Sulla misconoscenza degli architetti (e delle loro
architetture)
Enrico Prandi
Fig.
1 - Copertina di Casabella Continuità n. 276 1963. Progetti
di architetti italiani
Fig.
1 - Copertina di Casabella Continuità n. 289 1964. Progetti
di architetti italiani 2
Ogni qualvolta progettiamo un numero della rivista –
sottolineo il termine progettare in analogia alla presa di campo
culturale della rivista, mentre il plurale è dato dal
continuo confrontarsi e condividere il pensiero all’interno
della Direzione e della Redazione – non possiamo fare a meno
di riflettere sul ruolo che FAMagazine ha nel panorama delle riviste di
ricerca e sul senso del nostro operato nei confronti degli obiettivi di
diffusione, divulgazione e trasmissione del sapere scientifico
disciplinare ai nostri lettori. In pratica ci chiediamo se il nostro
sforzo di pubblicazione serva alla comunità scientifica
disciplinare a dare spunti, innescare processi di approfondimento,
rafforzare linee di ricerca o, perché no, a generarne di
nuove, inedite.
Così è stato anche per questo numero 47 del 2019
curato da Ugo Rossi, un nostro giovane corrispondente che alcuni mesi
fa ci ha proposto come tema quello della presenza nel Novecento di
alcune figure di architetti poco note o male conosciute. Tema che ha a
che fare con la questione della fortuna critica degli architetti e
delle loro opere: su alcuni, l’azione di studio e
ricollocazione rispetto alla mappa geografico-culturale è
già iniziata, su altre il lavoro è ancora da
impostare.
Come spesso facciamo, abbiamo iniziato un’interlocuzione con
il curatore direzionando (è questo infatti uno dei compiti
della Direzione) il focus del numero verso un interesse generale
disciplinare. In definitiva si è trattato di trovare la
chiave interpretativa che legasse insieme figure appartenenti a mondi
diversi in un’unica azione critica culturale. È
emerso, quindi, un titolo di braquiana memoria1 che poneva l’accento sulla
“misconoscenza” di queste figure ossia sulla loro
gravitazione, nella galassia storiografica di architettura, in orbite
del tutto particolari. Il tema ha ovviamente a che fare con le singole
esperienze e fortune critiche ma anche con il punto di vista dal quale
guardiamo al problema ossia dall’assetto
critico-storiografico italiano. Infatti, lungi da noi la convinzione
che dette figure siano in assoluto poco o male conosciute: le orbite in
questo senso si avvicinano e si allontanano maggiormente da certi Paesi
e da certi Continenti e sono derivate dalla naturale impostazione
storiografica. Appare lapalissiano che un architetto di un determinato
Paese, in cui vi ha operato magari costantemente per tutta la vita
professionale, sia conosciuto, studiato e citato in Patria mentre non
è affatto scontata la sua conoscenza al di la dei confini.
Se, in linea di massima ciò è vero, spesso
può verificarsi anche il contrario ossia il caso in cui nemo
propheta acceptus est in patria sua. Per svariati motivi, infatti, gli
storici militanti, come ad esempio Zevi e Tafuri, sono portati ad una
critica storica di tipo baudelairiano, non tanto del Baudelaire che si
riferiva all’analisi dei pubblici degli artisti2 – anche se
un’analisi dei diversi pubblici degli architetti potrebbe
essere interessante3
– quanto del Baudelaire che esortava la critica (leggasi il
critico) ad essere «parziale, appassionata, politica, vale a
dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il
più ampio degli orizzonti»4.
È indubbio infatti che le migliori storie siano quelle che
prendono le distanze dalla critica «fredda e algebrica che,
col pretesto di tutto spiegare, non sente ne odio né amore,
e deliberatamente si spoglia di qualsiasi traccia di passione»5.
