L’architettura turistica di Vietti in Costa Smeralda tra tradizione e finzione

Alessandra Cappai




Il dibattito teorico e progettuale sulla pianificazione e architettura turistica negli anni Sessanta.
Fino ai primi anni Sessanta del Novecento le principali riviste italiane esplorano l’architettura e urbanistica per il turismo in modo puntuale, limitandosi a emblematici progetti architettonici di strutture ricettive (Cappai 2013). La crescente domanda edilizia nei litorali obbliga Francesco Tentori (1963) ad annunciare la preparazione di due numeri speciali di Casabella, interamente dedicati al tema della trasformazione delle coste1. La critica italiana rivela tra le righe una denuncia alla privatizzazione estensiva delle coste: l’allora direttore della rivista Rogers (1964) afferma l’urgenza di affrontare il tema dell’edificazione per scopi turistici soprattutto per gli effetti di speculazione urbanistica che questa stava provocando, e l’importanza di poter rivendicare buone pratiche, o per lo meno intenzioni, di pianificazione turistica costiera organica, intelligente e rispettosa del paesaggio. 
Nei numeri citati vengono inclusi i progetti dei grandi maestri quali Quaroni, BBPR e D’Olivo,  che si avvicinano alla progettazione turistica sperimentando nuove forme di costruire città. Non sono invece presi in considerazione i lavori di quegli architetti che, inclini fino alla seconda guerra mondiale all’architettura moderna e razionalista, decidono di allontanarsene e riscoprire l’architettura mediterranea, meglio adattabile al contesto turistico. È il caso dell’opera di Luigi Vietti nella Costa Smeralda, che trova nel linguaggio neorealista il punto di riferimento per la costruzione del paesaggio turistico di nuova fondazione, quando i suoi principali sostenitori, tra gli altri Quaroni e Ridolfi, l’avevano ormai superato.
L’avversione della critica nei confronti dell’architettura turistica si accentua per il carattere elitario ed esclusivo di alcuni insediamenti, tra essi la Costa Smeralda (Tentori 1963). Lo stesso posizionamento emerge dalla maggior parte dei racconti sulla sua costruzione, caratterizzati da un tono mitico e fiabesco. Cosi descrive Bandinu in modo ironico (1982) l’approdo del Principe Karim Aga Khan in Sardegna, che a soli 26 anni fondò la Costa Smeralda e il rispettivo Consorzio, che presiederà per i successivi trenta anni.
«Questa terra non era abitata da uomini. Il Principe volle che fosse sua. Un principe nell’avventura del mare incontra una terra incantata, la sceglie mosso dal piacere: ma nelle vesti del turista porta inevitabilmente i caratteri dell’uomo mercante».
L’Aga Khan decise di creare la Costa Smeralda alla luce di ciò che accadeva nella vicina Costa Azzurra, che perdeva la sua esclusività per via della sua posizione facilmente raggiungibile dagli altri paesi d’Europa. Agli albori di questo sviluppo, per attirare investitori e possibili acquirenti, l’Aga Khan dispose un collegamento attraverso un volo charter, con il quale gli amici del Principe potessero raggiungere le terre dei Monti di Mola (trad. monti di pietra), presto ribattezzate Costa Smeralda.
Su proposta dell’Aga Khan si decise di formalizzare la nascita della Costa Smeralda attraverso la costituzione di un Consorzio: ciò avrebbe garantito che i soci rispettassero uno statuto ufficiale e delle norme comuni, evitando che ciascun intervento fosse a discrezione del singolo acquirente. L’atto costitutivo del Consorzio Costa Smeralda fu firmato il 14 marzo del 1962 dai sei fondatori. Il consorzio si presenta come un’associazione non lucrativa, «con lo scopo di programmare un equilibrato sviluppo urbanistico e residenziale e di dotarlo di opere di qualità necessarie per una migliore valorizzazione turistica2». Al principio era costituito solo dai sei fondatori e presieduto dall’Aga Khan.
Lo scopo del Consorzio era di riunire sotto un’unica gestione, le ingenti inversioni previste, affinché l’operazione finanziaria avesse esito a lungo termine. Ciò che differenzia la Costa Smeralda dalle altre realtà turistiche sarde e non solo, è la forma consortile di gestione di tremila ettari di territorio costiero, con il fine di ottenere un livello di qualità più elevato e un controllo centralizzato. Per definire le norme edilizie, valutare i progetti e avviare i primi edifici della Costa Smeralda, il Principe Aga Khan scelse un’equipe di architetti internazionale per formare un Comitato di Architettura. Luigi Vietti sarà a capo del comitato e principale progettista del Principe.

