fotografie e documenti dello studio Gardella, conservato presso il CSAC. Questi materiali, già catalogati ma in parte ancora da riordinare e studiare, costituiscono infatti l’elemento principale su cui il nostro lavoro si fonda.
Abbiamo individuato per ora alcuni temi principali di indagine in cui articolare la ricerca Ignazio Gardella, altre architetture: lo spazio interno; la costruzione dell’immagine architettonica attraverso la fotografia, le riviste, le pubblicazioni; la didattica del progetto e i rapporti internazionali. Obiettivo principale della ricerca è dunque indagare ambiti apparentemente “minori”, ma in realtà solo meno noti e spesso inediti, del lavoro di Ignazio Gardella, proponendo un punto di vista differente e particolare che vuole essere anche l’occasione per ripensarne nel suo insieme l’opera.
Ignazio Gardella (1905/1999) ha attraversato con il corso della sua vita un secolo di architettura. Molte delle sue opere hanno interpretato così profondamente momenti e temi del dibattito italiano e internazionale da divenire emblematiche, punti di riferimento per nuove ricerche. Anche per questo il lavoro di Gardella è stato al centro di una rete fitta di interpretazioni, una letteratura critica straordinariamente ricca segnata, a partire dagli anni Trenta del Novecento e fino a oggi, da contributi di grande rilievo di storici, studiosi e architetti. Questi differenti sguardi sull’opera di Gardella hanno fissato punti di vista e parole chiave imprescindibili quali il rapporto con le tecniche della composizione, con la storia, i contesti, le città.
C’è un legame sottile ma continuo tra i grandi temi riconosciuti dalla critica del lavoro di Gardella e la sua ricerca sullo spazio interno. Il lavoro negli interni, nel senso ampio e alle diverse scale, percorre tutto l’arco della sua carriera e costituisce un luogo più aperto alla sperimentazione e meno noto della ricerca. In esso le questioni d’architettura affrontate nella città o nel paesaggio riaffiorano, si trasformano o, forse, prendono forma per la prima volta. Sono due le questioni principali intorno a cui sembrano costruirsi i progetti di interni di Gardella, quello dell’abitare e quello dell’esporre, entrambi trovano forma nell’idea del percorso, della messa in scena della vita attraverso gli oggetti, nella riflessione sulla dimensione “teatrale” che appartiene all’architettura. Una ricerca che si intreccia anche con altri ambiti del lavoro di Gardella, anch’essi poco indagati, legati alla fotografia e alle pubblicazioni e in differente modo ai temi affrontati nella didattica e nella costruzione di un sistema di interventi e relazioni tra culture nazionali e internazionali che abbiamo unito nella questione più generale della trasmissione di un’idea di architettura. L’abitare, l’esporre, il trasmettere sono anche le parole chiave sotto cui sono riuniti i contributi dei differenti autori.
Ci sembra opportuno concludere questa breve premessa sottolineando nuovamente come questo numero di FAMagazine dedicato alla ricerca Ignazio Gardella, altre architetture non rappresenti il punto d’arrivo, la conclusione di un lavoro, ma sia invece pensato come una tappa intermedia e aperta, che vuole restituire per temi, per ipotesi di programma, un lavoro che vedrà future occasioni seminariali presso il CSAC. Per questa ragione ci è sembrato opportuno introdurre i differenti contributi non con un editoriale compiuto ma con un dialogo aperto e accompagnare i testi con immagini ancora provvisorie, scattate dagli autori durante le fasi del lavoro di ricerca, che documentano la ricchezza e il fascino dei materiali d’archivio. Il fascicolo è infine concluso da un intervento di Maria Cristina Loi sulla biblioteca di personale di Ignazio Gardella e da un contributo più “esterno” di Jubert Lancha, professore presso la USP di São Paulo, che ha partecipato ad alcuni degli incontri e seminari che hanno segnato l’avanzamento del lavoro e ne riprende da un punto di vista più ampio, legato all’esperienza del Moderno, alcuni temi.

CQ (Carlo Quintelli) - Caro Angelo, innanzitutto sono sempre più convinto del titolo della ricerca e magari di ciò che ne uscirà in termini di trasmissione, mostra, pubblicazioni, seminari … Ignazio Gardella, altre architetture. Dove nella parola “altre” non ci sta solo l’inedito o gli aspetti minori, nascosti o forse non del tutto compresi, magari tralasciati da una critica tutta rivolta ai masterpieces a grande potenzialità teorico esegetica. Ma anche la possibilità di trovare una continuità del suo processo di elaborazione compositiva in quelle parti, in particolare i progetti di interni, espositivi, di design, in un effimero che mi lascia il dubbio di essere sorgente e non riflesso del suo più conclamato operare architettonico.

