Descrizioni di descrizioni. Esercizi (interrotti) di architettura scritta

Francesca Belloni



L’intera storia del pensiero architettonico, fin dagli antecedenti preclassici, è percorsa dalla forma letteraria della descrizione, nettamente divergente dalla storia o dalla critica e dalle loro pratiche filologiche; si tratta di una sorta di esercizio speculativo che attinge indirettamente dalla tradizione delle ekphraseis[1] di epoca giustinianea (Kruft 1988, pp. 19-32), il cui modello sono le Immagini di Filostrato del II-III sec. d.C., ove l’autore, descrivendo sessantaquattro pitture presenti nel portico di una villa presso Napoli, inaugura il genere del museo letterario e dà forma al non più risolto conflitto tra parola e immagine, declinato nei secoli successivi secondo la nota formula oraziana dell’ut pictura poesis.

Si potrebbe ripercorrere la storia di questa pratica e della sua particolare fortuna in ambito architettonico, a partire dalle descrizioni del Tempio di Salomone a Gerusalemme contenute nel Vecchio Testamento[2] fino agli esercizi di stile di Tschumi e Koolhaas sulla contemporaneità e oltre; sarebbe possibile individuare i tratti caratteristici nonché gli scarti e le ambiguità di tale genere, praticato dagli architetti come dai critici e dagli storici, ma sovente anche dai poeti e dagli scrittori e – seppur sotto vesti differenti, ma pur sempre “narrative” – anche dagli artisti. Valgano in tal senso le descrizioni della Parigi a volo d’uccello di Victor Hugo, che per la compresenza di sguardi molteplici e il marcato gusto dell’eccesso anticipa le visioni immaginifiche della città postmoderna, o ancora il parco di Edoardo e Carlotta de Le affinità elettive e la maestria con cui Goethe traccia le «pittoriche vedute» dietro a cui si celano i segni premonitori degli eventi successivi[3]

La descrizione, in quanto dispositivo analitico, seppure non esaurisca il ruolo e il compito conoscitivo della disciplina (se oggi ancora si può parlare di ruoli o di compiti), ne è uno degli strumenti operativi e questo non solo ora, all’epoca dello storytelling, ma fin dall’antichità. Si può infatti rintracciare una lunga tradizione, a cui solo recentemente è stato dato un nome, forse sull’onda di quella predisposizione all’autoriflessione dell’architettura su se stessa, inauguratasi con il secolo dei Lumi, specificatasi nel Secolo breve e divenuta oggi way of thinking.

Il termine descrizione indica sia l’atto del descrivere sia il suo contenuto. Nell’accezione che qui si vuole considerare, è il mezzo che gli architetti impiegano per delineare il proprio campo d’indagine: è un lavoro critico sulle ragioni dell’arte, una riflessione concreta sugli strumenti del mestiere e sul loro impiego. La descrizione è al contempo momento conoscitivo, dispositivo analitico e tecnica di rappresentazione; attraverso la descrizione si determina un processo che presuppone unità tra oggetto dell’osservazione e modalità della narrazione o che, al contrario, opera per scarti e deviazioni.

Come “genere”, la descrizione architettonica ha una storia complessa, paragonabile a quella della descrizione letteraria e, come quest’ultima, vive di un doppio registro: quello del genere in sé – labirinto complesso di descrizioni di descrizioni[4] – e quello conoscitivo, momento apparentemente neutrale (in quanto prodotto di analisi e osservazione), ma in realtà profondamente condizionato dallo sguardo di chi descrive: una sorta di meta-testo (forse meta-architettura) che fa dell’architettura stessa l’oggetto della narrazione, una tecnica grazie alla quale l’architettura si mette in scena, rappresenta se stessa, parla di se stessa. Un discorso svolto per via progettuale o, secondo un punto di vista opposto, ma spesso coincidente, un testo scritto in forma architettonica.

