Il racconto dell’abitare mediterraneo. Narrazione e progetto nell’ideario architettonico pontiano.

Lucia Miodini



Narrazione e culture del disegno

I disegni di architettura non sono soltanto un importante patrimonio archivistico per ricostruire l’iter progettuale, ma costituiscono un materiale prezioso per individuare nella raffigurazione delle opere architettoniche diverse forme di ‘narrazione’. Considerando il materiale progettuale da quest’ottica, l’attenzione si sposta alle differenti iconologie del disegno, ai metodi e alle tecniche di rappresentazione grafica. 

Prenderò in esame un episodio esemplare: il progetto dell’abitare ‘mediterraneo’, immaginato e creato da Ponti nella seconda metà degli anni Trenta. Questi disegni esprimono in maniera integrata le diverse fasi dell’iter progettuale e comunicano il processo ideativo[1].

L’individuazione della preferenza per una determinata forma di presentazione del progetto, lo studio dei metodi di figurazione e l’esame delle scritture sono indispensabili premesse metodologiche per comprendere i differenti modelli culturali e il proposito intellettuale dell’autore, e per intendere, infine, il complesso sistema di rapporti tra il progettista e la cultura visuale del suo tempo. 

Lo stile di rappresentazione, il formato, il segno grafico sono testimonianze delle intenzioni intellettuali dell’autore. «Attraverso l’interpretazione delle tecniche, dei tagli, dell’uso della luce è possibile ripercorrere l’atteggiamento ideologico e culturale sia dei singoli autori sia delle scuole di pensiero» (Magnago Lampugnani 1982).  Fabio Lanfranchi (2008) distingue tra prosa e poetica: alla prima apparterrebbe la rappresentazione canonica e convenzionale, mentre la raffigurazione architettonica poetica assumerebbe un proprio lessico, una propria metrica. Il disegno utilizzato poeticamente comunicherebbe gli aspetti ideali del progetto, come quelli emozionali presenti nel momento ideativo. «Ora, sebbene il momento figurativo della rappresentazione definita poetica, viene ad inquadrarsi, a tutti gli effetti, nella fase progettuale “comunicativa”, tuttavia, esso trova i propri riferimenti nell’antecedente fase “ideativa”» (Lanfranchi 2008). 

Ritengo, tuttavia, che gli esiti formali di questo tipo di rappresentazione debbano essere inquadrati in un ambito comunicativo a fini divulgativi. Reputo altresì che il campo di applicazione non possa limitarsi al processo progettuale, ma si debba estendere alla comunicazione dell’architettura rivolta a ipotetici abitatori e utilizzatori, e, più in generale, ai lettori e alle lettrici delle riviste di settore, ma non solo. 

Nel caso di Ponti, si può anzi affermare, che la fase ideativa e quella comunicativa in gran parte coincidano, tanto più che la redazione di «Domus» e lo studio di architettura sono un solo luogo e un’unica fucina d’idee. 

Il progetto domestico mediterraneo quale emerge dall’osservazione dei disegni conservati nel Fondo Giò Ponti del CSAC e dalla lettura delle tavole pubblicate su «Domus» è un caso studio esplorativo e al contempo di verifica, in cui l’affinità strutturale fra la narrazione e la rappresentazione dell’architettura emerge quale elemento caratterizzante il processo creativo.

Nel percorso progettuale di Ponti, nel suo “ideario” dell’architettura, la mise en page del progetto mediterraneo, dalle scritture grafiche del disegno alle sequenze fotografiche, al commento testuale, fa risaltare inattese corrispondenze tra testo architettonico e immaginario letterario. La dimensione narrativa ha una funzione chiarificatrice nelle differenti fasi progettuali, dall’ideazione alla formalizzazione grafica, al dialogo tra l’immagine della struttura e il suo commento testuale nella comunicazione editoriale. Ponti possiede una raffinata capacità di riferirsi a competenze e ambiti diversi, dalla fotografia all’arte contemporanea, dalla letteratura all’antropologia, così che il disegno e la fotografia, seppure nella diversità delle scritture, trascrivono la ritualità e convivialità dell’abitare mediterraneo, in una corrispondenza tra metodi e strumenti della rappresentazione. 

Il suo approccio, che potremmo definire metadisciplinare, nasce da un’ampia visione dei modi di essere e abitare, delle sue premesse teoriche e dei suoi rituali.

Nei disegni per l’Albergo nel bosco all’isola di Capri, studiato in collaborazione con Bernardo Rudofsky nel 1937, e nei progetti di case al mare ideati da Ponti negli anni Trenta e nel primo lustro del decennio seguente, emerge il nesso imprescindibile tra processo creativo e racconto.

Il progetto “mediterraneo” pontiano è l’espressione di un’architettura dell’altra modernità che evidenzia «una più ampia, meno funzionalistica e deterministica razionalità, capace di accogliere l’elaborazione di temi simbolici e di produrre riferimenti solidi per l’immaginario collettivo» (Crippa 2007, p. 20). 

 

Immaginare il Mediterraneo

L’ordine del discorso, parlando di architettura mediterranea, è una forma di narratività[2]. Una formulazione linguistica e visiva la cui genealogia è stata attentamente ricostruita nel recente dibattito critico. Negli interventi di autori e autrici che si sono interrogati sulle diverse e talora contrastanti enunciazioni del discorso, impegnati a decostruire l’elaborazione e la produzione dell’ambigua nozione di Mediterraneo, hanno certamente pesato i contributi teorici di Fernand Braudel (1949), Predrag Matvejevic (1987) e David Abulafia (2003). Il Mediterraneo è stato interpretato su due piani, uno storico-empirico e uno simbolico-iniziatico[3]. Piani però difficilmente separabili, dacché l’uso della mitologia e dei racconti onirici unisce in una sola trama ciò che è reale e ciò che è immaginario. Nell’ultimo lustro abbiamo poi assistito a un incremento di studi e convegni che hanno affrontato le tante questioni relative alla costruzione culturale del “mito”.

La suggestiva, e più volte citata, definizione di Fernand Braudel ― «il Mediterraneo è mille cose insieme, non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi, non un mare, ma una successione di mari, non una civiltà ma successive civiltà accatastate una sopra l’altra» ― che ancora oggi, a quasi settant’anni dalla sua prima pubblicazione, ci induce a riflettere sulla geopolitica di questo spazio, è ripresa e attualizzata da studiosi e studiose convinti, come ha affermato Walter Benjamin, che «la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità'»[4]. Così, ad esempio, nell’introduzione al convegno Immaginare il Mediterraneo, leggiamo: «nel corso del XX secolo, nell’enclave mediterranea, in luoghi una volta mitopoietici e oggi tragicamente bagnati da un “bacino di morte” si sono materializzate in varie occasioni vere e proprie isole esperienziali, non necessariamente coincidenti con una loro connotazione strettamente geografica»[5]

Sgombrato il campo da ambiguità semantiche, che cosa significa realmente il termine concettuale ‘il Mediterraneo’, a cui si ricorre per caratterizzare fenomeni della rappresentazione artistica? E, una volta riconosciuta — con Fernand Braudel — la legittimità dell’assunzione della “civiltà del Mediterraneo” come oggetto di analisi storica, facendo nostro il quesito che aveva posto Benedetto Gravagnuolo (2010), ci chiediamo se è possibile individuare una cultura mediterranea dell’abitare?

Una prima considerazione: i luoghi non hanno senso né valore in sé, assumendo di volta in volta i contorni delimitati da un sistema di credenze coessenziale all’ambito storico-culturale di riferimento. Il paesaggio è uno spazio prodotto tanto dell’esperienza quanto della capacità di leggere il luogo come sistema di segni[6]. È un racconto, una forma di scrittura, un deposito dell’immaginario. 