Dal paesaggio rurale e pittoresco all’invenzione del paesaggio turistico.
Inizialmente, Vietti accompagnò il Principe in un viaggio attraverso la Sardegna per raccogliere i caratteri degli insediamenti e dell’architettura tradizionale popolare. Questi, mescolati, reinterpretati e rinominati, dovevano diventare gli elementi guida per la progettazione della Costa Smeralda. L’obiettivo del comitato era, in questa prima fase, non intaccare la natura imponendole in modo violento l’edificato, cosa che avrebbe messo a rischio il carattere paradisiaco e intatto della destinazione turistica. Come altri architetti che approdarono in Gallura, anche Vietti si trovava di fronte ad un territorio in cui tutto era permesso, e spettava alla sensibilità di ciascuno saper spendere quella libertà con cautela.
Il paesaggio immanente preesistente costituisce la caratteristica predominante del nuovo territorio turistico, garantendo l’immagine di enclave paradisiaca indipendentemente dalla qualità architettonica raggiunta. Il paesaggio pittoresco costituirà per Vietti il punto di partenza per la progettazione architettonica e urbana: gli elementi preesistenti del territorio, sia naturali sia antropici, costituiscono un potenziale elevato per la fondazione del territorio turistico. Tra gli elementi naturali del territorio gallurese emergono la morfologia, la conformazione rocciosa del terreno e la vegetazione rada a macchia mediterranea e ginepri; tra gli elementi antropici l’antica suddivisione catastale definita dai muri a secco e i sentieri preesistenti.
Conservando solo in parte la sua matrice razionalista, riscoprì l’architettura povera, quella dei contadini e dei pescatori, e l’adattò alle nuove esigenze. Da qua l’associazione del lavoro in campo turistico di Vietti con le vicende del neorealismo, diffuse in Italia nel secondo dopoguerra dal campo cinematografico fino all’architettura: la riscoperta delle tecniche costruttive, il sapere tradizionale, di forme spontanee e legate alla vita contadina caratterizzano questa corrente, che già Vietti aveva sperimentato negli anni Trenta in alcuni dei suoi lavori.
In Costa Smeralda però l’intervento sarebbe stato totalmente artificiale, poiché quelle coste quasi non erano state intaccate dall’attività umana. Sarà il genius loci a suggerire al progettista come intervenire sul territorio, e solo l’analisi attenta del luogo permetterà di ottenere un’architettura invisibile.

Il progetto di Porto Cervo: dall’architettura tradizionale alla mediterraneità dei borghi di pescatori.
L’opera di Vietti nella Costa Smeralda parte, contrariamente alla pratica comune, dalla scala architettonica per arrivare a quella urbana. Il borgo di Porto Cervo nasce, infatti, dalla progettazione dell’hotel omonimo e le prime ville private, per poi articolarsi in pianta e in prospetto con nuovi volumi, strade e piazze che si adattano alla conformazione del terreno dando vita al “centro abitato”.  I piani di lottizzazione saranno infatti redatti posteriormente all’inizio dei lavori, per l’esigenza di regolare e strutturare un edificato la cui distribuzione era ormai già stata avviata.
Vietti dichiara che la vegetazione aspra del territorio gallurese, prevalentemente composta da ginepri, sia stata il principale punto di riferimento per la progettazione delle ville private. Il cambiamento di proporzioni nella macchia mediterranea lo condusse a voler progettare delle «case che non si vedono» (Bianchi 1999).
L’altezza è un elemento fondamentale per nascondere le costruzioni nel paesaggio circostante. Prendendo come riferimento l’altezza massima dei ginepri e il movimento nel terreno creato dalle rocce granitiche, le costruzioni potranno quindi raggiungere massimo due livelli. In questo modo si ottiene un’integrazione delle ville nel paesaggio e non si ostruisce la visuale alle abitazioni limitrofe. La difficoltà progettuale riscontrabile nei terreni in pendenza è affrontata in modo tale che i piani non si sommino tra loro. Se su un piano inclinato si costruiscono delle case, anche solo di due piani, senza lasciare spazio verde tra una casa e l’altra, l’effetto ottico sarà comunque quello di un edificio multipiano; rispettando gli spazi, la prospettiva nasconde una casa nell’altra (Bianchi, op.cit.).