Per chiarire tale disposizione intrinsecamente ermeneutica delle descrizioni d’architettura è necessario sottolineare che, a differenza di quanto forse non avvenga in letteratura (nel qual caso si porrebbe la questione del rapporto tra fabula e intreccio nonché il dubbio che il ruolo della descrizione sia inevitabilmente subalterno a quello della narrazione), in ambito architettonico le pratiche descrittive e le variazioni del genere nel tempo mostrano una stretta relazione con l’elaborazione degli strumenti progettuali, in funzione della loro concreta applicazione (Corbellini, 2016); ciò significa che il loro significato origina dalla teoria dell’architettura a cui sono riferite non meno che dalle tecniche del progetto di volta in volta impiegate. Sovente gli architetti descrivono oggetti che divengono in seguito figure attive all’interno delle pratiche progettuali, in grado di innescare automatismi inconsci strettamente legati ai meccanismi compositivi; in tal senso, i processi analitici condizionano il rapporto tra descrizione e progetto producendo, in taluni casi, una sorta di ripiegamento del progetto nell’analisi, secondo modalità in qualche modo deterministiche, talvolta, al contrario, attivando circoli virtuosi in cui l’intelligibilità del progetto si costruisce all’interno di un processo immaginativo applicato a figure conosciute. Così potrebbe sembrare superfluo osservare come la piramide sghemba che si erge sopra il cubo della sala dei novizi al centro del chiostro de La Tourette, seppur volume “rigoroso e magnifico” certamente in grado di “giocare sapientemente sotto la luce”, sia indissociabile dalle vedute scultoree del Thoronet di Le Corbusier; lo stesso si potrebbe dire per il camminamento sul tetto, con quell’alto muro perimetrale a marcare la linea di un orizzonte che rimanda ad altri luoghi, ove, proprio come nell’assolata Provenza del Thoronet, si può meditare, di fronte alla natura, più vicino a Dio.

Seppure molto sia stato detto e scritto in merito a quale possa essere, in casi di tal genere, il discrimine tra descrizione e interpretazione, tra immaginazione e ripetizione, forse rimane da chiedersi quanto la descrizione operata da Le Corbusier del “suo” Thoronet e il processo narrativo impiegato per metterla in scena abbiano influito sul progetto di Éveux.

Ecco dunque come quell’atto descrittivo, che in architettura sembrava così distante dai termini produttivi del progetto, a differenza del ruolo propriamente compositivo che al contrario la descrizione assume nella struttura della narrazione letteraria, diviene momento progettuale.

In che modo e in vista di quali obiettivi questo avvenga, è il tema che qui si vuole indagare, poiché, in molti casi, la storia che viene raccontata non è altro che il progetto (o le sue ragioni).

In merito al significato e al valore della descrizione, se in letteratura essa coincide spesso con una digressione che assume uno specifico ruolo nell’economia del racconto, introducendo personaggi secondari e storie parallele o contribuendo a caratterizzare i protagonisti, in ambito architettonico ci sarebbe da chiedersi quanto le descrizioni partecipino di fatto alla definizione del progetto, cioè se il momento della descrizione coincida con quello della progettazione e come tale coincidenza si attui. 

Per lo più le descrizioni sono parte del processo conoscitivo (nella sua accezione razionale e forse anche in altre meno facilmente codificabili), concorrono a individuare il carattere dell’oggetto descritto che, pur ammettendo esista in sé, si modifica in funzione dell’occhio di chi guarda e della visione del mondo di chi descrive. Descrivere significa infatti conoscere gli oggetti attraverso la loro interpretazione, ma al contempo implica la capacità di individuarne i tratti tipici e essenziali, distinguendoli da quelli accessori e secondari, o viceversa insistere su questi ultimi.

Di fatto nella pratica descrittiva osservazione e interpretazione convivono, seppur in modi di volta in volta differenti.

Per alcuni il fine ultimo della descrizione è la descrizione stessa, vale a dire l’aperta esibizione del suo contenuto e la struttura logica della sua costruzione. In questo senso Giorgio Grassi assimila la descrizione ai processi analitici classificatori e alle modalità attraverso le quali si organizza l’esposizione dei fatti, la classificazione degli oggetti e la comparazione degli elementi: la descrizione si costruisce e rende ragione del proprio significato attraverso la forma che esibisce. Il senso e la legittimità della descrizione architettonica, sebbene essa possa sembrare apparentemente tautologica, poiché priva di un ruolo paragonabile a quello delle descrizioni letterarie nell’economia di un racconto, risiede nell’individuazione specifica di connotati spesso dati per scontati, poiché frutto di semplice osservazione, e nella loro esposizione in forma razionale. Per Grassi, ciò che rende la descrizione architettonica significativa dal punto di vista conoscitivo è l’ordinamento razionale e l’enunciazione congrua in relazione a un quadro conoscitivo più ampio[5].