AL (Angelo Lorenzi) - Caro Carlo, la questione che poni mi sembra suggerire una prima considerazione che potrebbe essere alla base del nostro lavoro. C’è nell’opera di Gardella una sorta di continuità di atteggiamento che lega le architetture “minori”, gli interni, gli allestimenti espositivi, gli oggetti alle opere maggiori, ai masterpieces acclamati dalla critica. Questa osservazione è in parte ovvia, comune a molti maestri della cosiddetta Scuola di Milano e non solo. Nel lavoro di Gardella tuttavia l’unità di atteggiamento alle differenti scale del progetto assume un carattere differente e più problematico, una più profonda intensità. Se penso ad alcune opere di Gardella tra loro pressoché contemporanee, come il progetto di concorso per la torre di piazza Duomo, uno dei suoi primi lavori acclamati dalla critica, e alla riforma della casa studio di piazza Aquileia, uno dei suoi primi progetti di interni, mi sembra di riconoscere non solo un metodo compositivo comune ma anche una sorta di unicità di visione. La nuova architettura, sia essa il muro di una torre o il setto che divide due stanze, si costruisce per superfici continue, algide, “moderne” pensate per fare da sfondo ad altro, a ciò che già c’era, a ciò che preesisteva. Non sono in opposizione ma in relazione con l’esistente, cercano con esso un accordo. Su questo sfondo oggetti noti, familiari, siano essi le architetture che hanno costruito il centro antico di una città o gli oggetti che in ogni interno, in ogni casa, la vita ha accumulato, trovano una nuova, sorprendente esistenza. Alla ricerca di urbanità e continuità con le forme della città corrisponde un’idea dell’abitare che si riconosce nell’appartenere a una storia.

CQ - Si certo, si tratta di appartenere ad una storia e soprattutto ad una città. Mi ha sempre sorpreso la capacità di Gardella di essere Gardella in ogni sua architettura che al tempo stesso però parla della città di cui modifica un luogo, una parte, una preesistenza attraverso un linguaggio che, passami il termine, definirei confidenziale. Ai tempi del mio dottorato veneziano, ti parlo del 1985, non era ancora del tutto spenta l’eco del dibattito sulla casa alle Zattere, almeno al tavolo delle riunioni con Francesco Tentori, e ai dubbi di una declinazione di linguaggio troppo propensa al mimetismo propendevo istintivamente per quella consapevolezza gardelliana di essere, come si è, in scena sul canale della Giudecca, all’interno di un paesaggio già descritto, di un quadro già composto pur aperto per propria natura alla variazione tematica. Dove l’architetto, con grande equilibrio e dosaggio compositivo, opera una attenta interpretazione stemperata dall’approccio, appunto confidenziale, di chi conosce a fondo e sicuramente, direi, anche ama quella città. Una strategia anti-retorica sia nei confronti del banale mimetismo che del modernismo più ortodosso per altro, forse non a caso, mai sbarcato in laguna.

AL - Credo anch’io che la ricerca di una strada differente tra “mimetismo e modernismo” sia stata centrale per Gardella e credo sia uno degli elementi più vivi della sua eredità. Ho sempre trovato bello a questo riguardo quanto scritto da Argan sulla questione dell’ambientamento nella sua opera. Ambientare, dice Argan, significa rendere familiare, far diventare ciò che si aggiunge, come tu dici, parte del quadro. Poi poche pagine dopo aggiunge un altro elemento apparentemente in contrasto: lo sgarro, la capacità di portare la composizione oltre l’atteso e il prevedibile, introducendo qualcosa di imprevisto e di estraneo, di straniarla.
Aggiungo anch’io un ricordo personale, di molti anni fa, che mi sembra legato alla confidenzialità di cui parli e che ci riporta in un interno. Come sai nell’ultimo periodo lo studio di Gardella si trovava all’ultimo piano della casa di via Marchiondi dove per alcuni anni sono stato “ragazzo di studio”. Per entrare nella casa di via Marchiondi si può salire una breve scalinata che corrisponde alla porta principale dell’atrio, ma è un po’ discosta, o invece percorrere una rampa, appoggiata al fronte della casa che è direttamente in linea con il cancello del vialetto di ingresso. Mi è successo molte volte, in quel periodo, di vedere Gardella arrivare in studio e credo di non averlo mai visto prendere la scala ma sempre la rampa. Forse era una questione legata all’età ma ho sempre pensato fosse anche una scelta differente, legata al percorso. Trovare ad ogni passaggio non la strada più convenzionale e prevedibile ma quella che non interrompe la linea del percorso (o del discorso), che lo rende naturale, fluido e, in qualche modo, anche sorprendente.
Mi sembra sia stata questa una delle forme attraverso cui Gardella ha cercato l’eleganza o la bellezza.

CQ - Mi sembra che tu stia ritornando al titolo “altre architetture” per come Gardella spiazzi sempre le attese del linguaggio codificato attraverso uno scarto compositivo che poi diventa anche semantico. Da questo punto di vista non posso rinunciare all’ipotesi di una teatralità gardelliana dove si cerca di raccontare ma al tempo stesso di sorprendere rimanendo però dentro i limiti di una coerenza narrativa, il contrario di quella spettacolarizzazione dell’enfasi formale, o meglio dell’immagine, che spesso oggi ci circonda. Per certi versi, volendo cercare un corrispettivo negli strumenti di formazione del gusto, rivedo il garbo inventivo della scena televisiva degli anni Sessanta rispetto a quello della fine degli anni Ottanta. Non a caso credo che il Gardella come architetto di successo finisca proprio in quegli ultimi anni e, aldilà della celebrazione strumentale che ne ha fatto il Post-moderno italiano, non poteva in realtà più essere compreso a fondo. Penso alla stazione di Lambrate o al progetto per Piazza Duomo.

