L'immagine della città e la retorica dell'ossimoro. Le Corbusier e l'attico di Charles de Beistegui.

Alioscia Mozzato




Nel 1932 la rivista Architecte pubblica l'articolo di Le Corbusier Appartement avec terrasse, avenue des Champs-Elysées, à Paris (1932)[1] (Le Corbusier 1932) che descrive il progetto dell'appartamento realizzato al sesto e ultimo piano dell'hotêl particulier in avenue des Champs-Elysées a Parigi tra il 1929 e il 1932 per l'eccentrico conte Charles de Bestegui[2].

È il periodo degli années folles nella capitale francese e al fianco di una operante borghesia che ha ormai acquisito un ruolo centrale nel sistema economico e produttivo della nuova civiltà industrializzata, un'aristocrazia in decadenza cerca un proprio ruolo e una propria legittimazione sociale attraverso feste in maschera e eventi mondani prontamente registrate e divulgate nelle colonne della rivista new-yorkese Vogue[3].

Charles de Beistegui nasce a Parigi nel 1895 da una ricca famiglia di origini messicane[4]. Eccentrico multimiliardario e arredatore di professione - dichiaratosi surrealista[5] dal stravagante quanto eccessivo eclettismo neoclassicista - Charles ereditata una consistente somma dopo la morte del padre nel 1925 e si immerge completamente negli eventi mondani della haute bohème parigina.

Nel 1929 chiede agli architetti Gabriel Guevrekian, André Lurçart e Le Corbuser con Pierre Jeanneret[6] una proposta per un attico all'ultimo piano dell'hotêl particulier  di famiglia al numero 136 di avenue des Champs-Elysées. Lo scopo è quello di poter disporre di un appartamento che, secondo quanto racconta lo stesso Beistegui, «non è destinato a essere abitato, ma a servire da cornice per delle grandi feste[7]». Un decor de fête quindi, una machine à amuser[8] dove ospitare gli eventi e le serate della Café Society di quegli anni a Parigi e poter così legittimare e istituzionalizzare la propria posizione sociale al fianco di famiglie e figure dalla reputazione ormai consolidata come i Noailles, Faucigny-Lucinge, Pecci-Blunt e Beaumont.

La descrizione dell'appartamento, pubblicata dalla rivista Architecte (Le Corbusier 1932) esplicita, attraverso la costruzione del testo, il tema narrativo che si declina nell'opera.

«Un atto di devozione nei riguardi di Parigi» (Le Corbusier 1932, p. 100) scrive Le Corbusier, una promenade architectural che «costituisce un paesaggio architettonico, tanto interno quanto esterno, creato apposta su differenti piani stabiliti a quattro livelli successivi» (Le Corbusier 1932, p. 100). Specifiche prospectives émouvantes (Le Corbusier 1932, p. 100), viste precise su architettura e fatti urbani inquadrano i «luoghi sacri di Parigi» (Reichlin 2013, p. 295): «L'Arc de Triomphe, la Tour Eiffel, il Sacré-Coeur e infine la massa verde che si estende dagli Champs-Elysées passando per le Tuileries fino a Notre-Dame» (Le Corbusier 1932, p. 100).

La prima terrazza «è uno spazio verde e di lastre di pietra, chiuso da pareti di bosso e di tasso [...] una pressione su un bottone elettrico e la palizzata di verde si eclissa lentamente» (Le Corbusier 1932, p. 100). Anche la seconda eplanade è circoscritta da muri verdi di siepe, mentre nell'ultima terrazza, sulla sommità dell'immobile, pareti alte e bianche precisano i limiti di un pavimento in erba e racchiudono una porzione di cielo che diventa il soffitto di una vera e propria stanza a cielo aperto.

