Attraversare per rammemorare. Infrastruttura come museo dislocato

Filippo Lambertucci




Intorno ai nodi della trasporto pubblico sotterraneo non si addensano solamente esigenze di pura mobilità, ma anche declinazioni di spazio pubblico sempre più importanti per la città contemporanea.
Sempre più spesso accade che questi spazi si carichino di significati e funzioni attribuite tradizionalmente a luoghi pubblici quali strade e piazze, con il concorso in alcuni casi di attività commerciali ma anche, sempre di più, di valori visuali e culturali portati dall'interazione con arte e patrimonio.
Se da una parte l'idea di arte pubblica può avere il merito di aver sottolineato l'inadeguatezza di gran parte di quegli spazi di transito intesi come mera espressione utilitaria, d'altra parte porta con sé il limite di una dimensione che attiene ancora a un ruolo ancillare di sostegno decorativo e consolatorio impiegato per la "mitigazione" di spazi inespressivi.
Si va invece consolidando un criterio di approccio che supera la dimensione decorativa, come da tempo portato avanti in forma di collezione da molte Metropolitane, in favore di un coinvolgimento più radicale nella definizione dello spazio e del suo valore.
In qualche modo la strada è stata aperta in maniera sistematica prima nel 1985 dall'MTA Arts for Transit Program della metropolitana di New York (Bloodsworth, 2014) e più tardi introdotto in Italia dall'operazione delle "Stazioni dell'Arte" a Napoli che, anche se sviluppando un più incisivo approccio site-specific, esteso spesso anche all'esterno, ha tuttavia lasciato ancora insoluti molti nodi sul piano dell’organizzazione spaziale e del programma funzionale, anche se lo straordinario successo di critica e di pubblico ha evidenziato l'efficacia anche di un minimo upgrade concettuale; l'aspetto più importante è infatti proprio su questo piano, legato a un concetto di esperienza museale che A. Bonito Oliva, curatore dell'intera operazione, ha definito con grande efficacia "Museo Obbligatorio".
Il museo obbligatorio porta il museo fuori dai suoi recinti ad incontrare la città e può essere uno strumento straordinario quando riferito alla messa in luce del patrimonio storico e archeologico urbano; in questo la rete infrastrutturale può agire come un capillare museo dislocato, con una potenzialità enorme in termini valoriali tutta riferita alla possibilità di portare l'esperienza di visita direttamente in situ.
Come evidenzia M. Laudato (2019), «il patrimonio archeologico, portando la sua autorità nella Metro, conferisce anche il suo potenziale di significato culturale, in qualche modo potenziando lo spazio della Metro come una parte integrante della narrazione storica sottolineando il locale senso del luogo».
Se il coinvolgimento delle opere d'arte rimane inevitabilmente in un dominio in qualche modo ambiguo del confronto tra opera e spazio che la ospita, le implicazioni per l'interazione con il patrimonio e i suoi luoghi diventano rilevanti nei termini in cui queste attivano livelli più complessi di significato.
La presenza attiva del patrimonio, nel luogo dove esso è stato e deve essere, attiva i registri dell'autenticità e del senso del luogo ad un livello concettuale ed esperienziale tali da trasferire all'infrastruttura quegli attributi propri del museo come costruzione e costruttore di significati socioculturali e identità urbana (Merrill 2015, 76), ma caricano l'infrastruttura della responsabilità della messa a punto di statuti aggiornati e necessariamente ibridi rispetto alle categorie che hanno definito in purezza tanto l'edificio museale quanto la metropolitana
In questa direzione molte esperienze hanno già offerto declinazioni non sempre pienamente convincenti: quella della Metro di Atene ne è la pioniera (1994-2004), ma soffre tutti i limiti di un allestimento ancora decorativo e non sempre felicemente integrato, penalizzato dall'accostamento ingenuo di vetrine e frammenti di sapore vetero-museografico a spazi del transito architettonicamente modesti. (Lambertucci, 2015) (Fig. 1)
A Sofia (2016 e prec.) il tentativo è più aggressivo ma non per questo più riuscito, mentre è da segnalare proprio la carica identitaria attribuita al programma dal governo (Fig. 2); a Salonicco invece  è stato proprio l'interessamento popolare che ha costretto ad un significativo cambio di rotta in direzione di un adeguata integrazione con i ritrovamenti e si attendono a breve i risultati della riprogettazione in tal senso
In Italia la disastrosa esperienza della Linea B a Roma (1955) (Fig. 3) ha disperso un'occasione irripetibile (Buzzetti e Pisani Sartorio, 2015) ma anche a Milano il complesso dell’antico battistero di San Giovanni alle Fonti pur essendo stato riportato alla luce grazie ai lavori per la Metro è stato sottratto al godimento pubblico per essere inserito nel percorso museale del Duomo.