E, in questo immaginario, Capri è un’esemplare costruzione testuale e visiva. È il luogo di una consolante “utopia” mediterranea, un idilliaco ambiente paesaggistico, dove le preesistenze architettoniche interagiscono con le arti visive e la cultura letteraria. E l’interpretazione lirica della cultura autoctona si associa a una rinnovata semantica del popolare e della tradizione. 

Negli anni Venti e Trenta, l’interesse per l’architettura minore, spontanea o vernacolare, al centro di un intenso dibattito, contribuisce alla risemantizzazione culturale del “mito” mediterraneo. Gli esponenti del razionalismo tendono a riconoscervi i parametri cui ricondurre il moderno linguaggio architettonico, i tradizionalisti puntano a rintracciarvi le forme cui ispirarsi nella ricerca di un nuovo stile basato sulla tradizione costruttiva italiana. 


Per tutti gli anni Venti il mito dell’edilizia caprese – assurta a categoria a sé ed erroneamente disgiunta dal contesto dell’architettura rurale del più generale ambito del napoletano cui appartiene – assume importanza centrale nell’ambito della cultura architettonica nazionale, con qualche eco anche sulla stampa estera. Per un verso, lo studio della sua edilizia tradizionale spontanea, a cui ben si saldano gli attributi di sincera, razionale, essenziale, emblema di quella vagheggiata «mediterraneità», appassiona molti giovani architetti, convinti di poter trovare sul suolo nazionale le più antiche radici della modernità (Mangone 2015). 

Un ruolo fondamentale svolgono nel dibattito sulle origini mediterranee dell’architettura moderna le riviste di settore[7]. Gio Ponti nelle pagine di «Domus» ospita interventi sull’architettura rurale e contributi al dibattito sulla ‘mediterraneità’[8]. Dà spazio alla querelle tra Luigi Figini e Carlo Enrico Rava[9]. Quest’ultimo spiega al lettore della rivista che sua intenzione è identificare «nelle architetture attuali di ogni paese i caratteri mediterranei», anche nell’architettura coloniale contemporanea, considerata un aspetto del più generale problema dell’architettura moderna. 

Nel giudicare i progetti per la sistemazione architettonica di una delle maggiori piazze di Tripoli, Rava sentenzia, infatti, in accordo con la giuria esaminatrice, che gli edifici devono “riaffermare, in colonia, l’impronta stilistica del dominio imperiale di Roma”[10]. E sono le tracce di tale dominazione «nelle nostre colonie mediterranee» che Rava s’impegna a rintracciare, individuando anche nelle case arabe l’eredità della «razionalissima pianta classica dell’antica casa romana». 

Sulla sponda sud del Mediterraneo, il retaggio romano rivive nello spirito mediterraneo dell’architettura razionalista; sulle coste italiane, l’ispirazione mediterranea nell’architettura rustica, di quella caprese, peculiarmente, intrisa di citazioni letterarie e pittoriche, permea l’architettura della casa al mare. Possiamo considerare l’architettura coloniale come il controtipo del progetto domestico mediterraneo. Sono narrazioni e discorsi apparentemente contrapposti, ma in realtà complementari. 

Federico Portanova, sulle pagine di «Domus», ricollega l’architettura caprese a una tradizione antichissima, pelasgica ed ellenica. E avverte il lettore che quelle forme architettoniche, nonostante gli stili delle epoche che si sono succedute nel tempo, «sono sempre classiche, se per classico s’intende quella compiutezza artistica che permette ad un’epoca di raggiungere il massimo equilibrio della propria espressione e di farsi comprendere da tutte le altre» (Portanova 1934, p. 58). Per meglio chiarire questo parallelismo l’autore ricorre all’analogia tra l’architettura spontanea caprese e l’improvvisazione di un canto popolare «di cui ha tutta la spontanea freschezza, la potenza del sentimento, quasi anche l’anonima paternità, pure obbedisce a criteri così logici che la fa essere, senza che per nulla lo proclami, di una razionalità del tutto consona alle esigenze dei tempi nostri» (Portanova 1934, p.59). 

Le fotografie pubblicate, una casa greca nell’isola di Santorini, due case rustiche alla marina di Capri, due progetti di Adolf Loos, sono un’efficace sintesi visiva della genealogia ‘mediterranea’ dell’abitazione moderna (Portanova 1934, p.58).  Come ha bene evidenziato Gravaguolo (1994, 2010), la mediterraneità in campo progettuale è riproponibile, o almeno è sempre stata proposta solo mediante una trasfigurazione, dalla riscoperta settecentesca del goût grec, ai viaggi al sud di Karl Friedrich Schinkel, al quale va attribuito il primo riconoscimento dell’antica ed autentica cultura mediterranea del costruire, agli studi sull’architettura vernacolare di Josef Hoffmann e Adolf Loos (Sabatino 2010, Strappa 2004). 

Quanto abbia contribuito alla riscoperta del Mediterraneo, l’esperienza del viaggio nel sud d’Italia di pittori e architetti nordeuropei è stato oggetto di approfonditi studi [11]. Anche per l’architetto austriaco Bernard Rudofsky, figura chiave nel racconto dell’abitare mediterraneo pontiano, l’area del Mediterraneo rimane il principale riferimento, tanto più a seguito dell’importante esperienza della permanenza negli anni ’30 a Napoli, Capri, Procida e Positano (Como 2017), e all’incontro con Luigi Cosenza[12].


«Case semplici per i giorni di riposo e di vacanza»

Fin dagli esordi «Domus» s’inserisce nel dibattito sulle origini latine e mediterranee dell’abitazione moderna. Il progetto pontiano della casa all’italiana, che recupera elementi della domus pompeiana adattata all’edilizia privata, è tanto la costruzione culturale di un “mito” quanto la ricerca di un ideale carattere autoctono dell’architettura domestica. Nella sua definizione dell’abitare moderno confluiscono la dimora latina che bene si coniuga con gli elementi del razionalismo moderno, gli esempi della casa di campagna inglese e l’architettura austriaca contemporanea (Miodini 2001, 2017). Nell’edilizia spontanea del bacino del Mediterraneo Ponti scopre forme più italiane e tradizionali, ma anche la rispondenza allo stile di un nuovo modo di abitare, aggiornando la tipologia della casa di vacanza. La casa alla pompeiana, pubblicata su «Domus» nel 1934, è «l’esempio di una casa, che, accanto a un buon funzionamento e a una costruzione non molto costosa, avvicini pure ciò che il nostro spirito vagheggia: essa si svolge, alla pompeiana, attorno a un cortile aperto su un lato, disposizione oltremodo bella e intima che deve tornar consueta e che Italiani debbono ancora amare» (Ponti 1934, p. 18). Scrive Ponti: «le nostre case di campagna debbono rispondere a caratteristiche del tempo nostro: l’amore per il moto e l’aria, e la voglia di evadere dalle preoccupazioni quotidiane, cioè la sete di vita poetica: esigenze della vita fisica, esigenze della vita spirituale». E, qualche anno dopo, avverte in un editoriale che «la casa è il nostro essenziale, individuale possesso, regno della famiglia, luogo della più completa felicità leggere “Domus” non significa solo ricercare suggerimenti pratici per la casa, significa anche aderire all’espressione italiana di un concetto di vita più civile e conferire forza sempre maggiore, all’organo nazionale nel quale è rappresentata la produzione più scelta dell’arte e dell’ingegno italiani. […] avete constatato gli sforzi per rendere più accurata, documentaria e incitatrice la nostra pubblicazione» (Ponti 1936, p. 25).

La ricerca tipologica della casa di vacanza è affrontata in modo sistematico da Ponti fin dalla seconda metà degli anni Venti. Dalla casa di campagna, dove propone nuove soluzioni abitative mediando lo studio del Serlio e del Palladio, condotto in primo luogo sui trattati, con l’interesse per la casa pompeiana e l’architettura domestica anglosassone (Miodini 2001, p. 54) alle proposte di case al mare della seconda metà degli anni Trenta, si delinea la storia di una tipologia, la casa delle vacanze, tema, non a caso, di un concorso bandito in occasione della IV Triennale. Le tipologie architettoniche per il tempo del loisir accompagnano sia l’evoluzione del turismo, dalla villeggiatura alla vacanza, sia le trasformazioni spaziali dei luoghi, definendo le coordinate della distinzione sociale del turismo moderno.