Elementi che appartengono al convenzionale vocabolario di uno spazio esterno assumono la forma di quelli riconducibili ad uno spazio interno precisando una forte ambiguità sul piano del carattere tra esterno e interno. Intenzione resa ancora più esplicita nell'ultima terrazza dalla presenza di un caminetto che, scive Le Corbusier, «serve a fare il fuoco durante le serate fresche» e, precisa a seguire, «il padrone del luogo, seguendo l'impronta evidente di una mode ravissante, ha aggiunto da sé un riquadro di camino spagnolo in stile Luigi XV» (Le Corbusier 1932, p. 101).

«L'esterno è sempre un interno» (Le Corbusier 1923, p. 154) si legge in Vers une architecture (1923) e nei disegni realizzati durante la conferenza Architettura in tutto, urbanistica in tutto (Le Corbusier 1930) di Buenos Aires nel 1929. Anche se qui siamo di fronte a riflessioni che riguardano il rapporto di «rivalità immanente» (Le Corbusier 1930, p. 78) tra architettura e paesaggio, che si traduce in una positiva conflittualità tra cultura e natura solo per coloro i quali, scrive Le Corbusier, «sono in grado di vederla e di estrarne un fecondo beneficio» (Le Corbusier 1930, p. 78), l'ambiguità sintattica e semantica tra la forma dello spazio esterno e interno non è una questione del tutto estranea alla ricerca architettonica di Le Corbusier. Si pensi, solo per citare alcuni esempi tra i più noti, al muro con bucatura quadrata verso il lago nel giardino della Petit maison (1923-24) a Vevey, allo stesso muro con la stessa bucatura utilizzato però sul tetto della Villa Stein a Garches (1926), al solarium nella parte praticabile della copertura di Villa Savoye  (1928-31) e al magistrale sdoppiamento dello spazio liturgico all'esterno verso lo scoperto a verde a Ronchamp (1955).

Scrive Le Corbusier:

«Ci spieghiamo: da questo belvedere Parigi è visibile in tutti i suoi orizzonti; lo sono infatti allo stesso modo i luoghi mirabili come il triste deserto dei tetti e dei camini. La decisione è stata quella di sopprimere questa vista panoramica di Parigi e di creare un centro architettonico di pietre, di giardini e di cielo completamente isolato dal tumulto del sito panoramico» (Le Corbusier 1932, p. 100).

Se la selezione di specifiche preesistenze storiche della città di Parigi è un'operazione che Le Corbusier aveva già fatto sulla carta alle conferenze di Buenos Aires (1929) e nel collage dal titolo l'Esprit de Paris esposto al Pavillon des Temps Modernes (1937), nell'appartamento di Beistegui i «luoghi sacri» della città sono riquadrati e isolati attraverso la forma dello spazio architettonico, così che l'intenzionalità semantica connessa al significato dell'Esprit de Paris viene a esprimersi mediante l'utilizzo di specifici dispositivi sintattici interni alla sequenza narrativa della promenade architectural.

Isolando e decontestualizzando i monumenti dal quotidiano - rappresentato dal triste deserto dei tetti e dei camini della città di Parigi - le preesistenze storiche esprimono un proprio valore di permanenza e immutabilità che le traspone all'interno di una dimensione sincronica del tempo storico. La storia, percepita come un pericolo rispetto all'inesorabile e inarrestabile volontà di cambiamento e progresso implicita nella modernità, può essere così salvata dalla distruzione attraverso un'operazione di isolamento e sospensione che produce un'inesorabile quanto necessaria interruzione della sua continuità. La tabula rasa è l'unica operazione storicamente possibile perché se da un lato consente una necessaria rigenerazione sociale di carattere escatologico[9] dall'altro concede alla preesistenza storica una chance di salvezza quando questa si trasforma in testimonianza di un passato che non esiste più. Il confronto dialettico diventa così l'unico rapporto possibile tra memoria storica e Modernità.

Scrive Le Corbusier:

«Il passato storico, patrimonio universale, viene rispettato. Dirò di più, viene salvato. Un protrarsi dell'attuale stato di crisi condurrebbe a una rapida soppressione di questo passato.