Ne è scaturito a nostro avviso un fascicolo originale nel
porsi la problematica di come queste figure, che vanno considerate come
un mero campione (ad ogni lettore il compito di individuare le proprie
figure secondo la specifica conoscenza dei contesti), abbiano
attraversato il Novecento rimanendo ai margini della ribalta. Il
margine in questo senso non è da intendere in maniera
né negativa né positiva ma come una condizione
che ha contribuito al determinarsi della misconoscenza.
Nel titolo, poi, aleggia un altro termine come
“dimenticanza”. C’è una
sostanziale differenza tra dimenticanza e misconoscenza: la prima,
infatti, presuppone la casualità la seconda invece una
deliberata inerzia o resistenza nel prendere in considerazione tale
figura. Se la dimenticanza può scaturire
dall’eventualità, la misconoscenza è
sempre frutto di una precisa decisione del critico che dovendo fare
delle scelte (necessarie alla presa di posizione che auspicava
Baudelaire) decide di trascurare alcune figure a vantaggio di altre
più consoni all’operazione culturale.
Il campionario di figure che abbiamo scelto appartiene ad un vasto
ambito geografico tra Europa e America (senza necessariamente avere a
che fare con l’Italia) e a un ambito temporale del Novecento
ossia coincidente a nostro avviso con la “giusta distanza
storica” (né troppo vicino, né troppo
lontano) con la quale si è soliti guardare ai fenomeni
storico-culturali: sono nati attorno alla prima decade del Novecento
(una sola figura è nata a fine Ottocento, ed una sola negli
anni Dieci del Novecento) e l’hanno attraversato per gran
parte fino agli anni Settanta-Ottanta. Sono Bernard Rudofsky
(1905-1988), Peter Graham Harnden (1913-1971), Edward Durell Stone
(1902-1978), William Wurster (1895-1973), Sedad Hakki Eldem
(1908-1988), Hassan Fathy (1900-1989), Constantinos Apostolou Doxiadis
(1913-1975).
Bernard Rudofsky, è stato un architetto austriaco errante
per il mondo e frequentatore dell’Italia è
già stato oggetto di un approfondimento critico a partire
dagli anni Duemila che ha portato alla pubblicazione di alcune
monografie. Peter Graham Harnden è stato un architetto
americano formatosi in Europa, a Parigi e poi a Barcellona
particolarmente influenzato dall’opera di Richard Neutra. Fu
direttore delle informazioni visive del piano Marshall in Europa nel
quale ha fondato, con l’architetto Lanfranco Bombelli, lo
studio Harnden & Bombelli. Edward Durell Stone è
stato un architetto americano, nato in Arkansas, formatosi a Boston, ad
Harvard e al MIT, proseguendo la sua formazione in Europa attraverso
due anni di Travelling
Fellowship e una carriera da professionista affermato
soprattutto in America. William Wurster è californiano,
architetto ma anche docente e Dean al MIT e a Berkley dove
contribuì alla riunione sotto il nome di UC Berkeley College
of Environmental Design delle tre scuole di Architettura, Urbanistica e
Paesaggio, alterna all’attività didattica
l’attività progettuale costruendo soprattutto case
nella Bay Area californiana. Sedad Hakki Eldem, architetto e insegnante
turco artefice del Modernismo in Turchia, Paese in cui ha
essenzialmente progettato, cercando di sperimentare una personale
interpretazione del modernismo. Premiato con l’Aga Khan Award
for Architecture nel 1986, Eldem è stato oggetto di studi in
Italia con la pubblicazione di una recente monografia. Hassan Fathy,
architetto e urbanista egiziano, docente
all’Università del Cairo, noto soprattutto per la
reinterpretazione in chiave moderna delle tipologie tradizionali
egiziane e per l’impegno nei confronti delle popolazioni
povere per le quali progetta edifici adottando tecniche costruttive
tradizionali. ConstantinosApostolou Doxiadis, architetto e urbanista
greco, noto per aver progettato la città di Islamabad, la
nuova capitale del Pakistan, e per aver diffuso il suo pensiero
attraverso numerosi saggi e testi.
