Ignazio Gardella e Luigi Vietti (passando da Aldo Rossi).
Una prima ipotesi interpretativa

Enrico Prandi



Tra le molte collaborazioni che Ignazio Gardella può annoverare nell’arco della sua lunga carriera professionale, figura anche quella con Luigi Vietti, architetto novarese della sua stessa generazione.
Luigi “Gigi” Vietti, classe 1903, condivide con Gardella, nato nel 1905, una convinta adesione al Razionalismo di matrice lombarda, nonché l’ambito geografico di formazione e appartenenza culturale, il capoluogo lombardo ed in particolare il Politecnico di Milano a cui entrambi si iscrivono attorno al 1922/24, (Vietti alla Scuola di Architettura, Gardella alla Scuola di Ingegneria). Per destino, inoltre, entrambi vivono appieno tutta l’architettura del Novecento attraversandone, stili, movimenti e tendenze, arrivando ad affacciarsi alle soglie del XXI secolo (Vietti morirà nel 1998, Gardella nel 1999) senza, tuttavia oltrepassarlo.
Entrambi si laureeranno nel 1928, Gardella a Milano, Vietti, dopo un trasferimento avvenuto nel 1925, alla neonata Scuola di Architettura di Roma guidata da Gustavo Giovannoni e, molto giovani, nel caso di Vietti ancora da studente, affrontano le prime prove progettuali fino a quel primo certo incontro del 1934 che li vedrà collaborare su un tema classico del periodo come quello della Casa Littoria o Casa del Fascio nel caso del progetto di concorso per il Teatro e la Casa Littoria a Oleggio, Novara (1934).
Tra la laurea e la Casa del Fascio di Oleggio si colloca per entrambi la partecipazione alla V Triennale di Milano del 1933, in cui Gardella espone gli oggetti di arredamento, mentre Vietti parteciperà con il gruppo dei razionalisti genovesi (Robaldo Morozzo della Rocca, Eugenio Fuselli e Luigi Carlo Daneri) con due opere significative come La stamberga dei 12 sciatori e la Casa a struttura d’acciaio nota anche come Casa alta genovese.
Ma torniamo ad un imprinting culturale derivante dalla comune formazione. È del 1927 la fondazione del “Gruppo sette” da parte di un gruppo di ex studenti-architetti del Politecnico di Milano, Luigi Figini e Gino Pollini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava, Giuseppe Terragni e Ubaldo Castagnoli, sostituito l’anno dopo da Adalberto Libera, il gruppo fu costituito ufficialmente solo nel 1930, con il nome MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) a cui Vietti partecipa all’organizzazione pur senza aderirvi ufficialmente. Contemporaneamente mantiene i collegamenti con il CIRPAC, organismo internazionale incaricato di allestire e preparare i CIAM a cui parteciperà attivamente con la delegazione italiana formata da Piero Bottoni e Gino Pollini al III congresso di Bruxelles.
Da quel primo ceppo lombardo (Vietti ricorderà sempre l’amicizia sincera con Figini e Pollini e quella più difficile con Giuseppe Terragni) Vietti si discosterà entrando in contatto con l’ambiente romano dapprima, in cui conoscerà Tullio Rossi che farà parte con Vietti al gruppo di progetto dell’EUR e Michele Busiri Vici suo compagno nell’avventura della successiva progettazione della Costa Smeralda, ma anche Gustavo Giovannoni che da Direttore della Scuola di Architettura lo introdurrà nell’ambiente dell’esposizioni romane (Esposizione di Architettura Razionale) e che lo indirizzerà successivamente (indicandolo al Ministero della Pubblica Istruzione che lo incaricherà di studiare l’applicazione delle leggi a tutela e protezione panoramica e paesistica nominandolo successivamente Direttore della Sovrintendenza alle Belle Arti per la sezione Regione ed Ispettore onorario per la Liguria) verso il gruppo dei razionalisti genovesi, con cui collaborerà sia in alcuni progetti per la città ligure che in occasione dei progetti per la V Triennale.
E giungiamo al 1934 anno in cui Gardella e Vietti si incontrano per la progettazione della Casa del Fascio di Oleggio, dopo che Gardella aveva partecipato al concorso per la torre littoria in piazza Duomo a Milano, e Vietti aveva realizzato la Casa del Fascio di Intra. Opere contemporanee, inoltre, sono il dispensario antitubercolare di Alessandria per Gardella e il progetto di 1 grado per il Palazzo del Littorio di Roma (con Carminati, Lingeri, Terragni, Saliva, Nizzoli e Sironi) per Vietti.
Non vorrei in questa sede analizzare il comune progetto di Oleggio, ma piuttosto riflettere di costanti tra i due architetti nel solco della ricerca in atto Ignazio Gardella, altre architetture, le cui tematiche proprie, ed in particolare l’analisi degli interni, degli ambienti, dell’abitare, ci permettono di avanzare alcune ipotesi critiche.