[...] Il Plan Voisin, occupa con gli edifici solo il 5% della superficie del suolo, salvaguarda i resti del passato e li colloca in un quadro armonioso: in mezzo al verde. Ma sì, le cose così muoiono un giorno, e questi parchi alla Monceau sono tanti cimiteri tenuti con estrema cura. Qui si viene a erudirsi, a sognare e a respirare: il passato non è più qualche cosa che minaccia la vita, ha trovato la sua sistemazione» (Le Corbusier 1924, pp. 277-278).

Tafuri, riferendosi in particolare a questi passaggi, evidenzia come «l'antistoricismo del movimento moderno sia profondamente radicato nella storia» (Tafuri 1986, p. 89), perché, sostiene, «da un lato dissolve la funzione tradizionale di continuità degli eventi storici», in favore di un rapporto dialettico, «dall'altro recupera i valori della memoria su basi radicalmente nuove» (Tafuri 1986, p. 93).

Claude Lévi-Strauss afferma che «il pensiero mitico sta nell'esprimersi attraverso un repertorio dalla composizione eteroclita il quale per quanto esteso resta tutta via limitato» (Lévi-Strauss 2015, p. 31). Nella promenade dei giardini esterni dell'appartamento di Beistegui le preesistenze storiche assumono il valore narrativo di «unità costitutive del mito le cui possibilità di combinazione sono ricavate da una lingua dove possiedono di già un senso» (Lévi-Strauss 2015, p. 33): la lingua del mito[10]. Per Lévi-Strauss la «riflessione mitica appare come una forma di bricolage intellettuale» (Lévi-Strauss 2015, p. 35) che «utilizza residui e frammenti di eventi (Lévi-Strauss 2015, p. 35) eterocliti solo quanto al contenuto giacché, quanto alla forma, esiste tra loro un'analogia, questa analogia consiste nell'incorporamento, alla loro forma stessa, di una certa quantità di contenuto per tutti approssimativamente uguale» (Lévi-Strauss 2015, p. 47).

Inquadrare, selezionare, sospendere e trasporre la storia all'interno di un contesto altro rispetto a quello delle sue origini è un'operazione che costruisce un'immagine della città, non come fatto oggettuale, ma come puro concetto. Il suo significato: l'Esprit de Paris è un'idea i cui contenuti sono trasmessi attraverso un linguaggio che è proprio della «riflessione mitica», una forma espressiva che, sostiene Lévi-Strauss, «si situa sempre a metà strada tra precetti e concetti» (2015, p. 47).

La sequenza narrativa dei giardini esterni che genera il processo di concettualizzazione metastorica e mitologica della città è interrotta quando la realtà contingente dell'urbano è percepita attraverso una sequenza di immagini, catturate da un periscopio, proiettate sul tavolo di una camera obscura e osservate nella totale oscurità e completo isolamento di un piccolo padiglione collocato nella penultima delle quattro terrazze esterne[11]. I «luoghi sacri» di Parigi trasformati attraverso lo spazio architettonico in entità sovrastoriche, espressioni di puri concetti universali, sono ricondotti, mediante la consistenza dell'immagine, alla dimensione immanente della loro esistenza.

Quando a Buenos Aires Le Corbusier formula i seguenti quesiti: «Che cosa è Parigi? In cosa consiste la sua bellezza? Qual è lo Spirito di Parigi?», (Le Corbusier 1930, p. 174) nell'interrogandosi contemporaneamente su questioni relative al contenuto e alla forma, sembra suggerire che per formulare una risposta sia  necessaria una coincidenza tra le proprietà immanenti delle cose e le idee o principi che le cose trascendono, in altre parole una sintesi tra ciò che «l'oggetto è in assoluto e la sua apparenza rilevata dalla prospettiva particolare in cui si presenta» (Lévi-Strauss 2015, p. 39).

Scrive Baudelaire:

«Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile la cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo, occasionale, che sarà se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente, l'epoca la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento il primo elemento sarebbe indigeribile» (Baudelaire 1992-2004, p. 278).