L’uso di materiali e tecniche costruttive tradizionali è importante per riprodurre quasi fedelmente l’architettura locale: per gli elementi verticali si prediligono i blocchi monolitici tagliati di granito rispetto al cemento armato, mentre nelle strutture orizzontali il cemento è alternato a travi in legno o archi di pietra. L’uso degli archi nelle architetture di Vietti è presente già dagli anni Trenta nella Casa dei Pescatori alla Foce (1938). In quel caso però era l’uso antropico di quella costa a suggerirne l’uso, l’architettura vernacolare esisteva davvero, ed era fortemente legata al mare e all’idea di mediterraneità che invece era estranea alla Gallura. L’uso dell’arco sarà utilizzato soprattutto per distinguere il piano terra, generalmente un portico ad archi, dal corpo massiccio che su esso è poggiato.
Nel caso di Porto Cervo, a differenza delle ville che cercano di nascondersi dietro il paesaggio e l’hotel Pitrizza che pretende mimetizzarsi in esso, le intenzioni di Vietti sono distinte. Non più un tentativo di camouflage, ma l’uso del colore vivo nelle abitazioni come rappresentazione della vita quotidiana degli abitanti, «rosa, giallo, celeste, come si usa nel Mediterraneo» (Abitare 1973, p.95).
La ricreazione di un villaggio di pescatori costituisce un’immagine turistica diffusa, dove il porto diventa il nucleo centrale del borgo. Il porto costituisce il fulcro e la principale porta d’accesso a Porto Cervo, da qui l’utilizzo di un cromatismo negli edifici che avrebbe funzionato da punto di riferimento per chi giungesse dal mare. Le costruzioni di Porto Cervo, originariamente di colore bianco, furono in seguito pitturate con diverse cromature e costrette ad un trattamento di falsa invecchiatura per contribuire a creare l’immaginario del centro storico. Inoltre, Vietti adotta altri elementi del linguaggio architettonico mediterraneo come i portici, loggiati, passaggi aerei comunicanti e scale esterne. Questi sono adattati da Vietti con l’aggiunta di un «tono pittoresco verso il quale induge senza pudori e pentimenti» (Secchi, in Dell’Aira 1997). «Il risultato è un cocktail di esotismi ed elementi diffusi nella cultura mediterranea»  (Barisione, Scelsi 1999, p.36).
Per riprodurre fedelmente l’idea di mediterraneità nel nucleo turistico di Porto Cervo, centro nevralgico della Costa Smeralda, Vietti adotta degli elementi tipicamente urbani facilmente adattabili all’ambiente turistico. L’uso di una o più piazze circondate da attività commerciali e di ristorazione, collegate tra loro da pittoreschi vicoli alternati a porticati e scale, favorisce l’incontro tra lo spazio pubblico e quello privato, quest’ultimo costituito dagli alloggi dell’hotel Cervo e dai commerci. Non bisogna dimenticare tuttavia, che a Porto Cervo anche lo spazio pubblico è in realtà uno spazio privatizzato e controllato (Cappai, Alvarez 2012).

L’approccio stilistico di Vietti: neorealismo o genius loci?
È difficile, dunque, riconoscere quanto di reale ci sia nei riferimenti stilistici della Costa Smeralda di Luigi Vietti. La riproduzione di un villaggio mediterraneo di colore pastello con effetto degradato, poco ha in comune con gli insediamenti preesistenti in Sardegna. Vietti stesso riconosce che, a differenza della Riviera ligure, in Sardegna era difficile adattarsi ad un’architettura spontanea costiera, giacché questa, nei pochi centri storici come La Maddalena, Arbatax o Torre Grande, non possedeva caratteristiche sufficientemente forti. (Abitare 1973). Adattarsi ai pochi riferimenti esistenti avrebbe significato agire in modo semplicistico. D’altra parte bisogna ammettere che il principale riferimento dell’architettura gallurese, lo stazzo, non si prestava a subire un riadattamento stilistico. Lo stazzo era legato a un’economia pastorale povera, e la sua pianta monocellulare o bicellulare non era adatta né alla distribuzione spaziale articolata di una struttura ricettiva alberghiera, né tantomeno alla grande superficie delle ville di lusso.