Un’architettura costruita in forma logica: «[…] il termine “descrizione” […] sarà usato per designare quelle opere nelle quali è apertamente riconoscibile la preminenza del fine conoscitivo rispetto all’oggetto di studio» (Grassi, 1967, pp. 38-39).

In tal senso, se gli oggetti indagati appartengono a un repertorio condiviso, la loro interpretazione nonché i criteri che ne guidano la descrizione sono legati a una specifica teoria dell’architettura – e della città – e nondimeno a una teoria del progetto di architettura: «L’analisi condotta sull’architettura (ad es. le classificazioni) individua gli elementi di questa: quegli elementi che nel procedimento diventano elementi della composizione. Credo che questo confronto fra analisi e progetto, fra elementi dell’architettura e elementi della composizione sia essenziale all’architettura, alla sua conoscenza e alla sua comprensione» (Grassi, 1980, p. 55). In questo risiede la validità del procedimento analitico in rapporto al progetto, il loro “comune fine conoscitivo”, quantomeno secondo quella accreditata tradizione culturale che fa capo agli studi sulla teoria dell’architettura e della città, che hanno avuto il loro momento di massima fioritura in Italia durante gli anni Sessanta e Settanta.

All’interno di tale visione dell’architettura è necessario tuttavia rimarcare come il risultato di una “buona descrizione’”, sebbene essa si applichi a un oggetto conosciuto – o dato per conosciuto – sia tuttavia per sua natura inedito: se non l’oggetto in sé, quantomeno la logica e i criteri della descrizione sono infatti indipendenti dall’oggetto descritto e quindi il risultato del processo conoscitivo è in un certo qual modo imprevedibile. Questa particolare declinazione del rapporto tra progetto e analisi si specifica per Aldo Rossi su un piano divergente, seppur per certi versi comune rispetto a quello di Grassi: «è certo che se molte volte ho parlato di descrizione dell’architettura in realtà ho sempre rimandato la descrizione al progetto» (Rossi, 1990, p. 63). Era infatti Rossi a insistere con i suoi studenti milanesi e zurighesi poi sull’importanza della “descrivibilità” del progetto, intendendo con questo una caratteristica intrinseca al prodotto artistico, una qualità specifica del progetto costruito per via razionale: «[…] questa architettura pensata ritorna continuamente nei maestri antichi e moderni, ritorna quasi ossessivamente negli scritti di Adolf Loos che dichiara che l’architettura la si può descrivere ma non può essere disegnata: anzi questo carattere di formulazione logica che ne permette la descrizione è caratteristico della grande architettura: il Pantheon lo si può descrivere, le costruzioni della Secessione no» (Rossi, 1968, p. 128). In questa affermazione, come in molte altre rossiane, la «necessità di formulare con chiarezza da quale architettura [nascano le architetture]» si sovrappone all’esigenza di dire «come [ha] fatto certe [sue] architetture» (Rossi, 1966, p. 4) e in tale seppur vaga e indefinita sovrapposizione descrizione e autodescrizione tendono a sovrapporsi o a coincidere (Bonfanti, 1970, pp. 19-20; Savi, 1976, pp. 141-152): formulazioni teoriche e relazioni di progetto, scritti e disegni sono difatti del medesimo genere – architettonico e letterario al contempo. Le relazioni di progetto, o meglio quel tentativo di «dire come [ha] fatto certe [sue] architetture», che della pratica rossiana dell’autodescrizione si alimentano, sperimentano le estreme possibilità di tale ricerca sugli oggetti (e sul lavoro), fino a tracciare spazi (scritti) inediti e imprevisti, variazioni e ripetizioni di un’unica “costruzione generale”. Ne sono indizi addirittura i nomi dei progetti: Locomotiva 2, L’azzurro del cielo (e Il gioco dell’oca), Trieste e una donna, La calda vita, Il teatro del Mondo o ancora, in omaggio a Roussel e agli amici surrealisti, Théâtre Rouge o Club des Incomparables. In tale “discorso sulle cose”, ove sempre risuona qualcosa di atmosferico e immaginifico, il rigore logico si scioglie in una prospettiva analoga, all’interno della quale il soluto, seppure sul fondo, rimane ben visibile. E lungo questo percorso gli sono compagni Boullée e Loos, Cézanne e Wittgenstein.