Quando lo Spirito di Parigi coincide con il Bello di Parigi il suo significato può essere espresso solo attraverso una convergenza di termini antitetici: universale e individuale, relativo e assoluto, immagine e idea, realtà e mito. Nell'appartamento di Beistegui, per giungere a questa «compresenza dei contrari» (Eco 1997, p. 20) l'immagine della città è costruita attraverso una narrazione che si avvale della retorica dell'ossimoro in grado cioè di sovrapporre i contenuti di una dimensione metafisica e trascendente della città con le proprietà della sua realtà empirica e immanente.

Il codice linguistico in virtù, di alcuni limiti formali, deve contraddire se stesso per esprimere idee e pensieri più profondi. L'ossimoro, usato dai mistici e poeti per oltrepassare i confini del logicamente rappresentabile - in questo senso gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti di un sole nero (Jorge Luis Borges) - consente di delineare e comunicare i contenuti di un'immagine della città inesprimibili attraverso il linguaggio della logica perché la loro consistenza è quella delle idee e dei concetti.

Nell'appartamento in avenue des Champs-Elysées l'ossimoro sembra rappresentare per Le Corbuiser quello strumento che, come sostiene Jean Cocteau, è utilizzato dagli artisti che «provano la tristezza dolce di quelli che sanno che l'alfabeto umano offre un numero ridotto di combinazioni» (Cocteau 1920-25, p. 325).

La letteratura scientifica ha cercato di avvicinare l'appartamento di Beistegui - e alcuni momenti della ricerca plastica di Le Corbusier - al pensiero e alle investigazioni del Surrealismo[12] anche se, per quanto sia indubbio un certo interesse per quel tipo di riflessioni[13], la posizione di Le Corbusier è molto chiara se ci si riferisce a quanto scrive nel suo saggio L'espace indicible (1936):

«Io sono cubista e non sono surrealista, volendo opporre il sentimento della costruzione, il guardare in avanti, a una considerazione dei morti, del morente, del ricordo» (Le Corbusier 1936, p.14).

Rispetto a questo tipo di argomentazioni ci sembra più interessante rivolgere la nostra attenzione ad alcuni appunti che Le Corbusier annota a margine del libro La part maudite (Bataille 2015) scritto dal filosofo francese George Bataille nel 1949[14].

Il libro e il saggio La nozione di dépense (Bataille 2015), pubblicato qualche anno prima in La Critique sociale, illustrano i principi di una economia generale che scardina le convenzioni economiche di matrice capitalistiche relative all'esclusiva produzione e accumulazione di beni e, proponendo un sistema che afferma la centralità del «consumo senza profitto», rivaluta il significato di alcune pratiche commerciali delle tribù indiane del Nord America - precedentemente descritte da Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le don, form et raison de l'échange dans les sociétés archaïques (Mauss 1923-24) - connesse all'istituzione del potlàc, cioè allo scambio tramite il dono.

Alla base di quella che potrebbe essere definita la dimensione escatologica degli eterodossi principi economici formulati da Bataille vi è la volontà di emancipare l'esistenza dell'uomo dalla povertà dell'utile attraverso la pratica del dono che, assumendo lo stesso ruolo e valore del sacrificio, diventa lo strumento attraverso cui, scrive Bataille, «restituire al mondo sacro ciò che l'uso servile ha degradato e reso profano». (Bataille 2015, p. 104).

Sacrificare, dal latino sacrificare si compone di sacrum «rito sacro» e ficare, dal tema di facĕre «fare», cioè rendere sacro. Nel donare senza alcuna contropartita l'uomo scardina quel rapporto di servilismo che l'approccio utilitaristico genera tra la realtà delle cose e la sua attività nel mondo così da potersi ricongiungere con la dimensione divina dell'esistenza. Attraverso il dono, scrive Bataille, «Le cose donate sono restituite alla verità del mondo intimo e l'uomo ne riceve una comunicazione sacra che a sua volta lo restituisce alla libertà interiore» (Bataille 2015, p. 106).

