Recensioni

linear city Enrico Prandi

La città lineare e la sua architettura 
“Niente, mio caro Watson, è così fantastico come la realtà!” [1]

L’utopia può/deve divenire realtà?
Questo, appare essere il quesito guida di Enrico Prandi nel suo “atlante” intitolato “L’architettura della città lineare”, edito Franco Angeli. Una sorta di “apologia della linea”. 
Il testo “utopico” - nel senso di eu-topos, luogo della felicità - punta all’apice dello stato dell’arte sulla ricerca applicata ad un argomento fenomenico, ancora oggi confinato nel regno dell’utopia, avviata sin dagli anni ’20 e forse mai realmente conclusasi. Partendo dagli esiti raggiunti da George R. Collins, massimo studioso di città lineari, l’autore assume come campo di indagine, una vasta casistica di esempi che animarono un immaginario architettonico proiettato verso nuovi paradigmi sociali e urbani. La ricchissima miscellanea di progetti di città lineari presentata nel libro, viene descritta e catalogata secondo nuove categorie interpretativo-analitiche. L’approccio metodologico al tema, da parte dell’autore, è radicato nella tradizione di studi sull’architettura e sulla città, di cui “L’architettura della città” di Aldo Rossi ne è manifesto. Le città lineari, intese come insiemi di elementi minimi configuranti insediamenti in linea a crescita continua, sono indagate da Enrico Prandi in maniera quasi anatomica, con continui salti di scala che permettono la reale comprensione di questi organismi complessi in costante dialettica tra architettura, città e territorio.
Alla base di questi esperimenti, risiedeva un sogno etico, morale e pratico.
Razionalizzare l’uso del territorio, accogliendo l’avvento della profetizzata “città delle reti”, attraverso la sperimentazione di nuovi modelli urbani modulari il cui elemento portante è la strada infinitamente espandibile. Questo è il pensiero sintetizzato di Soria y Mata, repubblicano con competenze filosofiche, inventore della tipologia di città lineare abitata da “cittadini lineari”. Secondo Prandi, le città lineari rappresentano l’ultimo baluardo della pianificazione urbanistica sostenibile, perché basata ancora sul concetto antropocentrico di “città ideale”, che persegue un ordine ancor prima mentale che fisico.
L’indice, accompagnato da una tavola sinottica molto utile al lettore per inquadrare il palinsesto teorico del libro, trasforma in capitoli le categorie interpretative suddette individuate dall’autore.
La struttura della pubblicazione può essere metaforicamente intesa come un viaggio spazio-temporale tra le soglie evolutive del modello urbano in questione. Si parte dalle origini innescate da una visione confinata tra utopia e città ideali, e si arriva alla dimostrazione dell’avvento quasi fisiologico delle “città lineari naturali” contemporanee, veri e propri sistemi territoriali policentrici innervati dall’infrastruttura (Città Emilia, Roadtown E-R, FO-CE, Adriati-città, NOMARE, Hyper Adriatica, Future GRA). Estrema ratio, sono due esempi contemporanei di progetti di città lineari, a dimostrazione del fatto che la ricerca sul tema del  linearismo non si è mai realmente conclusa: la Direttrice Nord-Ovest di Milano, ad opera di Guido Canella (1993) e VE_MA di Franco Purini (2006).
La Ciudad Lineal di Arturo Soria y Mata (1882) e la Cytè Linéaire Belge di Gonzalez del Castillo (1919) riconducibile al trittico punto-linea-superficie di Kandinsky, rappresentano i prototipi della città lineare, sviluppati poi a scala mondiale negli anni a venire. Notevole importanza ebbero le due rivali geo-politiche America ed ex Unione Sovietica. La prima, territorio di grandi spazi abbandonati protagonisti dell’opera di Blake “God’s own junkyard”, è la tela delle formulazioni organiche di Wright (Brodacre City), dei rilevamenti sociologici di Richard Neutra tradotti nella sua “città di corsa” (Rush City) e delle prime sperimentazioni di