Resterebbe poi da chiedersi, come già facevano Bonfanti e Savi, quanto tutto sia presente fin dall’inizio e quanto al contrario si sedimenti nel tempo, quanto si possa scindere la descrizione (logica) dall’autodescrizione (biografica) e quanto i due momenti si compensino o piuttosto si sommino (Bonfanti, 1970, p. 20). Se infatti Loos affermava senza dubbio alcuno: «Io non ho alcun bisogno di disegnare i miei progetti. Una buona architettura, l’idea di come qualcosa vada costruito, può essere scritta. Si può scrivere il Partenone» (Loos, 1924), Rossi, che pur non esita a citarlo in merito alle medesime questioni, ammette che «[…] ripercorrere le cose o le impressioni, descrivere, o cercare un modo di descrivere» (Rossi, 1990, p. 7) può talvolta rivelarsi un compito difficile.

A partire da tali considerazioni, si potrebbe affermare che, se in generale le operazioni di genere interpretativo, quali l’osservazione, la classificazione e la comparazione, si rifanno a procedimenti tipici del metodo scientifico, la loro applicazione in campo architettonico, e di conseguenza le pratiche descrittive che qui si stanno analizzando, si articola a partire dalla sedimentazione di materiali – disciplinari o meno – e dal loro continuo riaffiorare in forme e momenti differenti; nella descrizione architettonica, come in quella letteraria, analogia e immaginazione intervengono alterando l’indagine (scientifica) del reale per aprire alla riflessione sull’opera e sul suo farsi, al molteplice e al possibile.

Il carattere compiuto e unitario di ogni descrizione pare pertanto implicare un’intrinseca frammentazione della realtà o quantomeno del corpus disciplinare, dal momento che la determinazione univoca degli oggetti si scontra con l’accumularsi degli elementi e dei loro significati o, in altri casi, con la pluralità delle interpretazioni, secondo «quell’infinità vorticosa di elementi» a cui si riferisce Pasolini (1979, p. 458).

Un discorso analogo si potrebbe svolgere in ambito letterario, per esempio riguardo alle descrizioni di Flaubert; questo non tanto in relazione al testo in sé – narrativo nel caso specifico, ma lo stesso varrebbe anche per “testi” architettonici – quanto piuttosto per il pensiero che il testo stesso rivela tramite la descrizione. A differenza della letteratura precedente, da Omero fino a Balzac, che attraverso la minuta descrizione dei singoli elementi mirava a ricostruire l’unità del quadro d’insieme, in Flaubert si assiste alla deflagrazione dello spazio compiuto e rassicurante dell’ancien régime per mettere in scena la dispersione di senso che dopo il 1848 ha investito il mondo moderno. L’accumulo di elementi non è più al servizio dell’unità narrativa, ma scende talmente in profondità da riprodurre, attraverso la scrittura, le contraddizioni sociali; si tratta piuttosto di una descrizione che decostruisce, tanto da far dire a un suo contemporaneo: «lo stile di Flaubert è la descrizione, una descrizione infinita, eterna, atomistica, accecante, che occupa tutto il suo libro […]»[6].

Ecco dunque che le descrizioni, pur rappresentando la presa di coscienza dell’oggetto indagato e la sua ri-presentazione, ne producono al contempo una sorta di trasfigurazione, una vera e propria interpretazione.