Alla pagine 92 del libro La part maudite (Bataille 2015), nel capitolo Teoria del potlàc, il paradosso del “dono” ridotto all'“acquisizione” di un “potere”, Le Corbuiser annota:

«I 5 volumi dell'opera completa Corbu offrono, propongono e impongono attraverso un'entusiastica adesione le idee di Corbu. Da un lato Corbu è processato dai mascalzoni, dall'altro è il re. La pratica disinteressata della pittura è un instancabile sacrificio, un dono di tempo, di pazienza, di amore, senza alcuna contropartita in denaro (a esclusione dei moderni commercianti). È un seminare al vento per gli sconosciuti, un giorno prima o dopo la morte, ci ringrazieranno. È troppo tardi per le tante difficoltà vissute. Ma cosa importa; quello che importa è la chiave della felicità» (Duboy 1987, p. 67).

Più avanti nel capitolo Il sacrificio o la consumazione Le Corbusier sottolinea il seguente passaggio:

«Questa consumazione inutile è ciò che mi piace, appena tolta la preoccupazione del domani. E se consumo così, senza misura, rivelo ai miei simili ciò che sono intimamente: la consumazione è la via tramite la quale comunicano esseri separati. Tutto traspare tutto e aperto e tutto è infinito [il corsivo è nostro] per coloro che consumano intensamente. Ma da quel momento non c'è più nulla che conti, la violenza si libera e si scatena senza limiti, nella misura in cui il calore aumenta» (Bataille 2015, pp. 106-107).

A margine Le Corbusier annota la parola «fusion».

Il termine fusion rimanda inequivocabilmente alla “fusione alchemica” descritta nella litografia del quarto capitolo del Poème de l'angle droit (1955) e, più in generale, a tutta una serie di studi che hanno avvicinato la poetica dell'ultimo Le Corbusier alla dimensione simbolica del sacro[15].

Concetto ermetico dalla non facile interpretazione[16], la “fusione alchemica” indica letteralmente l'unione e la conciliazione degli opposti, acqua-luna e fuoco-sole, animus maschile e anima femminile, la verticale e l'orizzontale dell'angolo retto. Rappresenta inoltre uno stadio del processo di purificazione (martirio) compiuto dall'alchimista sui metalli vili, per liberare l'elemento puro, diventando così metafora della liberazione spirituale della coscienza, un momento cruciale, dopo il quale può dispiegarsi, per i solitari che se ne assumeranno il rischio, la vera conoscenza di se stessi (Scavuzzo 2006) e di quei luoghi della propria interiorità dove per gli alchimisti risiede il divino.

Incrociando quanto scrive Bataille sulla virtù esemplare del potlàc come «possibilità per l'uomo di cogliere ciò che gli sfugge, di unire i movimenti senza limite dell'universo con il limite che gli è proprio» (Bataille 2015, p. 116) e il concetto di espace indicible (1936) - «la quarta dimensione [...] il momento di evasione illimitata provocata da una consonanza eccezionalmente giusta dei mezzi plastici» (Le Corbusier 1936, p. 10), «di natura incontestabile, ma indefinibile» (Le Corbusier 1936, p. 17) - ci sembra di intravedere il senso di una possibile dimensione eroica del dono, dove la “fusione alchemica” diventa “fusione con il sacro” attraverso un atto creativo che, esplicitandosi come un sacrificio donato all'umanità, rende sacro ciò che è materia grezza consentendo l'esperienza e la conoscenza del divino e dell'ineffabile[17].

Profondamente diverso dal flâneur di Baudelaire[18], che si aggira per la città contemplandone la modernità e dal «pittore-mago» di Benjamin (2013) che, ancora ancorato ai principi della mimesis, conserva una naturale distanza nei confronti della moderna seconda natura, Tafuri (1986) inscrive la figura di Le Corbusier nella categoria dell'«operatore-chirurgo» (Benjamin 2013) che, introducendosi costruttivamente nella realtà, opera attivamente nella società con l'obiettivo di rispondere a necessità poetiche attraverso principi estetici che conducono da un lato all'identificazione assoluta tra lavoro industriale e lavoro artistico (Tafuri 1986, p. 60), dall'altro a un incondizionato asservimento dell'Arte all'azione costruttiva del mondo (Tafuri 1986, p. 64).