Ancora una volta l'esperienza della Metro di Napoli è invece in grado di tracciare una prospettiva più convincente con il progetto della stazione Municipio, affidato a A. Siza e E. Souto De Moura, che è diventato un complesso laboratorio, per ricchezza e consistenza dei ritrovamenti e soprattutto per la volontà di portare a termine un programma che potesse recepire tutte le opportunità provenienti dalla messa a sistema con le importanti strutture che dalle più svariate epoche sono venute alla luce ai piedi del Maschio Angioino.(Fig. 4)  Il progetto, pazientemente e onerosamente rimodulato ad ogni ritrovamento non ha voluto perdere l’occasione per configurare una sistemazione urbana che dal waterfront si incunea fino al Municipio trovando finalmente soluzione unitaria ad un insieme eccezionale sia di fatti urbani che di storiche problematiche.(De Risi, 2015)
A Roma, dove tutta la città storica è un immenso parco archeologico il tema della conservazione e del godimento del suo patrimonio si pone spesso in termini estremi, soprattutto quando si trova a fronteggiare lo sviluppo delle reti di trasporto sotterranee.
Per anni si sono fronteggiati due partiti sordi l'uno all'altro: da una parte l'upgrade funzionale e tecnologico con gli argomenti della causa di forza maggiore, dell'inevitabilità del servizio ai cittadini; dall'altra parte, invece gli argomenti della conservazione, dispiegati in termini di esclusiva difesa, orientati a scongiurare o minimizzare i danni e troppo spesso la conservazione si traduce in questo: messa al sicuro e scomparsa.
I magazzini italiani sono pieni di opere d'arte e reperti archeologici: ma un patrimonio quasi inaccessibile e in alcuni casi dimenticato può essere definito come perfettamente conservato?
E' sufficiente che lo sia tecnicamente, fisicamente o forse una parte del valore è anche nel suo godimento da parte di un pubblico più ampio di quello degli specialisti?
Il progetto di allestimento per la stazione San Giovanni sulla nuova Linea C a Roma ha voluto rispondere a questi interrogativi partendo proprio dalla accessibilità alle informazioni come principio primo per una corretta e completa conservazione.*
L'assenza dei beni da conservare rende certamente più complessa l'operazione, ma al tempo stesso rende molto più chiara l'importanza e il ruolo della dimensione concettuale, in base alla quale vengono resi comprensibili ai fruitori i criteri per decifrare  ciò che stanno vedendo.
L'allestimento si basa infatti sulla costruzione di una narrazione che a partire dalla stessa assenza di ciò che è stato ormai rimosso, ricompone allo stesso tempo la Storia e le storie di cui i reperti sono diventati testimoni muti poiché il luogo, reso tabula rasa dallo scavo, non è più in grado di restituire informazioni. (Fig. 5)
La narrazione è lo strumento grazie al quale 40.000 frammenti e almeno una dozzina di strati storici possono ritrovare una collocazione al tempo stesso fisica e concettuale e acquisire infine un valore proprio perché ricollocati in un contesto, anche se soprattutto mentale. (Fig. 6)
Ma è proprio questo il livello su cui il progetto si sviluppa: rendere percepibile l'impaginato degli strati archeologici attraverso l'immersione fisica nella struttura di un racconto che si fa tangibile e addirittura attraversabile. (Lambertucci, 2019)
La stazione di metropolitana non ha le stesse finalità e non ha le stesse modalità di uso di un museo, il cui visitatore nutre delle aspettative culturali ed è disposto all'esperienza che sceglie di fare. Chi attraversa gli spazi di stazione ha una velocità più alta di chi si aggira senza fretta tra le sale di un museo, e ha una concentrazione focalizzata all'ottimizzazione del tempo di attraversamento e semmai, alla propria sicurezza.
Se l'attenzione del viaggiatore è orientata alla velocità l'allestimento dello spazio deve essere sincronizzato per non generare disfunzioni; lo spazio non può quindi essere allestito come un normale museo, perché costringerebbe a un rallentamento che è in contraddizione con le intenzioni del passeggero e porterebbe a un malfunzionamento sia come stazione che come spazio di esposizione. (Fig. 7)
Ma W. Feuer (1989, 151) pone in merito una questione di valore:"qual è la responsabilità verso chi non ha pagato per vedere arte ma per un servizio di trasporto?" alla quale si può rispondere facilmente che è quella di offrire un'esperienza museale al costo di una corsa.
M. Augé (1992, 8) aggiunge una considerazione interessante in merito ai nostri comportamenti in metropolitana: "La maggior parte dei nostri itinerari in metropolitana sono quotidiani e obbligatori. Non scegliamo di trattenerli o meno nella nostra memoria: ne rimaniamo impregnati ".