Compagno di scuola di Gardella è Luchino Visconti, mentre compagno di scuola di Vietti è Giuseppe Terragni. Aldo Rossi nella sua “Testimonianza” su Gardella (in L’architettura di Ignazio Gardella, a cura di Marco Porta, pp.66-67) sostiene che “Togliendo Ignazio Gardella da tanti luoghi comuni, privilegio concesso comunque al “testimone”, bisogna vedere nelle sue opere un “sentimento” dell’architettura che si sviluppa in modo prepotente. Per capire cosa sia questo “sentimento” possiamo avanzare un confronto, che giustamente è caro a Gardella, con Luchino Visconti. Non è certo un riferimento di maniera alla cultura lombarda ma proprio un confronto di tempi, di situazioni e di carattere. Per quanto valga il confronto tra cinema e architettura, che comunque voglio qui portare avanti, vi è fondamentalmente in questi due artisti la propensione ad abbandonare ciò che sarebbe loro più congeniale per dare alla loro opera un fondamento generale e proprio in questa propensione, a volte velleitaria a volte positiva, finiscono per essere sempre sé stessi. Ma questo essere sempre sé stessi coincide con un progresso imprevisto dell’opera. Ho sempre pensato, e presupposto, che Luchino Visconti doveva vivere un interesse enorme per i films di Lattuada (indipendentemente dal giudizio che poteva darne e che non conosco): perché Lattuada attraverso una cronaca deformata, morbosamente e insistentemente deformata, offriva quello che Visconti poteva fare meglio e non voleva fare. (Penso, incidentalmente che sia stata una scoperta di questo tipo a rendere tanto interessanti i primi films di Antonioni). Visconti ci ha insegnato che solo un obiettivo più grande, più generalmente impegnato con la cultura del suo tempo, poteva elevare il cinema, non solo il suo, e ritrovare un’autentica descrizione della realtà. L’obiettivo ambizioso di “Senso”, il carattere nazional-popolare di una nuova cultura italiana (che pur si frammenta anch’esso nella morbosità di un piccolo ambiente aristocratico-borghese) libera l’artista dai suoi stessi affetti. E Gardella? Ignazio Gardella realizzerà tutto questo nella Casa alle Zattere a Venezia. Pochi sono i monumenti dell’architettura moderna; pochi soprattutto quelli che hanno un significato che va oltre la loro qualità tecnica. L’Italia del dopoguerra, pur nella generale distruzione o nell’accanimento della ricostruzione, ne vede sorgere alcuni. Certamente due a Milano: il Monte Stella di Piero Bottoni e la Torre Velasca dei BBPR. […] Anche i BBPR, e con loro il genio di Ernesto N. Rogers, arrivano per vie diverse alla grande opera, la Torre Velasca. Ed essa sorge e lasciando dietro di sé ogni mediocre finezza dell’architettura ed essa stessa non si cura dei propri dettagli sicura aver trovato la strada della grande architettura. Insieme a queste a lettura comune, si pone la Casa alle Zattere. Ignazio Gardella, ancor prima di affrontare quest’opera, poteva vivere tranquillamente della sua gloria giovanile: alcune sue opere erano monumenti consacrati mentre il nuovo spirito dei tempi era da lui colto in equilibrati arredamenti e in oggetti, oggetti ricchi di materiale e di ricordi. Il mondo degli architetti lombardi (o più semplicemente e restrittivamente milanese) gli è relativamente estraneo. Direi che da un lato vi è il professionalismo attento di Albini, dall’altro il disincanto di Caccia Dominioni; due architetti altamente rappresentativi nella loro differenza. Tra questi, Gardella sembra possedere le virtù di entrambi ma non compiere una scelta; indubbiamente una scelta tra queste due strade sarebbe stata una limitazione. E vi sono tempi in cui l’artista avverte che la limitazione non è sicurezza, approfondimento; ma si tramuta in una perdita.”
Ma la parte più interessante, la leva che vorrei utilizzare per dipanare l’intreccio tra le due figure principali dell’articolo, è quella di un confronto di tempi, di situazioni e di carattere, come sostiene Aldo Rossi, resa evidente soprattutto nel caso degli interni (e non penso solo a quelli di Gardella esplicitati dalle immagini inedite che sono pubblicate in questa sede, ma soprattutto a quelli di Vietti).