La dichiarazione di Le Corbusier: «le tecniche sono il fondamento stesso del lirismo» (Le Corbusier 1930, p. 37) esprime la volontà di conferire un carattere spirituale e poetico a funzioni e tecniche per loro natura alquanto empiriche, delineando induttivamente una necessità di coincidenza tra le istanze del materiale e quelle dello spirituale che renda possibile nell'opera d'arte la convergenza dell'utile e del poetico.

Il carattere eroico della vita nella modernità raccontato da Walter Benjamin[19] – e riproposto da Philip Duboy (1987) – se avvicinato alle riflessioni di Bataille rimanda a un'ulteriore possibile interpretazione critica del ruolo dell'artista nella società. Il sacrificio che l'artista compie nel donarsi e nel donare incondizionatamente la sua azione al mondo diventa lo strumento attraverso cui la comprensione dell'indicibile è resa possibile. Una ricerca quindi di quei mezzi espressivi che, attraverso una mediazione tra le istanze del reale e dell'ideale, siano in grado di caricarsi di una differente energia di senso e, superando i confini della logica, descrivano ciò per il quale una parola non è mai stata creata.

Alcuni esponenti dell'intelligencija russa, riproponendo certe posizioni teoriche dell'idealismo tedesco – e di Schelling in particolare – conferivano all'arte la capacità di comprendere e descrivere la verità o anima del mondo[20] e all'artista il dovere di perseguire questa ricerca e la sua divulgazione. L'idea di verità e la bellezza delle cose - termini che per i romantici della Russia di fine '800 coincidevano - non si danno immediatamente, non sono l'evidenza stessa, esse sono invece il prodotto di un lavoro mentale che smaschera le cose dalle apparenze costruite attorno ad esse dalle tradizioni, dai luoghi comuni, da ideologie ingannevoli e mistificanti e che le interpreta (Reichelin 2013, p. 296).

Inquadrare sapientemente un ammasso di reperti che devono essere selezionati, resi intelligibili e ordinati in quella che Reichlin (2013) descrive come la «Parigi analoga» di Le Corbusier è un'operazione che precisa un'immagine della città come sintesi tra le istanze universali dell'idea e del mito e quelle relative del fenomeno e della realtà. Conservando così la consistenza del costrutto mentale, l'immagine della città si colloca tra la sua idea e la sua forma disvelandone ontologicamente l'essenza, la Bellezza e lo Spirito. Significati che, rimandando a una realtà al di là del fenomeno di cui però si serve come supporto per garantire la sua esistenza, possono esprimersi solo attraverso una convergenza concettuale di termini contrari propria della retorica dell'ossimoro.

Dall'analisi della struttura narrativa dell'appartamento di Charles de Beistegui e degli appunti di Le Corbuier sul pensiero di Georges Bataille emergono questioni che inducono a più ampie considerazioni sulla sempre attuale questione dello statuto epistemologico dell'Arte e del ruolo dell'Artista nella società. Da un lato l'Artista che, attraverso l'atto creativo e espressivo supera i limiti di una riflessione esclusiva sull'utile e, inoltrandosi coraggiosamente nei meandri dell'ineffabile e del sacro, diventa un eroe tragico la cui vita è spesa come un sacrificio donato all'umanità; dall'altra un'Arte concepita come strumento di conoscenza in grado d'indagare e descrivere concetti, pensieri e idee quando, varcati i limiti del razionale, il linguaggio esige che al significato si sostituisca il senso.

  

Note



[1] Una traduzione in italiano del testo scritto da Le Corbusier si trova nel saggio di Paolo Melis, Il ‘cadavere squisito’ di Le Corbusier: Pierre Jeanneret e Charles Bestegui (Melis 1977).