Un campione diversificato che comprende sia professionisti puri che
figure che hanno anche transitato nelle Università (in
alcuni casi occupando ruoli di vertice) e prodotto, forse in
virtù di ciò, libri e saggi che hanno sicuramente
contribuito alla diffusione del loro pensiero. Figure che possono
assumere il ruolo di “Maestri” proprio nel
costituirsi come exempla di un modo di operare che direttamente o
indirettamente si propone come guida di un approccio corretto ai temi e
ai problemi di progettazione.
L’azione culturale che tentiamo in questo numero ci
è stata tramandata dall’esperienza storica in
analogia a quella condotta da Ernesto Rogers attraverso la mano e il
pensiero dei suoi collaboratori (perché in sintesi
è stato questo uno dei pregi di Rogers e di
Casabella-Continuità) che aveva il fine di rendere operativa
la riflessione critica su alcune figure del moderno che avevano
deliberatamente scelto di non adeguarsi pedissequamente al linguaggio
comune dell’International Style. Il recupero della Tradizione
e della Storia, il radicamento contestuale del progetto e le altre
tematiche che fondavano il pensiero rogersiano (che i giovani allievi
della redazione condividevano) necessitavano di un’azione
culturale di critica ad alcuni principi teorico progettuali correnti e
di legittimazione di approcci diversi dall’adozione dei
semplici canoni dello Stile Internazionale. Azione che non fu capita
dai più a livello internazionale e che diede vita alla
celebre querelle tra Rogers e Banham6. In più l’azione
critica, ossia il recupero di figure come Dudok, Loos, Behrens, e via
dicendo serviva a mostrare non tanto un “linguaggio da
replicare” ma una “via da percorre” verso
“Altri moderni” come più oltre li
battezzerà un altro componente di quella redazione, Luciano
Semerani7,
amico e concittadino di Rogers. Uno “Stile Moderno
Italiano” che inizia a costruirsi in Italia in antitesi alla
diffusione dello Stile Internazionale e che contrappone per esempio la
Torre Velasca al Grattacielo Pirelli e che vedrà tante
declinazioni interessanti quante erano le rivendicazioni poetiche
singolari ma che si basavano su un’autenticità che
era – ed è – il vero portato
dell’Architettura italiana del Dopoguerra: emblema da tutti
riconosciuto è la Bottega d’Erasmo (215 del 1957)
a cui seguirà la Torre Velasca (232 del 1959), ma
soprattutto le opere racchiuse nei fascicoli 276 del 1963, 289 e 291
del 1964, dedicati alle architetture dei giovani architetti italiani e
che forniscono ancor ‘oggi un quadro-manifesto di estremo
interesse.
Nonostante i molti cambiamenti che sono intercorsi tra gli anni
Cinquanta e il nostro contesto storico-culturale, il fine di questa
nostra operazione intende avvicinarsi a quella rogersiana nello
scoprire figure (lo sottolineiamo ancora una volta non tutte e non le
uniche) con le quali ampliare la conoscenza storica architettonica
mettendo in relazione contesto culturale ed approcci progettuali. A
differenza dell’operazione rogersiana, per noi il fine non
è direttamente quello di legittimare un nuovo modo di
progettare (anche se il pericolo sempre incombente nella progettazione,
ora come allora, è quello del conformarsi a “nuovi
e correnti International Style” negando le ragioni storiche o
contestuali), quanto piuttosto fornire esempi di “altri
moderni” praticati da figure che hanno popolano non tanto i
centri dei linguaggi quanto le periferie degli stessi. Non
dev’essere equivocato quindi né l’uso
del termine “Maestri” (i nostri non lo sono alla
stregua per esempio dei tre indicati da Peter Blake) ne confusa
l’operazione culturale che non è quella di voler
portare necessariamente alla ribalta figure secondarie della storia
dell’architettura e della città.