Bisogna quindi cercare altrove, probabilmente in ambito ligure o francese, il riferimento per il borgo di Porto Cervo. L’uso dell’effetto cromatico suggerisce il paesaggio di Portofino e altri borghi liguri, tutti questi veri centri storici, o anche quelli francesi di Port Grimaud e Port la Galere, territori turistici di fondazione. La rivista Abitare definiva Porto Cervo e Port Grimaud, in tono abbastanza critico, neo-paesi, neo-centri o paesi finti, e il loro stile newpopstyle, in linea con la definizione di neosardischer stil di Baumeister (1969, n.8). Nel processo di contaminazione i diversi riferimenti stilistici, spinti dalla velocità di contatto, finiscono col confondersi, ed è difficile distinguere il modello originale dalla sua riproduzione (Trillo 2003). Ma per gli architetti non era una priorità distinguere Portofino da Porto Cervo, o il vero dal falso, poiché tale contesto soddisfaceva il cliente esclusivo molto più delle riproduzioni urbane per l’architettura balneare degli stessi anni.
Lo stesso Regolamento Edilizio del consorzio, che fu stilato anche da Vietti in veste di capofila del comitato d’Architettura, impone all’art.44 Estetica Architettonica che le costruzioni non si allontanino da un tipo di architettura mediterranea. Il Comitato, per la valutazione della conformità dei progetti al regolamento, si attiene ai «criteri ispiratori dell’architettura mediterranea». In esso si raccomanda che i corpi delle costruzioni siano in armonia con la topografia del terreno e che siano evitate linee e forme troppo rigide, che s’integrerebbero difficilmente con il paesaggio della costa.
Non si legge nessun riferimento specifico quindi, neanche alla Sardegna, ma piuttosto un insieme di elementi tratti dall’architettura popolare del mediterraneo, che simulano, soprattutto a Porto Cervo, l’«urbanità mediterranea», conseguita con una precisa articolazione degli spazi, delle strade e delle piazze, e con la definizione architettonica ma non semantica dello spazio pubblico. Questi elementi, mescolati armoniosamente, devono inserirsi nella topografia del terreno senza causare un forte impatto; l’immanenza del paesaggio naturale rende così più facile il lavoro dell’architetto.
Conforti (1997) suggerisce la relazione tra il caso della Costa Smeralda e il movimento neorealista, individuando un filo comune tra le opere del neorealismo e certe operazioni turistiche, tra cui il borgo di Porto Cervo: «Forme elementari, materiali comuni -intonaco, tufo, pietra locale, legno- assenza totale di aggettivazione, traducono simbolicamente in architettura la dignitosa povertà di una società frugale e antica e annunciano la speranza di un progresso capace di non cancellare la tradizione».
Tuttavia, per legare l’opera di Vietti al neorealismo, è necessario fare riferimento non solo al tentativo di recupero dell’architettura locale spontanea, peraltro fedele solamente nell’utilizzo di certi elementi costruttivi quali gli archi o i materiali naturali, ma piuttosto ai suggerimenti del territorio che Vietti coglie con acuta sensibilità. Dall’analisi dei piani emerge che l’approccio sistematico e dettagliato alla natura del terreno, la morfologia e i venti, è la sua versione del neorealismo. Non solo l’assetto ambientale, ma anche le tracce preesistenti dell’uomo: i sentieri sono lo spunto per il tracciato delle strade, che sono disegnate quasi manualmente sul territorio, e i muri a secco diventano i limiti delle lottizzazioni o dei lotti stessi.
Il neorealismo di Vietti, ben lontano dagli interventi della penisola come il Tiburtino a Roma di Quaroni, è da intendersi dunque come l’insieme della raccolta degli elementi naturali e antropici del territorio preesistente, per la fondazione di un territorio che invada meno possibile il paesaggio originario, attraverso l’adozione di uno stile mediterraneo che sebbene si discosti da quello propriamente locale, riesce a Porto Cervo nella creazione dell’urbanità. Il grande paradosso rimarrà la clientela agiata che richiede abitazioni in stile povero, e la piazza del paese come punto d’incontro di una popolazione mordi e fuggi.


Note
1 Si tratta di Casabella Continuità (1964), 283, “Numero dedicato alle coste italiane urbanistica”, e il 284 “Coste italiane 2: esempi tipologici”. Il posizionamento teorico della critica che emerge in questo paragrafo è tratto in particolare dagli interventi di: Ernersto Rogers con l’articolo “Homo Additus Naturae”, e Francesco Tentori con l’articolo “Ordine per le coste italiane”, nel numero 283.
2 Presentazione del Consorzio nella pagina ufficiale www.consorziocostasmeralda.com