Ville Radieuse di Le Corbusier del 1933 con un i suoi “tre insediamenti umani” nella logica sistemica di una “grande catena di montaggio urbana”. Dalla città lineare si passò alle sperimentazioni della “metropoli lineare” di Reginald Malcomson. Da qui, il progetto di Michael Graves e Peter Eisenmann del Jersey Corridor che anticipa il concetto di “Bigness, ovvero il problema della grande dimensione” (R. Koolhaas) e che enuncia il principio del “cluster point”. L’Unione Sovietica, da sempre anti-capitalista, rimette al centro delle sperimentazioni lineariste l’uomo. Lo stesso Le Corbusier fu un grande sostenitore dell’URSS in quanto ritenuta da egli stesso il contesto fertile per una rivoluzione urbanistica. I modelli di città lineari socialiste, dai progetti per Magnitogorsk di Miljutin e Leonidov, alla Città verde di Ginzburg e Barsc, sono l’emblema di una visione comunitaria dell’insediamento urbano a misura d’uomo, in parte analoga ai principi della “città umanizzata” di Lluis Sert.
Anche l’Europa ebbe un ruolo fondamentale per lo sviluppo del modello urbano lineare; la regione divenne l’ambito applicativo delle città lineari in costante tensione tra la piccola e la grande scala secondo quanto espresso da Ludwig Hilberseimer.
La città verticale di Hilberseimer, la cui atmosfera che traspare dai disegni è degna di una scena di Inception tanto che lo stesso autore la paragona ad una necropoli, va nel senso della regionalizzazione.
Un passaggio chiave del libro è l’analisi della linearità nei piani di espansione della città costruita, a partire dal Plan Obus con il concetto di “quinta facciata” e del Plan Voison, entrambi di Le Corbusier. Anche il Great London Plan, a firma del collettivo MARS (Modern Architectural Research Group), promotori dell’architettura moderna attraverso la divulgazione della materia, assume la linearità tipica dell’approccio socialista come direttrice dell’espansione urbana della città di Londra impostata sulla “teoria dei contatti”. Questa visione, abbandonata perché ritenuta troppo radicale, fu inizialmente supportata dalla rivista Architectural Review.
Il regno dell’utopia arriva ad interfacciarsi con la città costruita.
L’analisi degli episodi storici di interazione del progetto di città lineare con la materia costruita della città consolidata, è un passo fondamentale del libro verso la risposta al quesito guida iniziale. Il novecento è assunto dall’autore come stagione di grandi trasformazioni urbane. Prende il via la prassi della sostituzione edilizia e la ricostruzione di notevoli parti di città. La linearità si impone prepotentemente come matrice rifondativa attraverso l’inserimento di vere e proprie protesi nell’esistente, e non più solo congiunzioni tra pieno e pieno. Derivano schemi articolati composti da elementi architettonici interconnessi secondo linee di forza, all’interno dei tessuti urbani. Esemplari di questa rimodellazione del costruito sono il progetto per Market Street Est di L. Kahn e Unter Der Linden di Van Eesteren per Berlino. In entrambi i casi, le scelte progettuali sono dettate dall’avvento preponderante della macchina come mezzo di trasporto prevalente. Il parcheggio, era quindi visto come potenziale elemento distruttivo dell’ordine urbano. Kahn, per Philadelphia, inflette il tema del parcheggio per perseguire l’esatto contrario con la sua strategia rigenerativa lineare. La Philadelphia reimmaginata da Kahn è, quindi, una città in grado di difendersi dall’automobile, in analogia con le città fortificate medievali per motivi di tutt’altro genere, attraverso punti di scambio intermodale definiti “docks”.