Quanti di voi abbiano incontrato nel corso della formazione testi di
storia dell’architettura internazionale pur sempre parziali e
frutto di impostazioni storiografiche diverse volutamente inclusive od
esclusive ne ricordano soprattutto la densità.
Così che per esempio l’Architettura contemporanea
di Tafuri e Dal Co (1976), nelle sue oltre quattrocentoventi pagine di
grande formato cita a malapena Wurster in una veloce elencazione di
esponenti della Bay Regional Style. Per trovare traccia ben
più marcata di alcune delle figure da noi prese ad esempio
dobbiamo passare a Zevi la cui Storia dell’Architettura
Moderna (1950) è ben più incline al considerare
le attività americane. Vi trovano posto infatti Wurster,
descritto da Zevi come il maggior esponente del Bay Regional Style ed
Edward D. Stone mentre Rudofsky è ricordato per la
collaborazione a fianco di Cosenza in alcune opere napoletane. Nulla,
invece, di ciò che stava ad Oriente di Zevi che, come noto,
aveva lo sguardo rivolto verso l’Atlantico.
In conclusione, quindi, auspichiamo che la nostra idea di presentare
alcune figure dell’architettura del Novecento (dimenticate o
misconosciute) oltre a partecipare all’arricchimento della
conoscenza storica, possa servire da stimolo al panorama generale con
il contributo critico “parziale, appassionato, politico,
condotto (ovviamente) dal nostro punto di vista esclusivo, ma tale da
aprire il più ampio degli orizzonti”. Un invito a
fare altrettanto nella convinzione che l’esercizio della
critica possa contribuire a ricollocare il progetto
dell’architettura e della città nel corretto ruolo
che gli compete nella storia della civiltà.
1
George Braque, che insieme a Pablo Picasso diede vita al Cubismo,
scrisse nei Cahiers 1917/47, che spesso “l’artista
non è incompreso, è misconosciuto”. G.
Braque (1948), Cahier
de Georges Braque 1917-1947, Maeght, Paris. 2
«Un metodo semplice per conoscere la misura di un artista sta
nell’esaminare il suo pubblico». C. Baudelaire, Di
Ary Scheffer e delle scimmie del sentimento, in Salon del 1846, ora
in
Id., Scritti
sull’arte, Einaudi, Torino 1981. 3
Con le debite proporzioni tra il contesto storico di Baudelaire e il
nostro, ossia con la differenza delle motivazioni che spingono oggi il
pubblico a visitare le mostre d’arte e
d’architettura, che rientra nel campo più ampio
della promozione degli eventi artistici e architettonici effettuata dai
media sulla base di vere e proprie strategie di marketing, potremmo
verificare che pubblico attrae una mostra su Aldo Rossi a differenza di
una su Frank Gehry. La citazione di Baudelaire è questa:
«Un metodo semplice per conoscere la misura di un artista sta
nell’esaminare il suo pubblico. E. Delacroix può
contare sui pittori e i poeti; Decamps, sui pittori; Horace Vernet sui
militari delle caserme (…) ». 4
Charles Baudelaire, A
che serve la critica? In Salon del 1846,
ripubblicato in Id., Scritti
sull’arte, Einaudi, Torino 1981,
p. 57. 5
Id. 6
Ci si riferisce allo scambio di articoli che Banham e Rogers scrissero
dalle riviste che dirigevano (Architectural Review per Banham e
Casabella-Continuità per Rogers). Si vedano R. Banham (1959)
“Neoliberty. The Italian Retreat from Modern Architecture, in
Architectural Review, n. 747, aprile; E. N. Rogers (1959),
“L’evoluzione dell’architettura (Risposta
al custode dei frigidaires)”, in
Casabella-continuità, n. 228, giugno. 7
Vedi L. Semerani (2000), L’Altro
Moderno, Allemandi, Torino.