[2] Una bibliografia sull'argomento si compone dei saggi di Alexander Watt, Fantasy on the Roofs of Paris (Watt 1936); Ross Anderson, All of Paris, Darkly: Le Corbusier's Beistegui Apartment (Anderson 2015); Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015); Beatriz Colomina, The Split Wall: Domestic Voyeurism (Colomina 1988); Juan José Lahuerta, ‘Surrealist poetics’ in the work of Le Corbusier? (Lahuerta 2007); Jean Lucan, Corbusier: une encyclopédie (Lucan 1987); Le Corbusier, Appartement avec terrasse, avenue des Champs-Elysées, à Paris (1932) (Le Corbusier 1932); Le Corbusier, Oeuvre complète 1929-1934 (Le Corbusier 1947); Sylvain Malfroy, Der Aussenraum ist immer ein Innenraum (Malfroy 1994); Paolo Melis, Il ‘cadavere squisito’ di Le Corbusier: Pierre Jeanneret e Charles Bestegui (Melis 1977); Bruno Reichlin, La “Parigi Analoga” di Le Corbusier. L'Attico per Charles de Bestegui, 1929-1932» (Reichlin 2013); Pierre Saddy, Le Corbusier Chez Les Riches, L’appartement De Beistegui (Saddy 1979); Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980);Laurent Salomon e Jean-Pierre Ammeler, Appartament Charles de Beistegui 1929-1931. 136, avenue des Champs-Elysées, Paris (Salomon e Ammeler 1979)  Manfredo Tafuri, Machine et mémoire. la città nell'opera di Le Corbusier (Tafuri 1984); Anthony Vilder, Paris: Beistegui Apartment, Or Horizons Deferred (Vilder 2013).

[3] Per un approfondimento su questo particolare tipo di contesto sociale della Parigi anni '20 si vedano i saggi di Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980) e di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).

[4] Un resoconto biografico della figura di Charles de Beisegui è contenuto nel saggio di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015)

[5] A proposito dell'arredamento dell'appartamento in avenue des Champs-Elysées Charles de Beistegui dichiara: «La mia opera è surrealista. Su questo falso camino un orologio a pendolo e dei piccoli candelieri. Questo specchio riflette il sole ... Gli oggetti che si ha l'abitudine di vedere sotto una certa luce, danno in una nuova luce degli effetti nuovi». La citazione si trova nel saggio di Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980, p. 27) al quale rimandiamo per una sintetica quanto eloquente descrizione di alcune sue opere.

[6] Per la descrizione dei tre progetti si veda il saggio di  Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).

[7] Estratto di un'intervista rilasciata da Charles Beistegui a Roger Baschet nel 1936, riportata nel saggio di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).

[8] Felice parallelismo con «machine à habiter» proposto da Win van den Berg nel suo saggio Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).

[9] Mi rifersico in particolare alla riflessioni descritte nel testo di  Colin Rowe, L'architettura delle buone intenzioni (Rowe 2005, p. 84)

[10] Rispetto alle argomentazioni trattate in questo saggio riteniamo che la definizione di mito più appropriata sia quella formulata da Gillo Dorfles che recita: «[...] tali forme espressive traggono la loro origine da una realizzazione analogica e traslata degli eventi, di immagini, di situazioni, di cui sono talvolta una registrazione inconscia e talaltra la trascrizione metaforica, ma sempre immersa entro un alone di indeterminatezza razionale che è per l'appunto ciò che permette di differenziarle dalle forme perfettamente razionalizzate e concettualizzate, quali sono quelle trasmissibili attraverso le normali espressioni linguistiche (della parola o della figurazione). (Dolfers 1965 , p. 51) .