Turismo e villeggiatura sono alla base di fenomeni fondamentali dell’architettura e dell’urbanistica dell’Ottocento e del Novecento. Emergono come tema fondamentale e ricorrente la costruzione e il consolidamento degli immaginari dei luoghi turistici, influenzati dalla perdurante tradizione del Grand Tour e dalla letteratura odeporica (Mangone 2015, pp. 9-11).

La tradizione locale espressa nell’architettura rurale caprese risponde, leggiamo su «Domus», «alle esigenze di una vita orientata verso la campagna, con case semplici, per i giorni di riposo e di vacanza, le cure naturali o le occupazioni della terra» (Portanova 1934, p. 58).  E Maria Teresa Parpagliolo, dedicando un articolo al giardino di Casa Orlandi ad Anacapri, annota: «L’origine di molte delle più belle ville classiche si deve alla borghese abitudine di lasciar la città nei mesi estivi per ritirarsi nei dintorni più ameni per dilettarsi di una vita semplice piena di occupazioni campagnole. Casa Orlandi ad Anacapri ha terrazze prospicienti il mare, pergolati per l’ombra, il giardino, intorno alla casa, con il roseto, un agrumeto con l’orto, il frutteto, un giardino di fiori, viti e pergolati, e l’oliveto che si estende tutto intorno[13]. L’articolo è illustrato da fotografie di casa Orlandi e scene di vita ‘caprese’, alle quali bene s’attaglia la descrizione di Capri che Fernand Gregorovius ci consegna nei suoi Ricordi storici e pittorici d’Italia (1865). Allo storico tedesco «tutte quelle casette paiono sede della felicità, della tranquillità, di vita solitaria e romita», e nell’isola «è d’uopo vedere queste belle fisonomie [delle donne di Capri], riunite in gruppi, o contemplarle quando scendono dalla montagna portando sul capo brocche d’acqua di forme antiche»[14]

Se s’avverte una continuità nella ricerca tipologica, seppure nelle diverse soluzioni formali risultante di un complesso processo di interpretazione critica, innovativi sono l’iconografia del disegno d’architettura e la forma di presentazione del progetto. La prima fase che dà forma alla evocazione mediterranea è lo studio planimetrico delle piantagioni esistenti e delle migliori vedute sul paesaggio. Il metodo più esemplificativo di rappresentazione grafica dell’architettura mediterranea è il disegno della pianta «con indicazione topografica dei vari modi d’abitare suggeriti dall’ambiente marino» (Irace 1988, p. 142) e l’intricata rete di prospettive interne. Ne è un esempio la pianta di villa Marchesano a Bordighera (1937-1938) pubblicata su «Domus», stampando sovrapposti due lucidi, conservati nel fondo Ponti del CSAC, la pianta e un disegno con le sole figure e visuali. Nelle poetiche didascalie leggiamo: «chi siede accanto al fuoco vede il mare oltre la finestra del patio e le ante dipinte dell’armadio». Il progetto esprime l’indissolubile continuità d’ambiente tra il paesaggio esterno e l’interno della casa: una continuità ottenuta non soltanto coll’aprire nelle fronti a mare numerose e ampie finestre, ma altresì con una serie di accorgimenti che consentono di godere la vista del mare anche dai locali più interni dell’edificio. Una casa che Ponti ha voluto rientrasse nel carattere del paesaggio. E gli aspetti del paesaggio, da questo momento, rientrano tra gli elementi del disegno d’architettura.

Un progetto che, per citare Rudofsky, suggerisca non un nuovo modo di costruire ma un nuovo modi di vivere. Nelle case-stanze dell’Albergo a Capri, i cui primi studi risalgono al 1937, rinveniamo numerosi riferimenti all’edilizia spontanea caprese che sembra riassumere, negli anni Trenta, le caratteristiche dell’abitazione ideale «di una perfetta valitudine fisica, in una continua esaltazione di gioia, vivendo in gran parte all’aria aperta, il più vicino alla natura, fruendo delle medicine naturali dell’aria, del sole e del mare in un continuo esercizio fisico, a cui il mare stesso, la roccia e i campi offrono magnifica palestra alternando la contemplazione all’attività». S’intrecciano in queste parole le suggestioni del luogo, trasmesse nel repertorio pittorico e letterario, il culto del corpo e i rituali della sana vita all’aria aperta, esito dei prodromi della biopolitica moderna[15].

Il paesaggio parte integrante dell’ambiente domestico si avvia a diventare bene culturale di consumo, luogo ideale. Il paesaggio è fabulazione, metafora del sogno: «in questa chiave il progetto di paesaggio è un dispositivo di simulazione d’idee e riferimenti fuori della percezione ordinaria dello spazio e del tempo […]  il territorio diventa paesaggio in ragione dell’esperienza visiva che ne fa un osservatore: è questo che riconosce l’entità geografica del territorio come entità estetica e culturale, quindi come paesaggio» (Metta 2008). 

Esempi, negli anni Trenta, di architetture ‘paesaggistiche’, sono i progetti ideati da Bernard Rudofsky e Gio Ponti (Condello 2017, p. 345). I destinatari delle case al mare e gli ospiti dell’Albergo a Capri sono i lettori e le lettrici di «Domus», abitatori dell’ideale casa mediterranea. Vale ricordare che la redazione della rivista diretta da Ponti e il suo studio d’architettura svolgono ruoli complementari, funzionali alla medesima politica progettuale.

 

Architettura nel paesaggio, architettura del paesaggio

L’architettura spontanea caprese ‘sentirebbe’ i suggerimenti dell’ambiente naturale e si uniformerebbe alle esigenze di chi deve abitarvi, alle necessità di adattarsi alla conformazione del suolo e alle possibilità naturali. Capri è un campo di sperimentazione architettonica e la sua architettura autoctona «guadagna un posto importante nella riflessione dapprima europea e poi italiana [e] il suo territorio diventa un ambito e privilegiato luogo di sperimentazione di linee peculiari, e talora d’avanguardia, la sua peculiare conformazione solleva questioni di ampio respiro che riguardano il rapporto tra architettura e paesaggio» (Mangone 2015, p.237).

Un preciso e imprescindibile punto inziale, nella riscoperta dei caratteri tipici del paesaggio e in difesa sia dell’architettura rurale caprese sia del paesaggio dell’isola, è il Convegno sul Paesaggio concepito e organizzato da Edwin Cerio (1875-1960)[16] il 9-11 luglio 1922 (Mangone 2002). 

Anche Virgilio Marchi, che interviene al Convegno in rappresentanza degli architetti futuristi, dedicherà un capitolo al primitivismo caprese nel suo Italia Nuova – Architettura nuova (1931).  Forse più ancora del Convegno sono le architetture di Cerio, La casa del Solitaria a Marina Piccola (1920), il Rosaio a Caprile (1921), che si potevano ancora ammirare negli anni Trenta, a destare l’interesse dei progettisti. «Cerio con il Rosaio, Ceas con i suoi studi e più tardi con il suo villaggetto familiare, Ponti e Rudofsky con il loro pionieristico progetto di albergo a bungalow, ricco di spunti poetici, non si accontentano della scala meramente architettonica ma cercano di fare della lezione mediterranea un sistema microurbanistico, privo di quelle rigidezze proprie dell’urbanistica funzionalista» (Magone 2015, p. 255).

In un’ampia accezione di paesaggio rientra anche la difesa dell’architettura spontanea caprese, così come, al contempo, la casa di Capri è vista come parte integrante del giardino. 