Prosegue Rossi: “Adesso, riprendendo il discorso parallelo al cinema, vorrei tornare a quanto ho detto della relazione Visconti e Lattuada. Sto pensando agli interni, o meglio all’architettura di Luigi Vietti che se non sbaglio ha circa gli anni di Gardella. Intanto sarebbe interessante studiare insieme Lattuada e Vietti e un certo loro mondo che si svolge tra le case di vacanza (Versilia, Brianza, Cortina); anzi una casa di vacanza di Luigi Vietti è lo sfondo di un famoso film di Antonioni. (Anche questo mondo non è estraneo all’esperienza di Gardella; si pensi ad Arenzano). Mi sembra che attraverso tutte queste osservazioni il richiamo a Vietti emerga chiaramente ed emerga anche il mio interesse per questo architetto; perché, oltre ad essere bravo, ha saputo dare un’immagine incontestabile alla borghesia lombarda, o italiana. Credo che pochissimi architetti abbiano raggiunto questo in Europa e in America. E anche questo poteva essere una tentazione (o forse lo è stata) di Ignazio Gardella.”
Pur nella sinteticità della testimonianza, che è una delle più brevi del libro su Gardella, estemporanea per diretta ammissione del suo autore, Aldo Rossi, lo scritto ci pone di fronte alcune tematiche che paiono molto promettenti per la verifica dei parallelismi possibili. Tra questi, oltre ai già accennati di ordine biografico, geografico culturale, e via dicendo, vi è sicuramente quello della relazione architettura e cinema, ossia di ciò che il cinema (ma sarebbe meglio parlare dei singoli registi) ha voluto dire attraverso l’architettura nella chiave della scelta degli edifici, delle parti di città o degli interni, in cui sono state collocate le storie. Ecco allora che Michelangelo Antonioni (affiancato da Ennio Flaiano e Tonino Guerra) per il suo film “La notte” (1961) sceglie la Milano delle grandi trasformazioni verso la modernità internazionale, quella del Grattacielo Pirelli in cui i protagonisti, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, si rispecchiano a bordo di una anch’essa modernissima Alfa Romeo Giulietta, o ancora quella della Torre Galfa di Melchiorre Bega, che con il Pirelli di Gio Ponti condivide un’adesione decontestualizzata all’architettura di vetro modernista (stile curtain wall). Gli stessi protagonisti del film, in crisi coniugale, abitano in un’architettura urbana tra le più moderne ma anche tra le più simboliche nell’aver sostituito l’area della Casa dei Panigarola, dove si trovavano gli affreschi di Bramante, conservati alla Pinacoteca di Brera, i cui interni sono severi e algidi. Si tratta dell’edificio per uffici e abitazioni per la dirigenza della Società Italiana Ferrotubi, realizzato nel 1951 da Asnago e Vender in Via Lanzone, mentre come “casa di vacanza” viene scelta proprio una “villa” di Luigi Vietti, luogo del loisir per eccellenza, nella fattispecie la Club House del Barlassina Country Club che Vietti realizza nel 1958 per la famiglia Rizzoli, in cui si svolge la festa della famiglia Ghirardini (un ingegnere che parla fluentemente il francese intercalandolo all’accento milanese e che pensa alle sue imprese industriali come opere d’arte) e in cui nel film avviene un’incursione nella realtà dei fatti. Giuseppe Pontano, scrittore di successo e intellettuale milanese, chiede all’ingegnere padrone di casa:
“Chi ha costruito questa villa?” E l’ingegnere risponde:
“Il Vietti, le piace?” E più avanti sempre Pontano dice rivolgendosi all’ingegnere:
“… voi industriali avete il vantaggio di fare i vostri racconti con le persone vere, le case vere, le città vere, … il ritmo della vita è nelle vostre mani, il futuro è nelle vostre mani”.
Traspare dai dialoghi, non di meno che dalle ambientazioni, una fiducia nei confronti della borghesia industriale, quella che costruisce i sogni di ricchezza: l’“immagine incontestabile della borghesia lombarda o italiana” di cui parla Rossi è quella di Milano e della Brianza, di Cortina, della Liguria, (anche di Arenzano) o della Costa Azzurra o della Costa Smeralda, e i suoi protagonisti committenti sono le famiglie di imprenditori che si dividono tra azienda e piaceri familiari (in cui ci sta anche la festa per la prima vittoria del cavallo Wolfango): i Rizzoli, i Mondadori, i Melotti, i Barilla, i Marzotto, i Brion, gli Zoppas, i Falck, i Piaggio, i Riello, i Berlusconi, i Borsalino, ma anche quelle più illuminate e vicine agli intellettuali e alla cultura, come i Cini e gli Olivetti. Di queste, Gardella e Vietti, insieme a pochi altri, sono stati i costruttori dei loro ambienti e delle loro architetture.
Proseguire, quindi, su questo registro che vede i due personaggi condividere ben più di qualche sporadica analogia sembra la strada corretta.
Del resto, già all’inizio dell’impostazione scientifica delle ricerche in atto al CSAC, e discusse all’interno del Settore Architettura, si andava profilando un parallelismo tra la chiave critico-interpretativa già seguita nel caso di Ignazio Gardella (quella che Alberto Samonà delinea nel suo libro Gardella e il professionismo italiano) e quella possibile che avanzavo come ipotesi per la lettura di Luigi Vietti appena intrapresa.