[11] Nel suo saggio Ross Anderson (2015) avvicina la camera oscura con periscopio ad alcune riflessioni sul concetto di Unheimliche formulate da Sigmund Freud in Das Unheimliche (Freud 1955, pp. 217-56). In Italiano il termine tedesco Unheimliche si traduce in uno spaesamento precisato dall'incontro dei due termini ossimorici: spaventoso e familiare. Anderson delinea un'affinità tra il carattere di forte ambiguità intrinseco al significato stesso di Unheimliche e lo spazio della camera oscura. Scrive Freud: «Unheimliche [...] da un lato denota ciò che è familiare e congeniale dall'altro ciò che è celato e tenuto nascosto [...] quindi Unheimliche è una parola il cui significato si sviluppa nella direzione di dell'ambivalenza, fino a coincidere con il suo opposto unheimlich. (Freud 1955, p. 222-223).  

[12] Mi riferiscono in particolare all'articolo di Alexander Gorlin, The Gost in the Machine: Surrealism in the Work of Le Corbusier (Gorlin 1982) e ad alcuni passaggi del saggio di  Danièle Pauly, Il segreto della forma (Pauly 1987). Per ulteriori lavori critici sull'argomento si rimanda alla bibliografia contenuta nel libro di Stanislaus von Moss, Le Corbusier une synthèse (Moss von 2013). Una confutazione delle posizioni che avanzano ipotesi di similitudine tra la poetica di Le Corbusier e quella del Surrealismo in relazione al rapporto tra architettura e città è contenuta nel saggio di Juan José Lahuerta, ‘Surrealist poetics’ in the work of Le Corbusier? (Lahuerta j. j. 2007). 

[13] Si vedano i testi di Andrè Breton presenti nella biblioteca personale di Le Corbusier (Collegi d'Arquitectes de Catalunya 2005).

[14] Queste annotazioni sono state pubblicate per la prima volta nel contributo di Philippe Duboy (1987) all'Encyclopédie di Jaques Lucan (1987): Bataille (Georges): Le Corbusier, héros moderne. Sul rapporto tra il pensiero di Bataille e Le Corbusier si veda il saggio di Nadir Lahiji, «... The gift of time» Le Corbusier reading Bataille (Lahuji N. 2005).

[15] Per una lettura critica in chiave esoterica dell'opera dell'ultimo Le Corbusier si vedano i saggi di Giuseppina Scavuzzo, Iconostasi: la forma e i segni. Dalla costruzione simbolica alla composizione architettonica in alcune opere di Le Corbusier (Scavuzzo 2006);  Richard Allen Moore, Le Corbusier: Myth and Meta Architectue. The Late Pariod (1947-1965) (Moore 1977). Per un lavoro sul Poème de l'angle droit che rimanda solo in parte alla teosofia e all'alchimia si veda il saggio di Juan  Calatrava, Le Corbusier e  Le Poème de l'Angle Droit: un poema abitabile una casa poetica (Calatrava 2007).

[16] Per uno studio approfondito sull'alchimia sopratutto rispetto alle ripercussioni sul mondo della psicoanalisi si veda l'opera di Carl Gustave Jung, Psicologia e alchimia (Jung 1995) 

[17] Riflessioni sul concetto di ineffabile si incontrano già nei primi scritti di Le Corbuiser come si evince da alcune considerazioni formulate nel capitolo Esprit de vérité in L'art décoratif d'aujourd'hui (Le Corbusier 1925, pp. 167-184). Durante una vista alla Tourette, invitato dai monaci a parlare della sua opera dichiara: «Loro [i luoghi] determinano quello che chiamo l'espace indicible, che non dipende dalle dimensioni, ma dalla qualità della perfezione. Questo riguarda il dominio dell'ineffabile (Le Corbusier 1987,  p. 36).

[18] Per un approfondimento sulla figura del flâneur si veda il saggio di Charles Baudelaire, L'artista, uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo, in Il pittore della vita moderna (Baudelaire 1992-2004, pp. 282-287). 

[19] Nel rileggere le riflessioni di Baudelaire sulla modernità Walter Benjamin scrive: «Les héros è il vero soggetto della modernità, ciò significa che per vivere la modernità c'è bisogno di una natura eroica» (Benjamin 1979, p. 108).

[20] Per un approfondimento si veda il testo di Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe (Berlin 1986).

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