Il Rosaio, che a inizio secolo accoglie molti artisti europei, nasce dalla roccia in mezzo alla macchia verde del bosco. La casa di Cerio ci appare come uno dei possibili modelli per le casette nel bosco di San Michele progettate da Ponti e Rudofsky nel 1938 sulle pendici del Monte Solaro. Suscita l’interesse degli architetti anche la “stracasa” del milanese Emilio Vismara, terminata nel 1929, visitata anche da Le Corbusier in compagnia di Rudofsky e Cosenza.

Le costruzioni antichissime ««sono fatte per ‘quel’ paesaggio per ‘quel’ mare, né potremmo immaginarle altrove, formate con materiale locale, alle cui forme, al cui colore col dominante candore soltanto si addicono l’ulivo, il cactus, l’azzurro intenso, il celeste grigio, la terra bruciata, l’assolato orizzonte, la natura, ‘quella’ natura insomma» (Giacconi 1939, p. 30).

Si comprende meglio, alla luce dell’accento posto sul rapporto architettura e paesaggio, la rappresentazione degli elementi naturali nel disegno di progetto.  L’architettura vegetale completa, col suo carattere decorativo, l’edilizia muraria, e il giardino integra la casa nel paesaggio. «Il giardino e la casa completano l’opera della natura, dando al paesaggio la peculiare impronta della cultura e del gusto d’un popolo, la misura della sua civiltà, l’espressione del suo carattere» (Cerio 1922). 

D’altra parte, al giardino e al paesaggio Ponti dedica importanti rubriche, avvalendosi di autorevoli collaboratrici e collaboratori. A Maria Teresa Parpagliolo (1903-1974) [17], architetta-paesaggista, che firma articoli sulla progettazione dei giardini, Ponti affida dal 1930 al 1938 la rubrica “Giardino fiorito”. Sempre su «Domus» dal 1937 prende avvio il contributo, seppure saltuario, di Pietro Porcinai (1910-1986)[18]. Il paesaggio è parte integrante del progetto anche per un’altra collaboratrice di Ponti, Lina Bo Bardi (1914-1992) che dal 1939 con articoli e illustrazioni apporta il suo contributo alla realizzazione prima di «Domus» e in seguito di «Stile»[19]. Lina Bo Bardi, interprete in chiave progressista della tradizione locale, rappresenta «una modernità dialettica e plurale che rifiuta le rigide contrapposizioni concettuali e considera i valori dell’innovazione e della tradizione non necessariamente alternativi tra loro» (Viola 2017, p. 357).


Le scritture del progetto ‘mediterraneo’

L’interesse per il paesaggio e l’architettura spontanea del bacino del Mediterraneo, potenziato dall’interesse, anche antropologico, per i modi di abitare, sono bene rappresentati nei disegni dei progetti ‘mediterranei’, caratterizzati dall’evidente connotazione narrativa. Nell’ideale della vita al mare convergono miti, immaginari, iconografie, modelli compositi e metodi di rappresentazione. 

Negli studi planimetrici della casa al mare il punctum è il paesaggio[20]. Nelle piante ricorre l’indicazione «topografica dei vari modi d’abitare suggeriti dall’ambiente marino». 

Quando elabora la composizione degli spazi, tema progettuale a lui molto caro, Ponti immagina sempre i luoghi per passare e quelli per stare, in un collegato reticolo di vedute all’interno della casa e dagli ambienti domestici verso il paesaggio circostante. La continuità tra interno ed esterno è orchestrata in un sapiente gioco di prospettive. 

Fin dalla fase ideativa, Ponti progetta la percezione dell’inscindibile nesso tra paesaggio e spazio costruito. Un’estetica dell’apparizione che produce un’articolazione degli ambienti che l’abitatore deve attraversare lentamente. La progressiva “scomparsa del muro” è interpretata, di volta in volta in modo diverso, e il rapporto esterno e interno si sostanzia tramite superfici trattate come fogli vibranti attraversati dalla luce (Crippa 2007, p.23).

L’atto di vedere è un gesto attivo, che implica l’uso della memoria. «Ogni visione si inserisce in un quadro performativo al quale concorrono l’esperienza spaziale, storica, artistica» (Violi 2014). Vedere le forme ‘da architetti’ comporta una lettura, una memoria e una critica, per osservare e capire allo stesso momento. Nel paesaggio mediterraneo, i disparati coefficienti della percezione si legano tra loro, collaborando in un rapporto inscindibile. Se ricordiamo che il Mediterraneo arcaico è un territorio di recinti (Strappa 2004 pp. 19-21) meglio comprendiamo allora la forma a conchiglia di molte casette nel bosco articolate in spazi aperti recintati.

Un approfondimento merita la diversa scrittura dei disegni realizzati o modificati per la pubblicazione. Una scelta che introduce riflessioni sul destinatario di questo racconto. La messa in pagina dei disegni trasforma il materiale progettuale in un iconotext strutturato, caratterizzato dall’interazione tra l’immagine e l’apparato didascalico. Il lettore è indotto a cooperare al buon funzionamento del testo. Le figure che Ponti inserisce nel disegno d’architettura non sono concreti abitatori, introdotti come sagome per comprendere le dimensioni dello spazio, ma alludono piuttosto a un’immaginaria vita che prende forma.

Lo schizzo e il disegno sono parte di un processo grafico e teorico che mette a fuoco un ventaglio di possibili letture. Tra queste il disegno eseguito per la pubblicazione svolge una funzione didattica, ma anche informativa, di elementi connotati in senso narrativo. Nelle vedute prospettiche, la rappresentazione degli elementi naturali, il disegno di una lussureggiante vegetazione, incornicia ed entra nell’architettura. Lo stretto rapporto tra l’architettura e la natura identifica le vedute prospettiche, così come il sistema degli sguardi nelle planimetrie inscenano la compenetrazione architetture-paesaggio. 

I disegni del progetto, non realizzato, per Albergo San Michele nel bosco all’isola di Capri sono forse l’esempio di architettura-narrazione più convincente: la veduta prospettica dell’edificio centrale che «arieggia un agglomerato naturale come è a Martina piccola» racconta forme di vita «paesana e marina», un’evasione completa e lirica dalle forme di vita cittadina. Al pittoresco paese si accede da una strada fra due mura percorsa da un calesse. Le stanze-casette dell’albergo «ispirato alla più sensibile comprensione dell’architettura mediterranea e della vita caprese» sono disseminate nel bosco. Gli ospiti godono così di una vita isolata, ciascuno ha «il suo romito, e si sente separato, felice, libero e solo nell’incanto della natura incomparabile […].Gente del luogo serve le camere-case attraverso i sentieri che han la funzione di corridoi nei soliti alberghi». Nei prospetti verso monte non troviamo infatti figure femminili sulla soglia ad ammirare il paesaggio e la vista sul golfo, ma figure di donne che portando sul capo brocche d’acqua o cesta contenenti viveri, tal quali le scene di vita caprese nei dipinti dei pittori della scuola di Resina.


Sulla soglia

«Noi architetti – scrive Ponti (1941) – vogliamo architettando e arredando fare una scena, la migliore possibile, per le azioni, cioè per la presenza degli abitatori». Un modus operandi che prende forma proprio nell’architettura domestica mediterranea. Ne abbiamo un primo saggio nei disegni di villa Marchesano, un progetto in cui coincidono le scelte distributive e fughe visuali. Il progetto della sua ideale casa al mare nasce dalla ricerca di vedute interne ed esterne. L’architetto parte dall’ideazione di un sapiente gioco di prospettive che avvantaggia la continuità tra interno ed esterno. E, negli studi planimetrici, nei disegni delle piante «con indicazione topografica dei vari modi d’abitare suggeriti dall’ambiente marino», nella rete di prospettive interne, si esprime la sua evocazione mediterranea. «Le piante con l’indicazione delle visuali di chi vi abita, suggeriscono percorsi, inquadrature affacci, […] densità cromatiche e luminose, presenze vegetali, valori atmosferici, identificando lo spazio costruito come una vera e propria macchina narrativa» (Mucelli 2017, p. 158).