L’autore, all’interno delle pratiche di inserimento di congegni lineari (protesi) nel costruito esistente, analizza in parallelo alle sperimentazioni professionali, quelle accademiche. L’Urban Renewal, movimento nato da realtà laboratoriali interne ai quattro caposaldi universitari americani (Princeton University, Cornell University, Columbia University, Massachussetts Institute of Tecnology), si è confrontato subito sul tema della rigenerazione di Harlem-Manhattan. L’area fu divisiva in quattro ambiti di progetto dalla vasta estensione lineare e, ognuno di essi venne affidato ad uno dei gruppi di lavoro universitari. Gli esiti guidati dai capi gruppi, tra cui Peter Eisenmann, Michael Graves e Colin Row, sono evidentemente memori dei modelli di città lineari di Chambless (Road Town) e di Le Corbusier (Algeri e Rio).
Altro esempio di protesi lineare all’interno del costruito, fu il LOMEX (Lower Manhattan Express) di Paul Rudolph. Trattasi di una città lineare che trasporta tutta l’infrastruttura della penisola di Manhattan al livello ipogeo, facendo emergere dal piano di campagna, elementi fortemente monumentali a piramide, assemblati in modo da creare un corridoio urbano e contenenti le varie funzioni tipiche della mixitè funzionale propria dei grandi “vettori” lineari sperimentali dell’epoca. L’idea alla base del LOMEX sfocia in quel territorio utopico, definito dall’autore “Manhattismo”, denunciato poi da “Delirius New York” di R. Koolhaas.
La città lineare divenne poi il tipo adottato nelle sperimentazioni delle cosiddette “Ecocittà”.
Progetti nati come alternativa al caos delle città contemporanee dalle quali alcuni degli stessi progettisti scapparono. Paolo Soleri su tutti, trovò rifugio nel contesto della sua formazione di architetto, il deserto dell’Arizona. Proprio qui, ad Arcosanti, città di fondazione auto-costruita con l’aiuto di una comunità mutevole insediatasi appositamente in loco, portò avanti le idee delle sue Mesa City e Lean Linear Arcology.
Meno radicali nelle scelte di vita ma non nelle idee di città, furono Marcello D’Olivo con la sua Eco-Town e Luigi Pellegrin con i suoi “habitat” fatti di vettori composti da neo-linee e neo-mound.
Ad avviso dello scrivente, il massimo livello di utopia trattato nel libro è quello delle “megastrutture”. Il 1964 fu il “mega-anno” della massima produzione di megastrutture da parte dei megastrutturisti (E. Prandi). Kenzo Tange, Alan Boutwell and Mike Mitchell, Yona Friedman, Superstudio, Archigram, Archizoom, OMA; tutti alle prese con la tecnica del collage per creare nuove città fantastiche sospese e sovrapposte alle vecchie, quasi negandole.
Un libro denso, a cavallo tra la storiografia, la composizione architettonica e urbana, che risponde al quesito iniziale, nonostante la dimostrazione dell’avvento delle città lineari naturali contemporanee, così: “L’aspetto forse più interessante (dell’esperienza linearista) è costituito dal “non attuabile”, cioè da quelle prefigurazioni visionarie che, anticipando il futuro, stimolano il dibattito culturale. Il valore di tali proposte risiede sul piano scientifico-figurativo piuttosto che non su quello tecnico-pratico. Ciò che Giorgio Grassi scrive a proposito del Piano di Tange per Tokyo può essere generalmente applicato alle molteplici soluzioni proliferate (…). Lo studio di Tange ha valore (…) come ricerca, dove il risultato concreto è necessariamente parziale, dove la sintesi vale come approfondimento dei temi contenuti (…); se esso sia utilizzabile o meno non credo abbia (…) importanza. (G. Grassi, 1961)”.

[1] Titolo tratto dall’incipit della conferenza tenutasi da Peter Assmann, in occasione della mostra “Paradisi immaginari”, presso il Politecnico di Milano, Polo di Mantova. Assmann introdusse la lectio con una citazione tratta dalle avventure letterarie di Sherlock Holmes: “Nothing, my dear Watson, is so fantastic as reality!”

Paolo Strina




Autore: Enrico Prandi
Titolo: L'architettura della città lineare
Lingua del testo: italiano
Editore: FrancoAngeli, Milano
Collana: Lettura e Progetto diretta da Giuseppe Strappa
Caratteristiche: formato 17x24 cm, 432 pagine, brossura, bianco e nero
ISBN 9788891750037
Anno: 2016