Per questa ragione il progetto punta alla formazione di un'atmosfera avvolgente grazie alla quale l'attraversamento della storia diventa un'esperienza totale che viene organizzata su registri narrativi che coinvolgono tutto lo spazio disponibile. (Fig. 8)
Le pareti sono state immaginate come veri e propri fogli su cui scrivere e disegnare la narrazione su cui spicca lo stratimetro, un dispositivo grafico grazie al quale il passeggero può conoscere sempre la sua posizione sia nello spazio che nel tempo, mediante una barra graduata che riporta sia la profondità fisica che la collocazione cronologica corrispondente. (Fig. 9)
I reperti ritrovati non hanno in sé un particolare valore artistico ma nel loro insieme ricompongono un inestimabile giacimento documentario; tranne rare eccezioni si tratta di quel tipo di reperti che in esposizione non esercitano attrazione e curiosità e normalmente finiscono per riempire i magazzini. (Fig. 10)
In questo caso diventano i testimonial delle storie che vengono costruite intorno a specifici temi, spesso anche di banale vita quotidiana.
Così la narrazione ha voluto ridare vita ad alcuni di essi mettendo i reperti a sistema con un dispositivo che ne chiarisse il ruolo in un contesto di vita di cui si potesse fare esperienza.
Ma la messa in mostra dei reperti non può seguire un criterio squisitamente museologico e deve piuttosto assecondare i flussi dei passeggeri senza ostacolarli; per questa ragione le vetrine sono sempre disposte in luoghi di calma o in luoghi strategici per le visuali e la disciplina dei flussi. (Fig. 11)
L'allestimento non ha il carattere didascalico proprio del museo, anche se non manca di essere rigoroso nei contenuti scientifici, ma privilegia la dimensione esperienziale per raggiungere un livello di comunicazione facile ed accessibile, che spesso un museo convenzionale non riesce a dare per intero.
La dimensione del contesto in questo caso è determinante per legare le nozioni storiche e le valutazioni artistiche, spesso astratte e lontane, alla realtà di luoghi che sono immediatamente percepibili, perché vissuti in un qui ed ora che si rivela estremamente efficace anche quando il luogo è stato completamente trasformato.
La narrazione dunque si afferma come efficace strumento al servizio della conservazione nel  momento in cui riesce ad attivare dei significati o anche solo delle esperienze emotive intorno ad un patrimonio altrimenti invisibile o incomprensibile. In un certo senso viene stimolato quel «riapprendimento continuo» che Ricoeur  (2018) riconduce all'atto dell'abitare come esperienza attiva e ricettiva dello spazio che implica una rilettura attenta dell'ambiente urbano.
La realizzazione di una linea di metropolitana offre ad una città storica l'opportunità irripetibile di attraversare il suo patrimonio e intercettarlo com'è e dov'è.
E' proprio questa dimensione di rete che offre l'occasione per uno sguardo diverso su una realtà che normalmente conosciamo solo in superficie, e ci può permettere di leggere la città in continuità con il suo patrimonio, uscendo dai confini tradizionali che segregano ciò che va conservato in recinti separati dalla vita urbana.
Ciò implica un cambiamento di paradigma: la città è museo e il museo si fa città; l'edificio museale per come lo si conosce in questo caso perde molte delle sue categorie convenzionali per come hanno alimentato sia la ricerca architettonica, che in questo caso è tutta riversata nel dominio degli interni, sia il suo ruolo di deposito e custode di memorie.
Non occupa uno spazio della città arricchendola della sua forma, spesso volutamente iconica, ma si incunea in essa, prendendone la forma in forza delle sollecitazioni estreme del terreno e delle preesistenze; non ammaestra più quindi attraverso i canoni di un'esperienza volontaria e iniziatica, ma quelli invece di una condizione a cui ci si presenta impreparati e indifesi e forse, proprio per questo, più ricettivi. (Fig. 12)
In quante altre occasioni è possibile attraversare fisicamente il patrimonio della città e comprenderne la sua complessità? A San Giovanni l'esperimento è stato quello di attivare un processo di conoscenza diffuso e in un certo senso involontario, proprio di chi attraversa normalmente la città; partendo da ciò che sarebbe andato comunque perduto, un processo narrativo ha riportato all'attenzione e alla comprensione dei cittadini un pezzo di città che non conoscevano e non avrebbero avuto modo di conoscere. (Fig. 13)

*Il progetto museografico e degli allestimenti interni della stazione San Giovanni è stato realizzato dal gruppo di ricerca del laboratorio ReLab dell'Università Sapienza di Roma guidato da Andrea Grimaldi e Filippo Lambertucci e composto dagli architetti Livio Carriero, Amanzio Farris, Valerio Ottavino, Samuel Quagliotto, Leo Viola; lo sviluppo del progetto grafico è stato seguito da Carlo Martino con Sara Palumbo e Delia Emmulo. Coordinamento scientifico Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica Centrale di Roma: Rossella Rea, con Irene Baroni, Anna De Santis, Francesca Montella, Simona Morretta e Cooperativa Archeologia: Anna Giulia Fabiani.