Le abitazioni ‘mediterranee’, che nascono dall’ispirazione del luogo, disegnano uno spazio dell’abitare, dove le azioni e i comportamenti sono, dalla fase preliminare, una presenza necessaria, interna all’idea stessa di architettura. Un caso esemplare è il progetto dell’Albergo di San Michele o nel bosco all’isola di Capri (1939): nelle case-stanza disseminate sulle pendici nel monte Solaro, la sequenza degli spazi interni trova il suo naturale contrappunto nella vastità del paesaggio del golfo su cui si apre la vista senza mai ‘chiudere le prospettive’, come s’evince nella dimostrativa planimetria di Capri e il golfo di Napoli, che indica le viste verso le principali località costiere e la distanza in miglia. Mucelli (2017) esamina la stanza della parete nera, con l’intento di realizzarne dai disegni originali di Ponti un modello in scala, e considera con attenzione l’indicazione dei due con visivi che suggeriscono le viste privilegiate: il vertice del primo coincide con la posizione del letto e si rivolge al patio attraverso la grande porta che conduce all’esterno, e all’apertura che inquadra il Vesuvio. Il vertice del secondo cono è collocato al di fuori della stessa porta e varca la parete del patio attraverso la piccola apertura che incornicia lo scorcio di Capo Miseno e Posillipo. Questa seconda prospettiva è ulteriormente rimarcata «dalla presenza di una figura femminile, in abito da vestale, che, in modo tutt’altro che casuale, appare proprio in corrispondenza dello spigolo della porta, sia nel disegno della sezione sul patio che nella veduta prospettica» (Mucelli 2017, p.159).

Le architetture «sono ideate con invenzione di pittore per creare alla presenza umana un vago scenario ed all’occhio un pronto spettacolo» (Ponti 1939). Ponti disegna sempre nelle case al mare figure affacciate alla soglia. L’idea stessa di soglia implica un passaggio, una comunicazione tra due luoghi. Il dentro e il fuori sono rappresentabili soltanto in rapporto a ciò che li mette in comunicazione. La soglia allude «a quel passaggio che non può non avvenire, a quell’attraversamento che permette l’accesso ad un orizzonte nuovo ed inaspettato» (Tarditi 2012, p. 18). È il luogo simbolico dello scambio e della relazione tra ‘internità’ ed ‘esternità’[21]; uno spazio liminare d’incontro e di scambio, dove può accadere un evento, si esprime una rappresentazione, o costruisce una narrazione. È qui, infatti, sulla soglia della casa che le donne raffigurate da Ponti danno corpo alla sua idea progettuale. Sono figure mediatrici che, come gli spazi intermedi, hanno il potere di diventare simboli di scambi e di incontri (Teyssot 2005, pp. 12-13; Bassanelli 2015) [22]

Per le donne la porta è un invito, per essa si accede alla casa: «La porta è l’ospitalità e la casa è un sogno. L’architettura per esse [le donne] non è un cristallo, è una conchiglia. La casa nell’animo, cioè nel giudizio femminile non appartiene solo alle possibili realizzazioni dell’architettura, a quello che è dell’Architetto, ma appartiene a qualcosa di più intimo, anche di impossibile; ad un complesso di desideri e di abbandoni e di bellezze che si pensa non sarà mai appagato. Un sogno» (Ponti 1957, p. 143).

La soglia (finestra o porta) è l’inquadratura che permette che si dia una “storia”, un racconto. Fa dell’architettura una scena. La porta che dà accesso, nel progetto dell’albergo di Capri, alle stanze nel bosco, è la condizione affinché vi sia qualcosa da raccontare o descrivere. Senza l’incorniciamento, rileva Monica Sassatelli, non ci sarebbe né Stimmung né paesaggio perché non vi sarebbe l’individualizzazione di una parte che si fa totalità; nondimeno la totalità che così si ottiene è appunto ritagliata, non arbitrariamente creata. Tramite questa delimitazione di confini – che è già una lacerazione dal sapore moderno – alcune parti vengono individuate (individualizzate) e separate dal resto (Sassatelli 2006).

Nelle piante pubblicate su «Domus», Ponti rappresenta lo sguardo, seppure implicitamente. Le immagini, a loro volta, attraggono i nostri sguardi, stimolati dal desiderio di rivivere l’esperienza percettiva cui alludono le figure disegnate. «Un’immagine dello sguardo si caratterizza perciò per il fatto stesso che il nostro stesso sguardo diviene un’immagine» (Belting 2008, pp. 6-7).

«L’aspettativa di ritrovare il nostro sguardo in un’immagine è condizionata da presupposti culturali che hanno determinato nel corso della storia anche il nostro scambio con specchi e finestre» (Belting 2008, pp. 6-7). La finestra, ma anche la porta, è una soglia architettonica e simbolica che si pone tra il mondo e lo sguardo. Nella pittura narrativa, gli sguardi hanno giocato un ruolo sia comunicativo che emotivo, facendo sì che lo spettatore partecipasse del significato (Belting 2008, p. 18). Anche nel disegno d’architettura è possibile ravvisare una trama di sguardi: nelle piante l’indicazione delle visuali palesa la funzione comunicativa e narrativa dello sguardo. 

Sovente i coni visivi mostrano il vertice in corrispondenza di figure femminili sdraiate su giacigli o panche, d’altra parte, osserva Rudofsky (1938, p. 8) «la posizione distesa nel nostro concetto è una positura mitologica. Perciò ogni donna dovrebbe considerare che questa è la posizione più vantaggiosa ―tutte le Veneri, le Dani e le Olimpie fecero fare i loro ritratti in posizione distesa». 

Il gioco di sguardi è calcolato e spettacolare anche nelle vedute interne: nel disegno di una piccola casa ideale, pubblicato su «Domus», come nella Stanza della Parete Nera dell’Albergo nel bosco, il bagno è una camera vuota e ben illuminata, nel centro del pavimento c’è un ribassamento, una conca, che contiene l’acqua. «La figura umana in succinto costume sotto la pioggia d’una doccia o emergente dalla tazza d’una conca – come dalla pozza d’un ruscello – o che si terge dopo le acque è sportivamente ed esteticamente bella da vedere» (Ponti 1939, p. 44).

Ponti estende a fine anni Trenta l’idea di un’architettura-spettacolo. «L’architettura dentro è fatta per percorrerla: deve essere un seguito di spettacoli: meglio se ha più vedute, e da sotto e da sopra» (Ponti 1941). Quando si entra in una casa progettata da Ponti «rimangono vive nella mente le prospettive». Un’esemplificazione è il progetto per Casa Mazzocchi in via Claudiano a Milano (1938-1939), non realizzato, ideato «con un buon gioco per le visuali che muove l’architettura»: dalla galleria superiore del salone si apre una finestra interna, «cosa piacevole da vedere dal basso (specie se animata da figure) e punto di vista bellissimo per guardare dall’alto». Una composizione spaziale che porta in primo piano «la concezione di un’Architettura peripatetica […] fatta di sequenza, di finestre cui affacciarsi, di scale [dove figure salgono o scendono]» (Miodini 2001, p. 193) [23]. Nei disegni pubblicati su «Stile», figure ‘vere’ che salgono le scale si confondono con le figure affrescate lungo le pareti della scala. Emergono connessioni tra la composizione degli spazi e la composizione pittorica. Si può confrontare questa soluzione con le sculture di Arturo Martini e le opere di Massimo Campigli, lo scultore e il pittore, fra tutti, i più ammirati da Ponti. E per Campigli penso ad opere quali L’Emporio (1929) o Villa Belvedere (1930). 