Traduzione, trascrizione e tradimento sono momenti connaturati all’attività descrittiva. E se è vero che «la traduzione avviene tra lingue diverse, ma anche all’interno della stessa lingua, tra tipi differenti di discorsi, spesso più idiosincratici del lessico e della grammatica. E, più ancora, tra forme di contenuto trasmesse da sostanze espressive differenti» (Fabbri e Marrone, 2001, pp. 361-362), allora è necessario ricordare che fin dal Rinascimento si rifletteva sul fatto che «tradurre non è fedeltà all’opera, ma gara e contrasto»[7].

Si potrebbe supporre che in ambito architettonico descrizione e tradimento abbiano una relazione analoga a quella esistente tra analisi e progetto: la descrizione nonché il rilievo (che della rappresentazione è un tipico strumento disciplinare) presuppongono infatti un punto di vista soggettivo, un immediato tradimento dell’oggettività e nondimeno della presunta oggettualità, ammettendo pertanto una pluralità di interpretazioni possibili.

L’apparente tipicità della pianta centrale de La Rotonda di Palladio, così chiaramente descritta in termini di corrispondenze geometriche e principi compositivi classici da Rudolf Wittkower (1999, pp. 72-77), si trasforma per Bernard Tschumi (2005, p. 100) nell’inquietante trauma fisico e psichico dovuto alla labirintica molteplicità di un’immagine continuamente riflessa allo specchio.

Considerate la Villa Rotonda di Palladio. Camminando lungo uno dei suoi assi, e attraversando lo spazio centrale fino a raggiungere il lato opposto, troverete non il paesaggio del pendio collinare, bensì gli scalini di un’altra Villa Rotonda e poi di un’altra, un’altra e un’altra ancora. L’incessante ripetizione provoca sulle prime uno strano desiderio, ma diviene presto qualcosa di sadico, impossibile, violento.

Questi disturbanti stratagemmi spaziali possono assumere qualunque forma: le camere anecoiche bianche di deprivazione sensoriale, gli spazi senza forma che portano alla destrutturazione psicologica. Le scalinate ripide e pericolose, quei corridoi volutamente troppo stretti per le folle introducono una radicale deviazione dell’architettura come oggetto di contemplazione all’architettura come strumento perverso.

E se con Tschumi, all’ordine classico e all’equilibrio composto del volume cubico con i quattro pronai giustapposti, si sostituisce il trauma fisico della molteplicità architettonica che si guarda allo specchio, nella trasposizione cinematografica di Losey del Don Giovanni di Mozart i personaggi si muovono in una Rotonda bagnata dall’acqua, all’interno di un’interpretazione scenica che reiventa totalmente la topografia dell’edificio per sprofondarlo nell’atmosfera nebbiosa della laguna[8]. Una terza Rotonda quella di Losey non meno vera delle due precedenti e neppure di quella di calce e mattoni costruita sulle colline alle spalle di Vicenza, semplicemente un’altra Rotonda o quantomeno una delle Rotonde possibili nella trama complessa delle sue descrizioni. Lo stesso oggetto, il medesimo edificio, partecipando di piani interpretativi differenti, si modifica in funzione della sua descrizione come se ne producessero ripetizioni differenti, ognuna attendibile, ognuna essenziale e al contempo provvisoria. Così, parafrasando Jakob, come nel romanzo goethiano, anche nelle descrizioni plurime dell’opera palladiana si dispiega la costruzione di un edifico come decostruzione, demolizione (e quindi moltiplicazione) di possibilità.

A questo proposito tuttavia, per non correre il rischio di una totale frantumazione del pensiero e con esso della disciplina, ma tenendo conto della complessità che la “condizione postmoderna” ha avanzato circa la sostanziale molteplicità delle interpretazioni possibili, sembra si possa risalire alla tradizione del realismo critico, che intende l’oggettività in modo sempre mediato da una teoria, o a quella del razionalismo critico, ipotizzando la necessità di un nuovo realismo minimo (Eco, 2012), capace di non appiattire su un unico piano i diversi livelli della realtà, ma di lavorare per differenze e sovrapposizioni.

Una e più Rotonde, dunque.

