Nel
1932 la rivista Architecte pubblica
l'articolo di Le Corbusier Appartement avec
terrasse, avenue des Champs-Elysées, à Paris (1932)[1]
(Le Corbusier 1932) che descrive il progetto dell'appartamento
realizzato al
sesto e ultimo piano dell'hotêl
particulier
in avenue des
Champs-Elysées a
Parigi tra il 1929 e il 1932 per l'eccentrico conte Charles de Bestegui[2].
È
il periodo degli années folles
nella capitale francese e al fianco di una operante
borghesia che ha ormai acquisito un ruolo centrale nel sistema
economico e
produttivo della nuova civiltà industrializzata,
un'aristocrazia in decadenza
cerca un proprio ruolo e una propria legittimazione sociale attraverso
feste in
maschera e eventi mondani prontamente registrate e divulgate nelle
colonne della
rivista new-yorkese Vogue[3].
Charles
de Beistegui nasce a Parigi nel
1895 da una ricca famiglia di origini messicane[4].
Eccentrico multimiliardario
e arredatore di professione - dichiaratosi surrealista[5]
dal stravagante quanto
eccessivo eclettismo neoclassicista - Charles ereditata una consistente
somma
dopo la morte del padre nel 1925 e si immerge completamente negli
eventi
mondani della haute bohème
parigina.
Nel
1929 chiede agli architetti Gabriel
Guevrekian, André Lurçart e Le Corbuser con
Pierre Jeanneret[6]
una
proposta per un attico all'ultimo piano dell'hotêl
particulier di
famiglia al numero 136 di avenue des
Champs-Elysées. Lo scopo è quello di poter
disporre di un appartamento che,
secondo quanto racconta lo stesso Beistegui, «non
è destinato a essere abitato,
ma a servire da cornice per delle grandi feste[7]».
Un decor de fête quindi,
una machine
à amuser[8]
dove ospitare gli
eventi e le serate della Café
Society
di quegli anni a Parigi e poter così legittimare e
istituzionalizzare la
propria posizione sociale al fianco di famiglie e figure dalla
reputazione
ormai consolidata come i Noailles, Faucigny-Lucinge, Pecci-Blunt e
Beaumont.
La
descrizione dell'appartamento,
pubblicata dalla rivista Architecte (Le
Corbusier 1932) esplicita, attraverso la costruzione del testo, il tema
narrativo che si declina nell'opera.
«Un
atto di devozione nei riguardi di
Parigi» (Le Corbusier 1932, p. 100) scrive Le Corbusier, una promenade architectural che
«costituisce
un paesaggio architettonico, tanto interno quanto esterno, creato
apposta su
differenti piani stabiliti a quattro livelli successivi» (Le
Corbusier 1932, p.
100). Specifiche prospectives
émouvantes (Le
Corbusier 1932, p. 100), viste precise su architettura e fatti urbani
inquadrano i «luoghi sacri di Parigi» (Reichlin
2013, p. 295): «L'Arc
de Triomphe,
la Tour Eiffel, il Sacré-Coeur
e infine la massa verde che
si estende dagli Champs-Elysées
passando per le Tuileries fino a Notre-Dame» (Le Corbusier
1932, p. 100).
La
prima terrazza «è uno spazio verde e di
lastre di pietra, chiuso da pareti di bosso e di tasso [...] una
pressione su un
bottone elettrico e la palizzata di verde si eclissa
lentamente» (Le Corbusier
1932, p. 100). Anche la seconda eplanade
è circoscritta da muri verdi di siepe, mentre nell'ultima
terrazza, sulla
sommità dell'immobile, pareti alte e bianche precisano i
limiti di un pavimento
in erba e racchiudono una porzione di cielo che diventa il soffitto di
una vera
e propria stanza a cielo aperto.
Elementi
che appartengono al convenzionale
vocabolario di uno spazio esterno assumono la forma di quelli
riconducibili ad
uno spazio interno precisando una forte ambiguità sul piano
del carattere tra
esterno e interno. Intenzione resa ancora più esplicita
nell'ultima terrazza
dalla presenza di un caminetto che, scive Le Corbusier,
«serve a fare il fuoco
durante le serate fresche» e, precisa a seguire,
«il padrone del luogo,
seguendo l'impronta evidente di una mode
ravissante, ha aggiunto da
sé un
riquadro di camino spagnolo in stile Luigi XV» (Le Corbusier
1932, p. 101).
«L'esterno
è sempre un interno» (Le
Corbusier 1923, p. 154) si legge in Vers
une architecture (1923) e nei disegni realizzati durante la
conferenza Architettura in tutto, urbanistica
in tutto
(Le Corbusier 1930) di Buenos Aires nel 1929. Anche se qui siamo di
fronte a
riflessioni che riguardano il rapporto di
«rivalità immanente» (Le Corbusier
1930, p. 78) tra architettura e paesaggio, che si traduce in una
positiva
conflittualità tra cultura
e natura solo per coloro i quali,
scrive
Le Corbusier, «sono in grado di vederla e di estrarne un
fecondo beneficio» (Le
Corbusier 1930, p. 78), l'ambiguità sintattica e semantica
tra la forma dello
spazio esterno e interno non è una questione del tutto
estranea alla ricerca
architettonica di Le Corbusier. Si pensi, solo per citare alcuni esempi
tra i
più noti, al muro con bucatura quadrata verso il lago nel
giardino della Petit
maison (1923-24) a Vevey, allo stesso muro con la stessa bucatura
utilizzato però
sul tetto della Villa Stein a Garches (1926), al solarium nella parte
praticabile della copertura di Villa Savoye
(1928-31) e al magistrale sdoppiamento dello spazio
liturgico
all'esterno verso lo scoperto a verde a Ronchamp (1955).
«Ci
spieghiamo: da questo belvedere Parigi
è visibile in tutti i suoi orizzonti; lo sono infatti allo
stesso modo i luoghi
mirabili come il triste deserto dei tetti e dei camini. La decisione
è stata
quella di sopprimere questa vista panoramica di Parigi e di creare un
centro
architettonico di pietre, di giardini e di cielo completamente isolato
dal
tumulto del sito panoramico» (Le Corbusier 1932, p. 100).
Se
la selezione di specifiche preesistenze
storiche della città di Parigi è un'operazione
che Le Corbusier aveva già fatto
sulla carta alle conferenze di Buenos Aires (1929) e nel collage dal
titolo l'Esprit de Paris esposto al
Pavillon des Temps Modernes (1937),
nell'appartamento di Beistegui i «luoghi sacri»
della città sono riquadrati e
isolati attraverso la forma dello spazio architettonico,
così che l'intenzionalità
semantica connessa al significato dell'Esprit
de Paris viene a esprimersi mediante l'utilizzo di specifici
dispositivi
sintattici interni alla sequenza narrativa della promenade
architectural.
Isolando
e decontestualizzando i monumenti
dal quotidiano - rappresentato dal triste deserto dei tetti e dei
camini della
città di Parigi - le preesistenze storiche esprimono un
proprio valore di
permanenza e immutabilità che le traspone all'interno di una
dimensione
sincronica del tempo storico. La storia, percepita come un pericolo
rispetto
all'inesorabile e inarrestabile volontà di cambiamento e
progresso implicita
nella modernità, può essere così
salvata dalla distruzione attraverso
un'operazione di isolamento e sospensione che produce un'inesorabile
quanto
necessaria interruzione della sua continuità.
La tabula rasa è l'unica
operazione
storicamente possibile perché se da un lato consente una
necessaria
rigenerazione sociale di carattere escatologico[9]
dall'altro concede alla
preesistenza storica una chance di
salvezza quando questa si trasforma in testimonianza di un passato che
non
esiste più. Il confronto dialettico
diventa così l'unico rapporto possibile tra memoria storica
e Modernità.
Scrive
Le Corbusier:
«Il
passato storico, patrimonio universale,
viene rispettato. Dirò di più, viene salvato. Un
protrarsi dell'attuale stato
di crisi condurrebbe a una rapida soppressione di questo passato.
[...]
Il Plan Voisin, occupa con gli
edifici solo il 5% della superficie del
suolo, salvaguarda i resti del passato e li colloca in un quadro
armonioso: in
mezzo al verde. Ma sì, le cose così muoiono un
giorno, e questi parchi alla Monceau
sono tanti cimiteri tenuti con
estrema cura. Qui si viene a erudirsi, a sognare e a respirare: il
passato non
è più qualche cosa che minaccia la vita, ha
trovato la sua sistemazione» (Le
Corbusier 1924, pp. 277-278).
Tafuri,
riferendosi in particolare a
questi passaggi, evidenzia come «l'antistoricismo del
movimento moderno sia
profondamente radicato nella storia» (Tafuri 1986, p. 89),
perché, sostiene,
«da un lato dissolve la funzione tradizionale di continuità degli eventi
storici», in favore di un rapporto
dialettico, «dall'altro
recupera i valori della memoria su basi radicalmente nuove»
(Tafuri 1986, p.
93).
Inquadrare,
selezionare, sospendere e
trasporre la storia all'interno di un contesto altro rispetto a quello
delle
sue origini è un'operazione che costruisce un'immagine
della città, non come fatto oggettuale, ma come
puro
concetto. Il suo significato: l'Esprit de
Paris è un'idea i cui contenuti sono trasmessi
attraverso un linguaggio che
è proprio della «riflessione mitica»,
una forma espressiva che, sostiene
Lévi-Strauss, «si situa sempre a metà
strada tra precetti e concetti»
(2015, p. 47).
La
sequenza narrativa dei giardini esterni
che genera il processo di concettualizzazione metastorica e mitologica
della
città è interrotta quando la realtà
contingente dell'urbano è percepita
attraverso una sequenza di immagini, catturate da un periscopio,
proiettate sul
tavolo di una camera obscura e
osservate nella totale oscurità e completo isolamento di un
piccolo padiglione
collocato nella penultima delle quattro terrazze esterne[11].
I «luoghi sacri» di Parigi
trasformati attraverso lo spazio architettonico in entità
sovrastoriche,
espressioni di puri concetti universali, sono ricondotti, mediante la
consistenza dell'immagine, alla dimensione immanente della loro
esistenza.
Scrive
Baudelaire:
«Il
bello è fatto di un elemento eterno,
invariabile la cui quantità è oltremodo difficile
da determinare, e di un
elemento relativo, occasionale, che sarà se si preferisce,
volta a volta o
contemporaneamente, l'epoca la moda, la morale, la passione. Senza
questo
secondo elemento il primo elemento sarebbe indigeribile»
(Baudelaire 1992-2004,
p. 278).
Quando
lo Spirito di Parigi coincide con
il Bello di Parigi il suo
significato può essere espresso solo
attraverso una convergenza di termini antitetici: universale e
individuale,
relativo e assoluto, immagine e idea, realtà e mito.
Nell'appartamento di Beistegui,
per giungere a questa «compresenza dei contrari»
(Eco 1997, p. 20) l'immagine della
città è costruita
attraverso una narrazione che si avvale della retorica dell'ossimoro in
grado
cioè di sovrapporre i contenuti di una dimensione metafisica
e trascendente
della città con le proprietà della sua
realtà empirica e immanente.
Il
codice linguistico in virtù, di alcuni
limiti formali, deve contraddire se stesso per esprimere idee e
pensieri più
profondi. L'ossimoro, usato dai mistici e poeti per oltrepassare i
confini del
logicamente rappresentabile - in questo senso gli gnostici parlavano di
una
luce oscura; gli alchimisti di un sole nero (Jorge Luis Borges) -
consente di
delineare e comunicare i contenuti di un'immagine della
città inesprimibili attraverso
il linguaggio della logica perché la loro consistenza
è quella delle idee e dei
concetti.
Nell'appartamento
in avenue des
Champs-Elysées l'ossimoro sembra rappresentare per Le
Corbuiser quello
strumento che, come sostiene Jean Cocteau, è utilizzato
dagli artisti che
«provano la tristezza dolce di quelli che sanno che
l'alfabeto umano offre un
numero ridotto di combinazioni» (Cocteau 1920-25, p. 325).
«Io
sono cubista e non sono surrealista,
volendo opporre il sentimento della costruzione, il guardare in avanti,
a una
considerazione dei morti, del morente, del ricordo» (Le
Corbusier 1936, p.14).
Rispetto
a questo tipo di argomentazioni
ci sembra più interessante rivolgere la nostra attenzione ad
alcuni appunti che
Le Corbusier annota a margine del libro La
part maudite (Bataille 2015) scritto dal filosofo francese
George Bataille
nel 1949[14].
Il
libro e il saggio La nozione di
dépense (Bataille 2015), pubblicato qualche anno
prima in La Critique sociale,
illustrano i principi di una economia generale che scardina le
convenzioni
economiche di matrice capitalistiche relative all'esclusiva produzione
e
accumulazione di beni e, proponendo un sistema che afferma la
centralità del
«consumo senza profitto», rivaluta il significato
di alcune pratiche
commerciali delle tribù indiane del Nord America -
precedentemente descritte da
Marcel Mauss nel suo saggio Essai sur le
don, form et raison de
l'échange dans
les sociétés archaïques (Mauss
1923-24) - connesse all'istituzione del potlàc,
cioè allo scambio tramite il dono.
Alla
base di quella che potrebbe essere
definita la dimensione escatologica degli eterodossi principi economici
formulati da Bataille vi è la volontà di
emancipare l'esistenza dell'uomo dalla
povertà dell'utile attraverso la pratica del dono
che, assumendo lo stesso ruolo e valore del sacrificio,
diventa lo strumento
attraverso cui, scrive Bataille, «restituire al mondo sacro
ciò che l'uso
servile ha degradato e reso profano». (Bataille 2015, p.
104).
Sacrificare,
dal latino sacrificare si compone
di sacrum
«rito sacro» e ficare, dal tema
di facĕre «fare»,
cioè rendere sacro. Nel
donare senza alcuna
contropartita l'uomo scardina quel rapporto di servilismo che
l'approccio
utilitaristico genera tra la realtà delle cose e la sua
attività nel mondo così
da potersi ricongiungere con la dimensione divina
dell'esistenza. Attraverso il dono,
scrive Bataille, «Le cose donate sono restituite alla
verità del mondo intimo e
l'uomo ne riceve una comunicazione sacra che a sua volta lo restituisce
alla
libertà interiore» (Bataille 2015, p. 106).
Alla
pagine 92 del libro La part maudite
(Bataille 2015), nel
capitolo Teoria del potlàc, il
paradosso
del “dono” ridotto
all'“acquisizione” di un
“potere”, Le Corbuiser annota:
«I
5 volumi dell'opera completa Corbu
offrono, propongono e impongono attraverso un'entusiastica adesione le
idee di
Corbu. Da un lato Corbu è processato dai mascalzoni,
dall'altro è il re. La
pratica disinteressata della pittura è un instancabile
sacrificio, un dono di
tempo, di pazienza, di amore, senza alcuna contropartita in denaro (a
esclusione dei moderni commercianti). È un seminare al vento
per gli
sconosciuti, un giorno prima o dopo la morte, ci ringrazieranno.
È troppo tardi
per le tante difficoltà vissute. Ma cosa importa; quello che
importa è la
chiave della felicità» (Duboy 1987, p. 67).
Più
avanti nel capitolo Il sacrificio o la
consumazione Le
Corbusier sottolinea il seguente passaggio:
«Questa
consumazione inutile è ciò che mi
piace, appena tolta la preoccupazione del domani. E se consumo
così, senza
misura, rivelo ai miei simili ciò che sono intimamente: la
consumazione è la
via tramite la quale comunicano esseri separati. Tutto
traspare tutto e aperto e tutto è infinito [il
corsivo è
nostro] per coloro che consumano intensamente. Ma da quel momento non
c'è più
nulla che conti, la violenza si libera e si scatena senza limiti, nella
misura
in cui il calore aumenta» (Bataille 2015, pp. 106-107).
A
margine Le Corbusier annota la parola
«fusion».
Il
termine fusion rimanda
inequivocabilmente alla “fusione alchemica”
descritta nella litografia del quarto capitolo del Poème
de l'angle droit (1955) e, più in generale, a
tutta una serie
di studi che hanno avvicinato la poetica dell'ultimo Le Corbusier alla
dimensione
simbolica del sacro[15].
Concetto
ermetico dalla non facile
interpretazione[16],
la
“fusione alchemica” indica letteralmente l'unione e
la conciliazione degli
opposti, acqua-luna e fuoco-sole, animus
maschile e anima femminile, la
verticale e l'orizzontale dell'angolo retto. Rappresenta inoltre uno
stadio del
processo di purificazione (martirio) compiuto dall'alchimista sui
metalli vili,
per liberare l'elemento puro, diventando così metafora della
liberazione
spirituale della coscienza, un momento cruciale, dopo il quale
può dispiegarsi,
per i solitari che se ne assumeranno il rischio, la vera conoscenza di
se
stessi (Scavuzzo 2006) e di quei luoghi della propria
interiorità dove per gli
alchimisti risiede il divino.
Incrociando
quanto scrive Bataille sulla
virtù esemplare del potlàc
come
«possibilità per l'uomo di cogliere ciò
che gli sfugge, di unire i movimenti
senza limite dell'universo con il limite che gli è
proprio» (Bataille 2015, p.
116) e il concetto di espace indicible (1936) - «la quarta dimensione [...]
il
momento di evasione illimitata provocata da una consonanza
eccezionalmente
giusta dei mezzi plastici» (Le Corbusier 1936, p. 10),
«di natura
incontestabile, ma indefinibile» (Le Corbusier 1936, p. 17) -
ci sembra di
intravedere il senso di una possibile dimensione
eroica del dono, dove la
“fusione
alchemica” diventa “fusione con il sacro”
attraverso un atto creativo che,
esplicitandosi come un sacrificio
donato all'umanità, rende sacro
ciò
che è materia grezza consentendo l'esperienza e la
conoscenza del divino e dell'ineffabile[17].
Profondamente
diverso dal flâneur di
Baudelaire[18],
che si aggira per la città contemplandone la
modernità e dal «pittore-mago» di
Benjamin (2013) che, ancora ancorato ai principi della mimesis,
conserva una naturale distanza nei confronti della moderna
seconda natura, Tafuri (1986)
inscrive la figura di Le Corbusier nella categoria
dell'«operatore-chirurgo»
(Benjamin 2013) che, introducendosi costruttivamente nella
realtà, opera
attivamente nella società con l'obiettivo di rispondere a
necessità poetiche
attraverso principi estetici che conducono da un lato
all'identificazione
assoluta tra lavoro industriale e lavoro artistico (Tafuri 1986, p.
60),
dall'altro a un incondizionato asservimento dell'Arte all'azione
costruttiva
del mondo (Tafuri 1986, p. 64).
La
dichiarazione di Le Corbusier: «le
tecniche sono il fondamento stesso del lirismo» (Le Corbusier
1930, p. 37)
esprime la volontà di conferire un carattere spirituale e
poetico a funzioni e
tecniche per loro natura alquanto empiriche, delineando induttivamente
una
necessità di coincidenza tra le istanze del materiale
e quelle dello spirituale che renda
possibile nell'opera d'arte la convergenza dell'utile
e del poetico.
Il
carattere eroico della vita nella
modernità raccontato da Walter Benjamin[19] – e
riproposto da Philip Duboy (1987) – se avvicinato alle riflessioni di
Bataille
rimanda a un'ulteriore possibile interpretazione critica del ruolo
dell'artista
nella società. Il sacrificio
che
l'artista compie nel donarsi e nel donare incondizionatamente la sua
azione al
mondo diventa lo strumento attraverso cui la comprensione dell'indicibile è resa possibile.
Una ricerca
quindi di quei mezzi espressivi che, attraverso una mediazione tra le
istanze
del reale e dell'ideale, siano in grado di caricarsi di una differente
energia
di senso e, superando i confini della logica, descrivano ciò
per il quale una
parola non è mai stata creata.
Inquadrare
sapientemente un ammasso di
reperti che devono essere selezionati, resi intelligibili e ordinati in
quella
che Reichlin (2013) descrive come la «Parigi
analoga» di Le Corbusier è
un'operazione che precisa un'immagine della città come
sintesi tra le istanze
universali dell'idea e del mito e quelle relative del fenomeno e della
realtà.
Conservando così la consistenza del costrutto mentale, l'immagine della città si
colloca tra la sua idea e la sua forma
disvelandone ontologicamente l'essenza, la Bellezza e lo Spirito.
Significati
che, rimandando a una realtà al di là del
fenomeno di cui però si serve come
supporto per garantire la sua esistenza, possono esprimersi solo
attraverso una
convergenza concettuale di termini contrari propria della retorica
dell'ossimoro.
Dall'analisi
della struttura narrativa
dell'appartamento di Charles de Beistegui e degli appunti di Le
Corbuier sul
pensiero di Georges Bataille emergono questioni che inducono a
più ampie
considerazioni sulla sempre attuale questione dello statuto
epistemologico
dell'Arte e del ruolo dell'Artista nella società. Da un lato
l'Artista che,
attraverso l'atto creativo e espressivo supera i limiti di una
riflessione
esclusiva sull'utile e, inoltrandosi coraggiosamente nei meandri dell'ineffabile e del sacro,
diventa un eroe
tragico la cui vita è spesa come un sacrificio
donato all'umanità; dall'altra un'Arte concepita come
strumento di conoscenza
in grado d'indagare e descrivere concetti, pensieri e idee quando,
varcati i
limiti del razionale, il linguaggio esige che al significato
si sostituisca il senso.
[1] Una traduzione in italiano del testo scritto da Le Corbusier si trova nel saggio di Paolo Melis, Il ‘cadavere squisito’ di Le Corbusier: Pierre Jeanneret e Charles Bestegui (Melis 1977).
[2] Una bibliografia sull'argomento si compone dei saggi di Alexander Watt, Fantasy on the Roofs of Paris (Watt 1936); Ross Anderson, All of Paris, Darkly: Le Corbusier's Beistegui Apartment (Anderson 2015); Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015); Beatriz Colomina, The Split Wall: Domestic Voyeurism (Colomina 1988); Juan José Lahuerta, ‘Surrealist poetics’ in the work of Le Corbusier? (Lahuerta 2007); Jean Lucan, Corbusier: une encyclopédie (Lucan 1987); Le Corbusier, Appartement avec terrasse, avenue des Champs-Elysées, à Paris (1932) (Le Corbusier 1932); Le Corbusier, Oeuvre complète 1929-1934 (Le Corbusier 1947); Sylvain Malfroy, Der Aussenraum ist immer ein Innenraum (Malfroy 1994); Paolo Melis, Il ‘cadavere squisito’ di Le Corbusier: Pierre Jeanneret e Charles Bestegui (Melis 1977); Bruno Reichlin, La “Parigi Analoga” di Le Corbusier. L'Attico per Charles de Bestegui, 1929-1932» (Reichlin 2013); Pierre Saddy, Le Corbusier Chez Les Riches, L’appartement De Beistegui (Saddy 1979); Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980);Laurent Salomon e Jean-Pierre Ammeler, Appartament Charles de Beistegui 1929-1931. 136, avenue des Champs-Elysées, Paris (Salomon e Ammeler 1979) Manfredo Tafuri, Machine et mémoire. la città nell'opera di Le Corbusier (Tafuri 1984); Anthony Vilder, Paris: Beistegui Apartment, Or Horizons Deferred (Vilder 2013).
[3] Per un approfondimento su questo particolare tipo di contesto sociale della Parigi anni '20 si vedano i saggi di Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980) e di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).
[4]
Un resoconto biografico della
figura di Charles de Beisegui è contenuto nel saggio di Win
van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier:
genèse du
penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015)
[5] A proposito dell'arredamento dell'appartamento in avenue des Champs-Elysées Charles de Beistegui dichiara: «La mia opera è surrealista. Su questo falso camino un orologio a pendolo e dei piccoli candelieri. Questo specchio riflette il sole ... Gli oggetti che si ha l'abitudine di vedere sotto una certa luce, danno in una nuova luce degli effetti nuovi». La citazione si trova nel saggio di Pierre Saddy, Le Corbusier e l’Arlecchino (Saddy 1980, p. 27) al quale rimandiamo per una sintetica quanto eloquente descrizione di alcune sue opere.
[6] Per la descrizione dei tre progetti si veda il saggio di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).
[7] Estratto di un'intervista rilasciata da Charles Beistegui a Roger Baschet nel 1936, riportata nel saggio di Win van den Berg, Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).
[8] Felice parallelismo con «machine à habiter» proposto da Win van den Berg nel suo saggio Beistegui avant Le Corbusier: genèse du penthouse des Champs-Elysées (Berg van den 2015).
[9] Mi rifersico in particolare alla riflessioni descritte nel testo di Colin Rowe, L'architettura delle buone intenzioni (Rowe 2005, p. 84)
[10] Rispetto alle argomentazioni trattate in questo saggio riteniamo che la definizione di mito più appropriata sia quella formulata da Gillo Dorfles che recita: «[...] tali forme espressive traggono la loro origine da una realizzazione analogica e traslata degli eventi, di immagini, di situazioni, di cui sono talvolta una registrazione inconscia e talaltra la trascrizione metaforica, ma sempre immersa entro un alone di indeterminatezza razionale che è per l'appunto ciò che permette di differenziarle dalle forme perfettamente razionalizzate e concettualizzate, quali sono quelle trasmissibili attraverso le normali espressioni linguistiche (della parola o della figurazione). (Dolfers 1965 , p. 51) .
[11] Nel suo saggio Ross Anderson (2015) avvicina la camera oscura con periscopio ad alcune riflessioni sul concetto di Unheimliche formulate da Sigmund Freud in Das Unheimliche (Freud 1955, pp. 217-56). In Italiano il termine tedesco Unheimliche si traduce in uno spaesamento precisato dall'incontro dei due termini ossimorici: spaventoso e familiare. Anderson delinea un'affinità tra il carattere di forte ambiguità intrinseco al significato stesso di Unheimliche e lo spazio della camera oscura. Scrive Freud: «Unheimliche [...] da un lato denota ciò che è familiare e congeniale dall'altro ciò che è celato e tenuto nascosto [...] quindi Unheimliche è una parola il cui significato si sviluppa nella direzione di dell'ambivalenza, fino a coincidere con il suo opposto unheimlich. (Freud 1955, p. 222-223).
[12] Mi riferiscono in particolare all'articolo di Alexander Gorlin, The Gost in the Machine: Surrealism in the Work of Le Corbusier (Gorlin 1982) e ad alcuni passaggi del saggio di Danièle Pauly, Il segreto della forma (Pauly 1987). Per ulteriori lavori critici sull'argomento si rimanda alla bibliografia contenuta nel libro di Stanislaus von Moss, Le Corbusier une synthèse (Moss von 2013). Una confutazione delle posizioni che avanzano ipotesi di similitudine tra la poetica di Le Corbusier e quella del Surrealismo in relazione al rapporto tra architettura e città è contenuta nel saggio di Juan José Lahuerta, ‘Surrealist poetics’ in the work of Le Corbusier? (Lahuerta j. j. 2007).
[13] Si vedano i testi di Andrè Breton presenti nella biblioteca personale di Le Corbusier (Collegi d'Arquitectes de Catalunya 2005).
[14] Queste annotazioni sono state pubblicate per la prima volta nel contributo di Philippe Duboy (1987) all'Encyclopédie di Jaques Lucan (1987): Bataille (Georges): Le Corbusier, héros moderne. Sul rapporto tra il pensiero di Bataille e Le Corbusier si veda il saggio di Nadir Lahiji, «... The gift of time» Le Corbusier reading Bataille (Lahuji N. 2005).
[15] Per una lettura critica in chiave esoterica dell'opera dell'ultimo Le Corbusier si vedano i saggi di Giuseppina Scavuzzo, Iconostasi: la forma e i segni. Dalla costruzione simbolica alla composizione architettonica in alcune opere di Le Corbusier (Scavuzzo 2006); Richard Allen Moore, Le Corbusier: Myth and Meta Architectue. The Late Pariod (1947-1965) (Moore 1977). Per un lavoro sul Poème de l'angle droit che rimanda solo in parte alla teosofia e all'alchimia si veda il saggio di Juan Calatrava, Le Corbusier e Le Poème de l'Angle Droit: un poema abitabile una casa poetica (Calatrava 2007).
[16] Per uno studio approfondito sull'alchimia sopratutto rispetto alle ripercussioni sul mondo della psicoanalisi si veda l'opera di Carl Gustave Jung, Psicologia e alchimia (Jung 1995)
[17] Riflessioni sul concetto di ineffabile si incontrano già nei primi scritti di Le Corbuiser come si evince da alcune considerazioni formulate nel capitolo Esprit de vérité in L'art décoratif d'aujourd'hui (Le Corbusier 1925, pp. 167-184). Durante una vista alla Tourette, invitato dai monaci a parlare della sua opera dichiara: «Loro [i luoghi] determinano quello che chiamo l'espace indicible, che non dipende dalle dimensioni, ma dalla qualità della perfezione. Questo riguarda il dominio dell'ineffabile (Le Corbusier 1987, p. 36).
[18] Per un approfondimento sulla figura del flâneur si veda il saggio di Charles Baudelaire, L'artista, uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo, in Il pittore della vita moderna (Baudelaire 1992-2004, pp. 282-287).
[19] Nel rileggere le riflessioni di Baudelaire sulla modernità Walter Benjamin scrive: «Les héros è il vero soggetto della modernità, ciò significa che per vivere la modernità c'è bisogno di una natura eroica» (Benjamin 1979, p. 108).
[20] Per un approfondimento si veda il testo di Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe (Berlin 1986).
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