Nel piattello Vita degli angeli (1935) della Manifattura Richard Ginori di Doccia raffigura donne che salgono le scale o si affacciano al balcone (Domus 1935). Nei primi anni Quaranta, poeticamente afferma: «immagini sempre l’architetto per una finestra una persona al davanzale, per una porta una figura che la oltrepassi» (Ponti 1941a). E, negli ambienti, governati da luci, colori, e materie, immagini sempre il progettista i luoghi per passare e quelli per stare.

La forza probante del disegno progettuale dà l’illusione al lettore e alla lettrice di «Domus» di essere o essere stato in prima persona testimone di quelle vedute, di quel paesaggio, di essere o essere stato abitante di quella casa “sognata”.

I disegni delle piante alludono a un esercizio estetico dello sguardo, proiettando sullo spazio e sulla struttura progettati un primario dominio dello sguardo, legato al corpo. Una dimensione essenziale, quella corporea, poiché le immagini si creano nel corpo, anche se si rendono visibili nei media. Il corpo è simboleggiato nelle figure femminili disegnate nelle sezioni, per lo più affacciate sulla soglia.

In realtà spazialità e visione sono, almeno in certa misura indipendenti: lo spazio non si costruisce solo ed esclusivamente nella percezione visiva. Dal punto di vista dell’analisi semiotica inoltre, la scelta di legare spazio e visione ha come effetto laterale quello di circoscrivere quasi di necessità la dimensione spaziale al solo livello discorsivo, vincolando lo spazio all’articolazione dello sguardo e delle sue svariate iscrizioni prospettiche nel testo. Per quanto riguarda lo spazio e la sua percezione, essa non è determinata unicamente, né prioritariamente, dalla vista, ma da quel “sesto senso”, invisibile e diffuso, che va sotto il nome di propriocezione, che è la percezione del nostro essere corporeo, dell’essere e abitare nello spazio. Vera e propria estensione dello spazio corporeo l’abitazione è pressoché ovunque investita di un simbolismo molto complesso in cui si fondono più modelli (Violi 1991).

 

La messa in pagina del progetto ‘mediterraneo’

L’architettura si alimenta di racconti per immagini, la sua conoscenza e comprensione sono, infatti, condizionate dalla rappresentazione grafica e fotografica. Un iconotesto, dunque, in cui la parte visuale è la forma prevalente nella messa in pagina del progetto. Il racconto fotografico, il fototesto pubblicato sulle riviste, è un «artefatto in cui segni visuali si mescolano per produrre una retorica che dipende dalla compresenza di parole e immagini»[24]. La relazione tra immagine e testo si dimostra, nello studio delle strutture narrative, di particolare interesse. Il fototesto, ricordiamo con Cometa, gioca un ruolo fondamentale nell’articolazione di memoria e oblio (Cometa 2011, p. 70). E l’atto di vedere è un gesto attivo, che implica l’uso della memoria (Strappa 2014, p.19).

La dialettica tra fotografie e testo appare tanto più produttiva quanto più chiama in causa l’attività cognitiva e interpretativa dello sguardo dello spettatore. Il testo e le didascalie svolgono un ruolo non sussidiario nel processo creativo, raccontano al lettore aspetti della vita che s’immagina possa svolgersi nelle case progettate. L’individuazione di una struttura narrativa nel progetto di architettura è presente tanto nel processo d’ideazione, basato su procedimenti letterari (la fase di ideazione del luogo o dell’oggetto che precede la sua formalizzazione grafica, definendo un programma, non solo funzionale, sulla cui scorta articolare il progetto), quanto nell’uso della scrittura in tutte le fasi di sviluppo del progetto, con particole attenzione al rapporto tra immagine e testo scritto. 

La sequenza fotografica definisce il percorso suggerito al lettore, stabilendo connessioni e gerarchie tra gli spazi e gli sguardi messi in scena nelle immagini. Il racconto fotografico è strutturato come un percorso, tal quale una sequenza cinematografica. È indubbio che l’esperienza dell’architettura sia legata alla consapevolezza corporea e al nostro muoverci nello spazio, nondimeno nella messa in pagina la sequenza iconico-testuale prospetta al lettore un percorso costruito come un racconto. Gli spostamenti ‘virtuali’ nell’abitazione sono strutturati secondo programmi narrativi co-articolati allo spazio[25].

Ponti, figura fondamentale nella storia della comunicazione progettuale —ancora in gran parte da ricostruire—, basandosi su processi d’identificazione, vuole coinvolgere il lettore, rivitalizzando la narrazione del luogo, già connotato in senso letterario. Ogni luogo, sito, o costruzione porta con sé una storia, un racconto che Ponti rievoca integrandoli di nuovi contenuti. 

La convergenza tra la previsualizzazione dell’opera e la sua visualizzazione è il risultato di una stretta collaborazione tra progettista e fotografo. La fotografia è uno strumento in grado di cogliere le caratteristiche del paesaggio, la specificità dei luoghi. Per molti autori la fotografia costituisce un imprescindibile intervento linguistico nella redazione del progetto. Uno strumento d’elezione per la lettura critica dell’architettura, della città, del paesaggio. Le potenzialità interpretativo-critiche del medium fotografico sono presto colte da Ponti, con grande anticipo sul dibattito coevo. Egli intuisce le specificità della scrittura fotografica e sancisce l’autonomia artistica della fotografia.

Scrive, infatti, Ponti che la fotografia «ci dà una “vista” ulteriore, una vista astratta, mediata, composta, una vista che a nostra volta “vediamo”; una vista indipendente, autonoma, che moltiplica, isola la cosa o il momento veduti, che li frammenta e nel tempo stesso li fissa […] la indipendenza stessa della vista fotografica ci ha ancora rivelato a sua volta un inedito aspetto delle cose, ci ha portato una tutta nuova comprensione, un tutto nuovo senso di esse e dell’interpretarne le immagini» (Ponti 1932, pp. 285-287).

L’architetto è un metteur en scène e il fotografo, che negli anni Trenta è lo Studio Porta, segue scrupolosamente le indicazioni del progettista: l’inserto dell’immagine nel testo, l’interdipendenza tra didascalia e fotografia, l’interruzione dell’apparato testuale, ma anche le scelte fotografiche, dalla scrittura foto-genica al montage. Le interrelazioni testo-immagine sono il frutto di una strategia complessa, affidata alle abitudini di lettura introdotte e diffuse, fin dagli anni Venti, dalla rivista. «Domus» già nei primi fascicoli propone ai lettori il progetto di un casa. «È consueta ed agevole la lettura di un disegno di pianta?  – si chiede Ponti – Noi architetti pensiamo sempre di sì, e restiamo stupiti di fronte alla difficoltà che talune persone trovano nel leggere una pianta e nel raffigurarsi, da essa, l’aspetto degli ambienti. Questa presentazione di progetti sarà per parte dei nostri lettori come una introduzione alla lettura del disegno architettonico, cosa indispensabile per chi ha amore per la casa e vuole, attraverso la percezione rapida di codesti disegni, rilevare e riconoscere le caratteristiche e le qualità di una distribuzione di locali per valersene a proprio vantaggio» (Ponti 1928, p. 26).

La fotografia d’architettura, che dagli anni Trenta è costruita in sequenza, acquista sempre maggiore peso nella narrazione del progetto. Il lettore è trasportato così all’interno dello spazio progettato senza tuttavia avere la possibilità di partecipare realmente alla scena rappresentata. Ciò non di meno, Ponti promuove l’immagine dell’architettura abitata come elemento imprescindibile del processo di creazione e comunicazione dell'architettura. 

 

Architettura e narrazione

Nel progetto mediterraneo è la vita degli abitanti a divenire misura dello spazio. Le figure, disegnate da Ponti, svolgono, nondimeno e prima di tutto, una funzione narrativa. Tanto più che una delle fondamentali funzioni della narratività è la semiotizzazione dell’esperienza (Ferraro 2015). Al contempo mettono in scena lo sguardo, dacché l’ottica del paesaggio narrato è quella dell’osservare (Bagnoli 2003). 

Concludo riflettendo sul parallelismo tra narratività e architettura affrontato da Paul Ricoeur[26] che, significativamente tocca le scelte di scrittura attuate da Ponti nei progetti ‘mediterranei’. 

L’abitare, asserisce Ricoeur, è il luogo in cui sono scambiati i valori narrativi e architettonici l’uno per l’altra. I processi di costruzione racchiudono l’atto di restare, di fermarsi e di fissarsi, così come i percorsi e le soste sono parte integrante dell’atto di abitare, fatto di ritmi e soste. Ne consegue che la relazione tra interno ed esterno, simboleggiata da una soglia, esprime l’attraversamento dei confini tra un dentro e un fuori, e l’interazione di ombra e luce, di giorno e notte.

Appare evidente, nei disegni dell’Albergo nel bosco all’isola di Capri e nelle tavole dei progetti di case al mare pubblicati su «Domus», l’accento posto sul sistema di gesti e rituali; la presentazione del progetto avviene attraverso una sequenza di luoghi in cui qualcosa accade, dove qualcosa arriva. Nella dimensione temporale e narrativa del progetto architettonico le funzioni dell’abitare sono continuamente inventate e trasformate, come bene si evince nella sequenza di movimenti investiti nella mobilità dello sguardo che percorre la struttura. 

L’intertestualità in architettura è il contesto ambientale in cui il nuovo edificio s’inserisce. E, se è pur vero che ogni architetto decide quale scelta attuare nella relazione fra tradizione e innovazione, si può altresì affermare che il nuovo atto configurativo progetta nuovi modi di abitare che s’inseriscono nel groviglio di storie di vita già passate. La rivalutazione dell’atto di abitare spetta, infatti, a chi abita e vive il progetto architettonico. Ma altrettanto significativo, nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera architettonica, è il ruolo che gioca il lettore. Al suo continuo apprendimento della giustapposizione di storie di vita s’accompagna senza dubbio il desiderio di entrare in un racconto. Il progetto mediterraneo, comunicato sulla rivista, inaugura la captazione del proprio spettatore: l’oggetto del desiderio è un nuovo modo di abitare, è l’avvio dell’identificazione e del processo di proiezione nel disegno d’architettura. 

Ponti offre al lettore alcune idee per la casa al mare: sono semplici spunti che possono essere sviluppati facilmente, scrive l’architetto, secondo le necessità e circostanze ambientali; case da costruire fra gli ulivi, o fra qualche cipresso, o sotto i pini marittimi o sugli scogli. 

Son case che può farvi, a poco prezzo, un buon muratore del luogo, semplicissime tutte […] son soprattutto case che fan paesaggio naturale […] Sognate, o lettori, piccole case felici come queste, e costruitevele. Nel terreno che avrete scelto interverrete anche voi a tracciare i muri. Il muro del patio lo traccerete che imprigioni un pino o un ulivo: vi metterete al posto dove andrà il tavolo da pranzo, o un divano o il letto e di là disporrete dove si ha da aprire una finestra o una porta inquadrando un paesaggio incantevole (Ponti 1941, p. 23).

È, per così dire, un catalogo di case su misura, una produzione prêt-à-porter per l’architettura del loisir. Le piccole case al mare, facilmente realizzabile da maestranze del luogo, non si contrappongono con tutto ciò alle ville progettate da architetti di fama: la rivista si prefigge, infatti, di prospettare al suo pubblico un nuovo modo di vivere, di incoraggiare «quella rieducazione alla natura che costumi, viaggi e sport esercitano sulle nuove generazioni». 

Rivolgendosi alle lettrici, ai lettori, agli abbonati, e agli amici di «Domus», Ponti (1936, p. 25) rileva che non si tratta di una rivista «per farsi la casa di moda o di lusso», ma è «lo specchio di quanto serve come gusto, come utilità, come convenienza per la VOSTRA […] Leggere DOMUS non significa solo ricercare suggerimenti pratici per la casa, significa anche aderire all’espressione italiana di un concetto di vita più civile».


Notes



[1] Il dibattito critico sul disegno d’architettura conta ormai numerosi contributi. Sulle culture del disegno nei progetti di Gio Ponti e una sintesi dei temi del dibattito si veda MIODINI 2001. Negli anni sessanta la semiologia è applicata al disegno d’architettura da Giovanni Klaus Koenig e Renato De Fusco, sostenitori della natura linguistica dell’architettura. Ricordiamo di R. De Fusco, Architettura come mass medium. Note per una semiologia architettonica, Dedalo Bari 1967, e di G. K. Koenig, Architettura e comunicazione, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1970. Vedi anche di Vittorio Magnago Lampugnani, La realtà dell’immagine, disegni di architettura del Ventesimo Secolo, Ed. di Comunità, Stoccarda 1982. Tra i recenti contributi al dibattito segnalo: Fabio Lanfranchi, Linguaggio di-segni. Considerazioni sulla comunicazione grafica d’architettura, Aracne Roma 2008. L’autore afferma il valore strumentale del disegno nel processo di trasmissione dall’ideazione progettuale alla realizzazione dell’opera architettonica. In epoca di post-strutturalismo Lanfranchi afferma, senza la meccanica e la rigidità terminologica di quegli anni, che il disegno è un linguaggio che dà forma al pensiero progettuale in ogni sua fase. Si veda anche G. Testa e A. De Danctis, Rappresentazione e architettura, linguaggio per il rilevo ed il progetto, Gangemi Editore, Roma 2003; R. De Rubertis, Il disegno dell’architettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; M. Cresci, L’immagine mediata dell’architettura, in Icaro, n. 8, Gangemi 1996.

[2] Mi riferisco ovviamente a Michel Foucault, L’ordre du discours, Gallimard Paris 1970; trad. it, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.

[3] Vedi Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Federico II (1949), Torino, Einaudi 1953; Predrag Matvejevic, Breviario Mediterraneo (1987), Milano, Hefti 1995; David Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo (2003), Milano, Mondadori 2013. Per una sintesi del dibattito si veda Lelio di Loreto, Sguardi da nord. Il Mediterraneo attraverso gli occhi degli architetti tra Centro e Nord Europa, relatore Filippo Lambertucci, Sapienza Università di Roma, Dottorato in Architettura: Teorie e Progetto-XXX Ciclo- Coordinatore A. Saggio

[4] In Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino Einaudi 1962.

[5] A questi temi è dedicato il recente Convegno Internazionale, Immaginare il Mediterraneo. L’architettura e le arti, a cura di Andrea Maglio, Fabio Mangone, Antonio Pizza, svoltosi a Napoli il 16-17 gennaio 2017.

[6] Rimando al contributo teorico di Michel de Certeau (1925-1986), L’invenzione del quotidiano (1974), Roma, Lavoro 2001, che ha evidenziato la narratività inerente alla forma di scrittura storiografica e alla dimensione di finzione che le è propria, affermando che anche lo spazio stesso è un racconto. Si veda anche M.  de Certeau, La scrittura della storia, a cura di Silvano Facioni, Jaca Book Milano  (tit. or. L’Écriture de l’histoire, Éditions Gallimard, Paris 1975).

[7] Basti qui fare cenno alla posizione di Enrico Peressuti, Architettura mediterranea, in «Quadrante», n.21, gennaio 1935, che vede nelle architetture razionaliste d’oltralpe echi delle tipiche case mediterranee, patrimonio italiano. Per i firmatari del Programma d’architettura la tendenza razionalista italiana è affermazione di “classicismo” e “mediterraneità” nello spirito e non nelle forme del folklore. Di ben altro tono sono gli interventi di Giuseppe Pagano che indaga l’architettura rurale come fenomeno costruttivo, collettivo e anonimo: G. Pagano, Case rurali, in «Casabella», n.86, febbraio 1935, pp.8-15; Id., Architettura rurale italiana, «Casabella», 96, dicembre 1935, pp16-23; Id., Documenti di architettura rurale, in «Casabella», 35, novembre 1935, pp.18-25. Sulla posizione del gruppo di Quadrante si veda il capitolo L’idea di Mediterraneità negli scritti di Carlo Enrico Rava e del Gruppo di Quadrante, in Brunetti 1993, pp.203-2016. 

[8] La rivista ospita tra i primi articoli sull’architettura minore del bacino del Mediterraneo, G. Michelucci, Fonti della moderna architettura italiana, in «Domus», n.56, 1932, pp.460-461

[9] Si veda Carlo Enrico Rava, Specchio dell’architettura razionale. VI Conclusione, in «Domus», n.47, novembre 1931, pp.34-40. La lettera di Luigi Figini è pubblicata pochi mesi dopo: Polemica mediterranea, in «Domus», n.49, gennaio 1932, p.66. 

[10] Si veda Carlo Enrico Rava, Di un’architettura coloniale moderna, Parte Prima, in «Domus», n.41, maggio 1931, p.39-43, 89 

[11] Si vedano Benedetto Gravagnuolo (1994); Alfredo Buccaro (2007); Fabio Mangone (2003). Paola Carla Verde (1999) si sofferma sull’immagine di Capri orientale affermatasi nel secondo Ottocento, Mangone (2015) sottolinea che, anche nel suo periodo di maggior fortuna, l’immaginario della Capri lembo d’Oriente non eclissa del tutto quello più durevole della Capri classica, l’isola da cui Tiberio comandava l’impero romano, pervenuta nelle vestigia di Villa Jovis.

[12] Negli ultimi anni sono usciti numerosi contributi sulla figura di Bernard Rudofsky, in particolare si segnalano gli interventi di Andrea Bocco Guarneri (2003, 2010, 2011) e Ugo Rossi. (2016, 2017).

[13] Maria Teresa Parpagliolo, Dei casini di campagna, casa Orlandi, Anacapri, in «Domus», 73, gennaio 1934, pp.54-55

[14] Ricordiamo con Patrizia Battilani, Vacanze di pochi, vacanze di tutti. L’evoluzione del turismo europeo, Bologna Il Mulino 2001, che a Capri nel 1840 i visitatori erano 400, nel 1855 l’isola, inserita nella guida Murray or travellers in Southern Italy, diventa meta del soggiorno invernale di aristocratici inglesi. Nel 1905 le presenze erano 30.000 in gran parte tedesche.

[15] Si veda R. Campa, Il culto del corpo. Una prospettiva genealogica e biopolitica, in Rivista di scienze sociali, 30 aprile 2016.

[16]Sulla figura di Edwin Cerio si veda Gaetana Cantone, Un caso di “altra” modernità: Edwin Cerio scrittore e architetto a Capri, in L’architettura dell’”altra”  modernità, Atti del XXVI Congresso di Storia dell’Architettura, Roma, 11-13 aprile 2007, a cura di Marina Docci, Maria Grazia Turco, Gangemi Editore Roma, pp.512-523; Andrea Nastri, Edwin Cerio e la casa caprese, Clean Edizioni, Napoli 2008. La casa Il Rosaio è recensito in G. Capponi, Architettura e accademia a Capri. Il “Rosaio” di Edwin Cerio, in  «Architettura e arti decorative», dicembre 1929. Tra gli scritti dello stesso E. Cerio, L’architettura minima nella contrada delle sirene, in «Architettura», n. 4, 1922, pp.156-176.

[17] Scarsa è l’attenzione della critica italiana alla figura di Maria Teresa Parpagliolo, qualche cenno in Luigi Latini, Lo sguardo “moderno” sul paesaggio toscano. Porcinai e la cultura progettuale del XX secolo, in Paesaggi. Didattica, ricerche e progetti, a cura di Guido Ferrara, Gulio Gino Rizzo, Mariella Zoppi, Firenze University Press 2007, che sottolinea il contributo di Parpagliolo e Porcinai alla La campagna di Domus per il verde. Tra i numerosi interventi di Parpagliolo sulle pagine di «Domus» si veda, I  principi ordinatori del giardino italiano, in «Domus», 37, 1931, pp.68-71. Diversa è invece l’attenzione riservata a Parpagliolo in ambito anglosassone, in particolare Sonja Dümplemann, The landscape architect Maria Teresa Parpagliolo Shephard in Britain: her international career 1946-1974, in Studies in the History of Garden & Designed Landscapes, 30, 1, 2010, 94-113; Sonja Dümplemann, Maria Teresa Parpagliolo Shephard (1903-1974): Her Development as a Landscape Architect between Tradition and Modernism, in Garden History, vol.30, n.1 (Spring 2002), pp.49-73; Women, modernity, and landscape architecture, edited by Sonja Dümplemann, and John Beardsley, Routledge London and New York 2015.

[18] Numerosi sono invece i contributi di studiosi e studiose italiani sull’opera di Pietro Porcinai, tra gli altri si veda: Milena Matteini, Pietro Porcinai. Architetto del giardino e del paesaggio, Mondadori Electa, Milano 1991; Luigi Latini, Mariapia Cunico (a cura di), Pietro Porcinai. Il progetto del paesaggio nel XX scolo, Marsilio, Venezia 2012.

[19] Figura tutt’alto che marginale, Lina Bo Bardi è stata di recentemente rivalutata, tra i contributi segnalo Laura Miotto e Savini Nicolini, Lina Bo Bardi (1914-1992), in G. Bassanini e R. Gotti (a cura di), Le architettrici, in «Parametro», n.57, maggio-giugno 2005, pp.48-51; Alessandra Criconia (a cura di), Lina Bo Bardi. Un’architettura tra Italia e Brasile, Franco Angeli, Milano 2017, in particolare ivi i saggi di Anna Giovanelli, Abitare la casa dell’uomo. Paesaggi domestici e Alessandra Muntoni, Il Mediterraneo e l’Atlantico. Dalla casa sul mare alla Casa di Vidro.

[20] Applico la nozione barthesiana di punctum, un dettaglio presente in fotografia a prima vista inapparente ma decisivo, al disegno d’architettura. Vedi R. Barthes, La camera chiara. Note sulla fotografia (1980), Einaudi,Torino  1980

[21] Di soglia come zona parla Walter Benjamin nell’incompiuto Passagen-Werk  (trad. it, .Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi 1986; e I “Passages” di Parigi, Torino, Einaudi 2002), ripreso da Georges Teyssot, Soglie e pieghe. Sull’intérieur e l’interiorità in «Casabella», 681, settembre 2000, pp.26-35. Interessanti suggestioni in Bassanelli 2015, per una lettura dell’abiatare come soglia vedi Aceti 1994.

[22] Teyssot riprende il concetto di determinazione di un luogo attraverso un processo di legittimazione che avviene con la definizione di un limite, indicato da Michel De Certeau in L’invention du quotidien, cit.. 

[23] Gio Ponti parla di architettura peripatetica in L’architettura è un cristallo, Edit Editore italiano, Mialno1945, p.68 

[24] Peter Wagner (editor), Icons-Texts-Iconotexts.  Essays on Ekphrasis and Intermediality, De Gruyter, Berlin-New York 1996

[25] Rimando a Hammad M.,”Dei percorsi: tra manifestazioni non verbali e metalinguaggio semiotico”. In: Gianfranco Marrone e Isabella Pezzini (a cura di), Linguaggi della città. Senso e metropoli II: modelli e proposte d’analisi, Meltemi, Roma, pp.97-130

[26] Mi riferisco a Paul Ricoeur,Architecture and narrativity, in Études Ricoeuriennes /Ricoeur Studies, vol.7,n.2  (2016), pp.31-42.

 

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