Anzi la prima – se di prima all’interno di qualche ordine si può parlare – quella materialmente costruita su progetto di Palladio (che in realtà, per come è riportato ne I Quattro Libri dell’Architettura, ci mostra una ennesima, seppur di poco, differente Rotonda) risulta più vera proprio perché le altre concorrono a svelarne i valori intrinseci e a mostrarne le possibilità implicite, il non detto o quello che ancora rimane da dire.

Ma se finora abbiamo in un certo modo sostenuto, non condividendo le posizioni di un realismo eccessivamente ortodosso, che gli oggetti o meglio la loro interpretazione mutano in funzione del punto di vista di colui che li indaga, come possiamo concordare con Loos sul fatto che: «il Pantheon lo si può descrivere, le costruzioni della Secessione no»? Vale a dire: quanto contano i caratteri dell’oggetto in sé? E, per seguire Eco, esistono “cattive interpretazioni”?[9]

Seppure qualunque “buona interpretazione” sembrerebbe presupporre una sorta di adesione alla forma da interpretare, un certo senso di lealtà o, in altri termini, di onestà intellettuale nei confronti dell’oggetto indagato e al contempo del processo conoscitivo e della materia di studio – ammettendo quindi in alcuni casi anche la possibile falsificabilità dell’interpretazione stessa – rimane tuttavia da chiedersi quali siano gli elementi che permettono la descrivibilità di un’architettura o, viceversa, ne sanciscano la definitiva indescrivibilità e soprattutto se tale condizione sia o meno legata alla dimensione conoscitiva. Semplificando molto, se, come sostiene Eco, «ci sono delle cose che non si possono dire» perché questo non dovrebbe valere anche in architettura? E se, concordando su questo, ci chiedessimo se ci sono delle cose che non si possono fare, quale sarebbe la risposta?

Quando Rossi, citando Loos, parla della “descrivibilità” dell’architettura si riferisce non tanto a una pratica di cui è necessario apprendere i segreti per affinare le proprie capacità oratorie, quanto piuttosto a una qualità specifica del progetto – e quindi dell’oggetto in sé – che nella sua descrivibilità mostra l’appartenenza a un universo in qualche modo collettivamente condiviso e, dunque, universalmente conoscibile, all’interno del quale, secondo una visione forse ideale, ma certamente democratica, tutto (il contenuto architettonico) è a disposizione di tutti: il Partenone lo è, La Rotonda di Losey anche, forse quella di Tschumi meno, certamente quella di Palladio.

Cos’è l’architettura? La definirò forse con Vitruvio, l’arte del costruire? No. Vi è in questa definizione un cuore grossolano. Vitruvio prende l’effetto per la causa. Prima bisogna concepire per poter poi realizzare. I nostri avi hanno costruito le loro capanne solo dopo averne concepito l’immagine. È questa produzione dello spirito, questa creazione che costituisce l’architettura, che possiamo definire, di conseguenza, l’arte di ideare e portare alla perfezione un qualsiasi edificio. L’arte del costruire è dunque solo un’arte secondaria, che ci sembra di poter definire la parte scientifica dell’architettura. L’arte vera e propria e la scienza, ecco cosa crediamo dover distinguere nell’architettura.

In questo senso, sulla scorta di Boullée (1967, p. 50), pare che l’architettura non possa che affermare l’adesione a un procedimento rigoroso che, a partire da immagini conosciute, non demandi a strumenti di altro genere, se non a quelli architettonici, la propria figurazione e quindi la propria spiegazione. Ciò che cerchiamo non è tanto una descrizione puramente narrativa che tenti di cogliere l’esperienza nel suo stesso manifestarsi e neppure architetture descrittive che cerchino di mettere in forma la condizione sfuggente della realtà.

La ragione delle forme, la loro descrivibilità, pur nella pluralità delle interpretazioni, appartiene alla possibilità di dispiegarne il senso, raccontarne le ragioni e mostrarne i nessi – nel migliore dei modi possibili o, se così non fosse, in quello che ci è concesso.

Non voglio sapere tutto bensì saper riunire ciò che è spezzettato. È quasi certo che un’impresa del genere non possa riuscire. Ma la più piccola probabilità che possa riuscire giustifica di per sé ogni fatica[10].


Note



[1] «Ècfraṡi (o ècfraṡis; anche èkphrasis) s. f. [adattam., o traslitt., del gr. ἔκϕρασις, der. di ἐκϕράζω “esporre, descrivere; descrivere con eleganza”]. Nome che i retori greci davano alla descrizione di un oggetto, di una persona, o all’esposizione circonstanziata di un avvenimento, e più in particolare alla descrizione di luoghi e di opere d’arte fatta con stile virtuosisticamente elaborato in modo da gareggiare in forza espressiva con la cosa stessa descritta» (www.treccani.it).

[2] Cfr. I Re, 6, 1-38 e Ezechiele, 40-42.

[3] Come lucidamente nota Michael Jakob (2005, p. 223), il nitore del paesaggio goethiano si definisce in aperta opposizione con la visione estetizzante del parco romantico e dei suoi indomiti “costruttori”: «Il romanzo di Goethe assume […], per quanto riguarda il paesaggio, grande importanza, perché in esso vengono smascherate tutte le illusioni di una prassi esistenziale estetica. La struttura sperimentale delle Affinità elettive, vale a dire l’orientarsi della vita verso seduzioni paesaggistiche, rappresenta una “lente” straordinariamente precisa, in cui il culto del paesaggio viene messo sotto stretta osservazione. Il romanzo goethiano dispiega la costruzione di un paesaggio come decostruzione, demolizione di possibilità. L’estetizzazione molteplice della vita (leggere, scrivere, disegnare, progettare, costruire), che ha il suo coronamento nelle costruzioni di architettura del paesaggio, viene smascherata nel suo carattere contraddittorio».

[4] «Ho fatto delle “descrizioni”. Ecco tutto quello che so della mia critica. E “descrizioni” di che cosa? Di altre “descrizioni”, che altro i libri non sono. L’antropologia l’insegna: c’è il “drómenon”, il fatto, la cosa occorsa, il mito, e il “legómenon”, la sua descrizione parlata» (Pasolini, 1979, p. 457). 
A questa lucida descrizione del processo di riflessione sull’oggetto della critica ci si vuol riferire con il titolo del presente saggio, che intenzionalmente ricalca quello della raccolta postuma delle recensioni pubblicate da Pasolini sul settimanale “Tempo” tra il novembre del 1972 e il gennaio del 1975.

[5] «Mi occuperò quindi […] delle descrizioni per mettere in evidenza quello che può esser definito come il fine più generale dell’analisi del pensiero razionalista, cioè la realizzazione di una più ampia intellegibilità dell’architettura» (Grassi, 1967, p. 38).

[6] Cfr. Barbey D’Aurevilly J. (1869) – “L’Éducation sentimentale. Histoire d’un jeune homme par M. Gustave Flaubert”. Le Constitutionnel, 29 novembre 1869. «Flaubert ha inventato modi nuovi di descrivere; meglio ancora, ha introdotto la descrizione nello stile. Quella che un contemporaneo, Barbey d’Aurevilly formulava come un’accusa […] ci appare oggi come un’intuizione onesta, esatta, e come un omaggio a una delle più grandi trasformazioni imposte alla scrittura narrativa. Viene spesso citato il proposito di Flaubert: “vorrei scrivere un libro su nulla”. Su nulla, cioè su che cosa? Un libro dove l’esistenza coincida con la bellezza, dove la monotonia venga elusa ad ogni momento dalla variazione: un libro dove si trasforma la vita» (Bottiroli, 2002, p. XIX).

[7] Non tam reddere quam certare (Ermolao Barbaro).

[8] Nella trasposizione cinematografica del 1979 dell’opera di Mozart e Da Ponte, il regista Joseph Losey, con l’aiuto dello scenografo Alexandre Trauner, ambienta l’intera opera in edifici palladiani: «La scelta del regista di realizzare un film su un’opera, con tutti i mezzi del linguaggio filmico, di trovare un percorso in essa attraverso alcune importanti tappe simboliche e di inserire, quindi, le dirompenti azioni di Don Giovanni dentro questa griglia formale, di ambientare l’opera nel Veneto palladiano, silenzioso, composto, ma anche malinconico, un po’ sperso, produce il senso di un film che […] rispetto all’azione umana, apre uno sguardo complesso, che contempla anche la possibilità che certi fili vengano retti dal destino» (Colazzo, 2002, p. 66).

[9] «Se è principio ermeneutico che non ci siano fatti ma solo interpretazioni, questo non esclude che ci possano essere per caso interpretazioni “cattive”. […] Il vero problema di ogni argomentazione “decostruttiva” del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d’interpretazione […]. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico […] e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda? […] Di lì l’idea di un Realismo Negativo che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile […] ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette» (Eco, 2012).

[10] Canetti 1973, p. 55.


Bibliografia

BONFANTI E. (1970) – “Elementi e costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi”. Controspazio, 10 (ottobre).
BOTTIROLI G. (2002) – “Introduzione a Flaubert”. In: Flaubert G., L’educazione sentimentale, Einaudi, Torino.
BOULEE E.-L. (1967) – Architettura. Saggio sull’arte, Marsilio, Padova.
BRAGHIERI N. (2004) – “Tradurre, Trasmetter, Tradire”. Trans-late (Publikationsreihe des Fachvereins der Studierenden am DArc der ETH-Z), 12, 88-95.
CANETTI E. (1973) – La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano.
COLAZZO C. (2002) – Musica al cinema: l’opera, Giunta della Provincia Autonoma di Trento, Trento.
CORBELLINI G. (2016) – Lo spazio dicibile. Architettura e narrativa, letteraventidue, Siracusa.
ECO U. (2012) – “Il realismo minimo”. La Repubblica, 11 marzo 2012.
FABBRI P. e MARRONE G. (2001) – Semiotica in nuce. Volume II. Teoria del discorso, Meltemi Editore, Roma.
GRASSI G., (1967) – La costruzione logica dell’architettura, Marsilio, Padova.
GRASSI G., (1980) – “Il rapporto analisi-progetto”. In: Grassi G., L’architettura come mestiere e altri scritti, Franco Angeli, Milano.
JAKOB M. (2005) – Paesaggio e letteratura, Leo S. Olschki Editore, Firenze.
KRUFT H.-W. (1985) – Geschichte der Architekturtheorie von der Antike bis zur Gegenwart, München. Ed. it.: Kruft H.-W. (1988) – Storia delle teorie architettoniche. Da Vitruvio al Settecento, Laterza, Bari.
LOOS A. (1924) – “Von der Sparsamkeit”. Wohnungskultur, 2-3, 1924.
PASOLINI P.P. (1979) – Descrizioni di descrizioni, Einuadi, Torino.
ROSSI A. (1966), Lezione tenuta il 19.04.1966 allo IUAV, per il corso di Teoria della progettazione, a.a. 1965-66, dattiloscritto.
ROSSI A. (1968) – “Architettura per i musei”. In: Canella G., Coppa M., Gregotti V., Rossi A., Samonà A., Scimemi G., Semerani L. e Tafuri M., Teoria della progettazione architettonica, Dedalo, Bari.
ROSSI A. (1981) – A Scientific Autobiography, The MIT Press, Cambridge Mass.-London. Ed. it.: Rossi A. (1990) – Autobiografia scientifica, Pratiche Editrice, Parma.
SAVI V. (1976) – L’architettura di Aldo Rossi, Franco Angeli, Milano.
SOUTO DE MOURA E. (2012) – Souto de Moura. Au Thoronet, le diable m’a dit…, Parenthèses, Marseille.
(Treccani.it) [online]. Disponibile a: http://www.treccani.it/vocabolario/ecfrasi/ [Ultimo accesso 1 maggio 2018].
TSCHUMI B. (1996) – Architecture and Disjunction, The MIT Press, Cambridge Mass.-London. Ed. it.: Tschumi B. (2005) – Architettura e disgiunzione, Pendragon, Bologna.
WITTKOWER R. (1962) – Architectural Principles in the Age of Humanism, Alec Tiranti, London. Ed. it: Wittkower R. (1964) – Principî architettonici nell’età dell’Umanesimo, Einaudi, Torino