AL - Nelle nostre discussioni e anche nella struttura di questo numero di FAMagazine abbiamo spesso richiamato alcuni temi guida che ci sembrano importanti nel lavoro di Gardella: l’abitare, l’esporre, il trasmettere. Tutti e tre mi paiono, in differenti modi, legati all’idea di teatralità, di scena o di “mise en scene”. In molti suoi progetti Gardella sembra cercare di mettere in scena, attraverso l’architettura, la vita di chi abita una casa, gli oggetti d’arte di una collezione, gli oggetti di uso comune di uno spazio commerciale o anche gli elementi di un sistema di relazioni urbane. Molti esempi potrebbero valere a questo riguardo ma l’allestimento della Mostra della sedia italiana nei secoli alla Triennale mi sembra il più emblematico e, come dici, spiazzante: una scena/percorso su più livelli in cui le sedie diventano gli attori e insieme anche chi visita l’esposizione, percorrendola, entra a sua volta in scena. Vorrei effettivamente ritornare alle “altre architetture” e in particolare ad una questione che tu ponevi all’inizio, che mi sembra decisiva e delicata. Quanto le “altre architetture” possano aver rappresentato un terreno non minore di sperimentazione nella ricerca di Gardella. Un terreno in cui le questioni affrontate alla scala della città o del paesaggio riaffiorano o, forse, prendono forma per la prima volta, sorgente e non riflesso, come tu dicevi. Forse proprio la questione della teatralità è legata a questi aspetti.

CQ - Io credo che incidano sull’opera effimera di Gardella anche certe suggestioni dadaiste e surrealiste pur molto controllate, se penso ad esempio agli allestimenti per Borsalino dove il progetto si risolve nel galleggiamento dei cappelli danzanti nell’aria. Per certi aspetti forse questo è sintomatico anche del limite alla produzione di oggetti di design da parte di Gardella, almeno rispetto ad altri architetti della fase storica del secondo Novecento, voglio dire che mi sembra più interessato alle forme dell’ambiente in cui gli oggetti assumono un ruolo, e un senso, piuttosto che agli oggetti in sé e al narcisismo che a volte li contraddistingue anche se espressione dei migliori designers. Comunque è indubbio che sui sentieri interrotti delle “altre architetture”, quelli che stiamo ancora percorrendo nello svolgimento di questo lavoro con il contributo dei giovani ricercatori impegnati nell’archivio del CSAC dell’Università di Parma e qui gentilmente ospitati da «FAMagazine» nella forma del work in progress, si possano trovare nuove ragioni di comprensione dell’opera gardelliana e auspicherei anche molto attuali per come possano essere utili ad orientare un dibattito autentico, non sempre praticato, sul progetto d’architettura nella sua specificità concettuale oltre che tecnica.

AL - Il rapporto con altre discipline e mondi figurativi mi sembra molto importante ed è un altro tema che la nostra ricerca deve affrontare, anche attraverso la relazione con la fotografia e con la trasmissione, il racconto, l’insegnamento. Forse potremmo concludere su questo tema della relazione tra oggetto e ambiente, tra figura e sfondo, che mi sembra avere un ruolo centrale nel lavoro di Gardella, una complessità di relazioni che si ritrova nei progetti urbani ma entra ugualmente nelle altre scale del lavoro. Anche a me sembra che gli oggetti progettati da Gardella non si risolvano in sé stessi, in un’invenzione tecnica o formale, ma rimandino a altri oggetti, altri ambienti, altre figure e questa condizione aperta, sperimentale, di relazioni sia uno degli elementi di maggiore attualità della sua ricerca.

I testi che seguono come già ricordato intendono restituire un work in progress e non un lavoro compiuto. Per questa ragione ci è sembrato opportuno accompagnarli con immagini ancora provvisorie, scattate dagli autori durante le fasi del lavoro di ricerca, e di limitare le note bibliografiche a pochi riferimenti essenziali legati a ciascun testo senza appesantire il fascicolo con una bibliografia estesa su Ignazio Gardella e la sua opera che è già rintracciabile in molti testi a carattere generale.

Ringraziamenti
I curatori e il gruppo di ricerca ringraziano in modo particolare per la disponibilità nell’accompagnare questo progetto Jacopo Gardella, Edoarda De Ponti e Elisa Albera dello Studio Gardella. Inoltre si ringraziano per la disponibilità, Simona Riva e Paolo Barbaro.
Le immagini che accompagnano questa pubblicazione, qualora non diversamente indicate, sono state rese disponibili da:
Archivio Storico Gardella, Milano
Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma