Luigi Vietti e l’avventura della Costa Smeralda

Pisana Posocco




Quando Luigi Vietti venne chiamato dall’Aga Khan a contribuire alla avventura dell’invenzione della Costa Smeralda ha già più di sessanta anni. Scelto per la grande esperienza maturata sui temi dell’architettura legata al turismo, per la carriera consolidata e per la brillante clientela che poteva vantare, Vietti porta con sé un ricco bagaglio culturale. La sua formazione era eterogenea e ricca: nel 1922 aveva iniziato a studiare al Politecnico di Milano, ma nel 1925 si era spostato presso la Scuola di Architettura di Roma. Questa era caratterizzata dalla presenza di Gustavo Giovannoni1 che proprio in quegli anni aveva iniziato ad indagare il tema della “architettura nuova nei contesti antichi”, strada che lo avrebbe portato alla questione dell’ambientismo. Tali studi confluiranno nel testo Questioni di architettura all’interno del quale Giovannoni avrebbe dedicato un capitolo, Ambiente dei monumenti, al tessuto storico riconoscendo valore non solo agli edifici monumentali ma all’ “architettura ambientale” ovvero a quel patrimonio vasto e diversificato che deve essere considerato come “monumento collettivo” e che egli insegna a riconoscere, conservare e interpretare.2 Vietti apprende da lui l’attenzione per i borghi ed i nuclei storici e per gli agglomerati di case spontaneamente sorti nel tempo. “Essi fanno parte del più ampio tema dei raggruppamenti irregolarmente pittoreschi in cui il valore dell’ambiente e dell’insieme spontaneamente composto è essenza stessa dell’architettura”3 dice il maestro.
Sembra quasi che la grande passione che animò Giuseppe Pagano e Gualtiero Daniel4, come pure Peressutti5, gli estensori della rivista «A.C.: Documentos de Actividad Contemporànea»6 a Barcellona, e molti altri che in quel periodo si interessarono all’architettura spontanea di radice mediterranea, avesse trovato in Vietti, cresciuto alla scuola di Giovannoni, una declinazione più urbana. Questo imprinting avrebbe caratterizzato le sue opere in Costa Smeralda, e ne avrebbe costituito uno degli aspetti precipui.
Luigi Vietti si era laureato a Roma nel 1928 con Gustavo Giovannoni. Il tema scelto per la tesi era quasi una anticipazione di quello che poi occuperà gli ultimi trent’anni della sua vita: un albergo sulle rive del lago Maggiore a Cannobio, suo paese natale. Egli inizialmente aveva proposto un tema su cui tornerà negli anni successivi con toni decisamente razionalistici: una Villa su roccia a sperone. A tal proposito disse: “fui avvisato che avrei conseguito appena il minimo dei voti, ed io avevo un impegno con mio padre da rispettare!”7 così scelse un soggetto che gli avrebbe permesso di mettere in pratica gli studi sulla “architettura ambientale”. La tesi aveva toni vernacolari e l’albergo assunse le fattezze di un paesino di pescatori.
Se il racconto fosse una excusatio non petita, o se fosse stata una cosciente scelta di campo, non è possibile saperlo ora. Sicuramente l’inizio della sua carriera fu fortemente indirizzato verso temi giovannoniani, anzi fu Giovannoni stesso che, all’indomani della laurea, lo segnalò per un incarico presso il Ministero dei Lavori Pubblici: doveva elaborare, per la Liguria, i piani regolatori di alcuni comuni in relazione alla legge per la “protezione panoramica”. In particolare doveva studiare alcuni borghi sul mare che costituiranno le premesse per molte sue riflessioni che carsicamente riappariranno in Sardegna quasi trent’anni dopo. Si occupò, infatti, di Portofino, di Camogli, Lerici, San Fruttuoso e dei comuni delle Cinque Terre. Negli anni successivi (1930-33) fu nominato Ispettore onorario per i monumenti della Liguria. Nel frattempo iniziò a lavorare come libero professionista, e questo fu l’ultimo incarico pubblico cui assolse. Questi anni dedicati allo studio del paesaggio, dei nuclei storici, dell’architettura vernacolare – e del paesaggio che la ha generata – furono fondativi. Sempre a questi anni sembrano risalire le sue riflessioni sui materiali e le cromie delle architetture mediterranee.
Un linguaggio mediterraneo forse non esiste perché il Mediterraneo è fatto di molti luoghi, molte tradizioni e molte cromie. Vietti studiò e consolidò in questo periodo le sue conoscenze; le sue convinzioni lo spinsero verso un’architettura policroma. Per lui i borghi marinari saranno sempre quelli colorati di Portofino ed in generale dei paesini liguri che si affacciano sull’acqua: un paesaggio antropizzato che racchiude in sé ambiente naturale e ambiente costruito in un continuum che mescola le parti, i materiali, i colori, i paesaggi. Giovannoni gli aveva insegnato che “essi fanno parte del più ampio tema dei raggruppamenti irregolarmente pittoreschi in cui il valore dell’ambiente e dell’insieme spontaneamente composto è essenza stessa dell’architettura”8. Tali erano state le premesse utili a Giovannoni per definire il concetto di “ambientismo”, e sicuramente è questo lo strumentario con cui Vietti affrontò i lavori urbanistici ed architettonici in Liguria prima e poi a Cortina d’Ampezzo durante gli anni ’40 e ’50. Con tale bagaglio poi arrivò in Sardegna.
Questa modalità di intervenire nel tessuto storico non sarà una categoria impiegata solo da Vietti, ma si può rintracciare un modo analogo in Ignazio Gardella a Venezia – e in generale nella sua opera – come pure in Albini a Parma e a Genova, nei BBPR, in Gabetti e Isola alla Bottega d’Erasmo e in molti protagonisti del secondo dopoguerra italiano. Più di trent’anni dopo gli studi di Giovannoni, ed in contemporanea con l’avvio della Costa Smeralda, Argan si ritroverà a riflettere sul tema dell’ “ambientismo” e dirà:

“Ambientare significa rendere familiare, evitare la sorpresa, fare sì che sorgendo l’edificio in quel luogo e in quelle forme, s’abbia non tanto la sensazione quanto il sentimento che lì sia stato da prima o che qualcosa l’abbia preceduto”.9

Vietti scrive poco, pochissimo: ci sono rimasti pensieri disegnati ma non note scritte. Queste parole di Argan sembrano ben esemplificare le sue intenzioni.
L’opera di Luigi Vietti in Costa Smeralda si caratterizza per alcuni temi che sembrano tutti legati ai suoi primi studi e lavori nei centri liguri di costa. Quella in effetti non solo era stata un’occasione formativa e fondamentale della sua crescita professionale, ma era anche l’esperienza più simile all’avventura che si accingeva a compiere ora.
Il lavoro svolto per quasi vent’anni a Cortina si era concentrato su singoli edifici, tutte commissioni private. Tra i progetti più riusciti si segnalano quelli nati proprio da recuperi di edifici esistenti, come la casa che preparò per sé stesso: la ristrutturazione di tabià del ‘600 a Crignes (1942). A Cortina si era cimentato solo parzialmente con la questione dell’inserimento paesaggistico e l’aspetto linguistico era stato affrontato in modo facile e naturale: lì infatti era presente un’architettura locale cui fare riferimento, a cui guardare per mutuarne forme e stilemi. Alcuni tabià, i fienili di montagna, ristrutturati o costruiti ex novo, si erano egregiamente prestati a divenire dimore per i Füstenberg e per i Marzotto. Vietti aveva lavorato con gusto unendo elementi antichi con soluzioni moderne, valorizzando gli aspetti popolari e vernacolari anche accostando preziosi elementi di antiquariato che egli stesso cercava per i committenti, andando ad acquistarli alle aste di Londra o ad Arezzo e Firenze presso grandi mercanti.10
Questa operazione in Sardegna non era stata altrettanto facile ed immediata. Infatti gli edifici esistenti sul territorio erano pochi, poco adatti all’uopo e di rado davano forma a nuclei urbani. Mancavano quindi dei precedenti chiari e incontrovertibili cui fare riferimento. Questo nodo ha dato poi luogo alle differenti interpretazioni degli architetti coinvolti nell’operazione della Costa Smeralda – Michele Busiri Vici, Jacques Couëlle e Antonio Simon Mossa – ognuno dei quali ha differentemente svolto il tema dell’architettura sarda, o architettura mediterranea, che era in qualche modo stato indicato dall’Aga Khan stesso come indirizzo comune per i vari interventi edilizi.
Per quanto possa apparirci scontato, il principe ismaelita, in un’intervista fattagli nei primi anni in cui era impegnato in Sardegna, disse che a lui interessa cercare la storia dell’isola e costruire in continuità con essa: usa i termini back into the tradition. Egli si rese conto che il paradiso che ha trovato potrebbe essere rovinato da uno sviluppo incontrollato,

“quello che voglio è evitare di trasformarlo in una prospettiva aziendale. Voglio contenere lo sviluppo e fare qualcosa di attrattivo, evitare che il posto sia sommerso: quello che stiamo cercando è di stare nello sfondo, nella tradizione dell’isola […] Abbiamo cercato di fermare assolutamente ogni costruzione lungo la costa a meno che non sia stata adeguatamente studiata e adeguatamente pianificata in anticipo: [agire diversamente] sarebbe una sciocchezza. Una cattiva pianificazione prima di tutto rovina il sito molto velocemente e, in secondo luogo, costa moltissimo e quindi cerchiamo di dedicare tutto il tempo necessario alla progettazione e poi acceleriamo, il più possibile, i tempi di costruzione”11.

L’Aga Khan era rimasto colpito dalla bellezza naturale del luogo: nonostante sia il padre che il nonno avessero scelto il sud della Francia come località dove avere una casa di vacanza e nella quale passare il loro tempo di riposo, egli era stato fortemente colpito dalla Sardegna e aveva scelto questo luogo per sé. Egli sembrava porsi come un esploratore che, nell’ammirare il luogo, cerca di comprendere usi e costumi delle popolazioni locali. Riconobbe in questi elementi un valore e indicò, come strategia di intervento, proprio lo studio e la riproposizione di quegli stessi elementi.
Agli architetti che lavoravano per lui indicò di “di tornare alla tradizione di una comunità insulare che è sconosciuta e ha uno straordinario folklore, arte, tradizione, costumi […] vogliamo prendere tutto ciò che possiamo di autenticamente sardo”.
Un po’ oltre spiega il criterio con cui aveva individuato i diversi interventi nelle diverse aree:

“(…) a Cala di Volpe l’idea era di costruire qualcosa che attiri lo sguardo12, che dia vita e carattere. A Liscia di Vacca13 è piuttosto l’opposto, è una graziosa baia, con graziose formazioni rocciose e [c’è] una particolare calma e qualcuno preferiva questo luogo ad ogni altro della costa; quindi l’idea era di costruire un hotel che fosse visibile a fatica e in effetti dall’area attorno e dal mare, per vederlo, bisogna osservare da vicino e attraverso gli ostacoli.”14

Queste sono alcune delle indicazioni su cui, plausibilmente, Vietti iniziò a lavorare. L’hotel Pitrizza diverrà il più esclusivo della Costa Smeralda. Il riferimento linguistico sembra essere proprio lo stazzo, la costruzione in pietra, in genere granito, di piccole o piccolissime dimensioni tipica degli insediamenti rurali o legati alla pastorizia della Gallura. In genere ha un solo piano.
Fra le prime strutture costruite in Costa Smeralda, il Pitrizza è l’unica che usa la pietra in modo così pervasivo. Questa preferenza gli procurò anche qualche problema, infatti René Podbielski, che ne era il committente, criticò questa scelta così severa, quasi nuragica, scelta che l’Aga Khan fece mostra di apprezzare15.
L’albergo non era stato disegnato come un unico corpo di fabbrica, ma era stato “smontato” in più volumi. Questa operazione non aveva l’intenzione di configurare un borgo, quanto piuttosto di permettere all’albergo di inserirsi nel paesaggio sino quasi a scomparire: i vari volumi ospitavano, oltre alle parti comuni, le suite per gli ospiti. Questi edifici in pietra si mimetizzavano anche in virtù del loro tetto verde, per quell’epoca una proposta altamente innovativa, che portò con sé critiche ed inevitabili problemi di manutenzione.
Qualche anno più tardi realizzò la piscina dell’albergo, che divenne presto nota per la sua bellezza e per l’audacia che Vietti aveva usata nell’integrarla al paesaggio: è una piscina a sfioro, costruita tra le rocce, che non rimuove ma lascia all’interno della vasca. Da dentro si traguarda il mare, in continuità con l’acqua entro cui si nuota. Vietti raccontò:

“Ho scavato le rocce, che erano color marrone. Allora le ho dipinte di celeste chiaro e più scuro. Danno il senso della profondità. Questa idea di ricavare una piscina tra le rocce nasconde il lavoro dell’uomo rispetto al lavoro della natura”16.

L’altro incarico importante che Vietti ricevette dall’Aga Khan all’inizio dell’avventura sarda fu il complesso di Porto Cervo. Le aree attorno all’insenature erano state affidate ai vari architetti che il principe aveva ingaggiato per lo sviluppo dell’operazione immobiliare. A lui venne chiesto di progettare un albergo, l’hotel Cervo, ed il complesso che doveva dal forma al piccolo nucleo urbano di Porto Cervo.
Vietti aveva dimostrato interesse a mettere a fuoco la strategia con cui un singolo edificio si può inserire nella natura, ma anche a sperimentare come poter edificare un agglomerato di edifici che possa inserirsi nel paesaggio: egli era interessato al portato urbano dei suoi interventi e in questo caso sembra proprio fa ricorso alla sua esperienza ligure. In Sardegna, infatti, le costruzioni lungo la costa sono pochissime. Non c’era un ampio campionario di borgate marine. Vietti fece riferimento alla memoria dei borghi liguri.
Portofino, località amata già dai viaggiatori del grand tour, negli anni ’50 fu particolarmente apprezzata dai divi del cinema e divenne una meta della dolce vita. Si consacrò così come luogo di vacanza, emblema di un mondo di lusso ed agi riservato ad una élite. In tal senso il riferimento è calzante per la Costa Smeralda, sia per la natura del luogo, sia per i valori che questo esempio portava in sé. La piazzetta, poi, era l’immagine rappresentativa di questo mondo e dei suoi riti.
Il borgo peschereccio di Portofino, ma così in generale i borghi liguri, si presenta come un aggregato di case che si affacciano sul mare, raccolte attorno ad un porto e alla piazza. Le case nella tradizione ligure, ed anche in verità quelle di altri luoghi del Mediterraneo, sono colorate. Le tinte sono eterogenee: ocra, arancioni, rossi, gialli, crema, per lo più colori caldi ma non solo; le imposte sono spesso verdi. Il tempo e la presenza del mare invecchiano gli intonaci che si scialbano e si ammorbidiscono.
Su questi temi e con questi caratteri Vietti impostò il progetto del borgo di Porto Cervo.
Costruì un basamento su cui elevare gli edifici che si disposero a configurare uno spazio il quale, anche in questo caso, fu chiamato “piazzetta”. La costruzione venne realizzata recuperando i materiali e i modi di lavorazione locali. Poco tempo dopo la conclusione del cantiere Vietti decise di colorare i fronti utilizzando colori non omogenei, che potessero suggerire un invecchiamento17.
Il tema del colore fu rilevate e in Costa Smeralda il confronto si articolerà soprattutto tra Luigi Vietti e Michele Busiri Vivi. Sulla questione i due si trovarono su posizione opposte: per Busiri Vici l’architettura mediterranea è bianca, mentre per Vietti è colorata.
Busiri Vici era forse più interessato alla plastica dell’edificio e alla elaborazione spaziale: un colore uniforme e astratto, come il bianco, poteva collaborare nel sottolineare queste qualità di cui le sue opere erano ricche. Vietti prediligeva il colore perché lo reputava più corretto, perché credeva che permettesse all’architettura di mimetizzarsi o integrarsi con il paesaggio. Busiri Vici ritieneva che una bella architettura potesse farsi vedere, che non dovesse necessariamente mimetizzarsi, per Vietti l’inserimento nel paesaggio, urbano o naturale, di una costruzione era di primaria importanza. Il confronto tra i due non di rado arrivava al Comitato Architettura. Entrambi conservarono le loro convinzioni e le architetture in Costa Smeralda furono realizzate sia bianche sia colorate. Guardando agli altri architetti coinvolti le posizioni erano simili, pur essendo maturate in modi differenti: Simon Mossa propendeva per una architettura bianca perché credeva in una Sardegna che riscopriva le sue origini catalane e quindi le architetture della nuova Sardegna dovevano essere bianche alla maniera di Ibiza e della Costa Brava; Jacques Couëlle aveva sperimentato l’uso del colore nelle sue elaborazioni in equilibrio tra scultura e architettura in Provenza e lo ripropose in Costa. All’Aga Khan il bianco non piaceva troppo.18
Proprio dei borghi liguri e dell’uso del colore Vietti parlò in un’intervista. Le due architetture a cui fa riferimento sono proprio il Pitrizza e il borgo di Porto Cervo:

“In Sardegna come da ogni parte io ho sempre presupposto il salvataggio della terra che mi ospitava. Per quanto riguarda le costruzioni io cerco sempre di non farmi vedere, di mimetizzarmi. Uno degli esempi più interessanti è l’albergo Pitrizza che io ho fatto sulla Costa Smeralda. Non si vede né dal mare né da terra né dal cielo perché è tutto inserito naturalmente. Ma sempre parlando della Sardegna, oltre al tipo di costruzione da non vedersi come Pitrizza, io ne ho fatta un’altra all’interno di Porto Cervo, dove invece si deve sentire, entrando, il desiderio, si deve sentire la cromatura delle abitazioni, si deve sentire la vita pulsante degli abitanti. Non ho fatto costruzioni alte, sempre a piano terreno, ma è prevalsa questa idea di fare delle cose cromate, a carattere visivo, anche bianche, il bianco è un colore no?, ma anche rosa, giallo, celeste, come si usa nel Mediterraneo. Però ci possono essere altri posti dove io ho bisogno di creare direi quasi la piramide, creare un qualcosa come un raggruppamento di volumi per fare, non so, un paese come Sperlonga, per esempio, che è un paese risolto in altezza, o come Camogli, anch’esso risolto in altezza, undici piani, dodici piani …. E questo è un desiderio di inserimento, di valorizzazione, di sollecitazione del paesaggio, non di inserimento geometrico perché per esperienza so che anche le più semplici linee geometriche distruggono il paesaggio …”19.

Ancora una volta nel parlare della sua opera in Costa Smeralda Vietti fa riferimenti agli alberghi piuttosto che alle molte, moltissime, residenze private che aveva costruite. Il rapporto con la committenza aveva fortemente influito sulla sua opera: era più impersonale il rapporto con il mandatario di hotel e permetteva forse all’architetto di operare con maggior rigore, con maggiore radicalità. Forse per questo egli ripercorre con maggior favore le esperienze di progetto sviluppate in quel campo. La committenza privata, che aveva caratterizzato una parte rilevante della sua opera, ha caratteristiche differenti. I committenti di Vietti erano tra le persone più in vista e forse tra quelle con maggior disponibilità economica che l’Italia del secondo dopoguerra annovera: c’erano i grandi industriali italiani, i Marzotto, i Riello, i Rizzoli, i Mondadori, i Barilla, i Brion, gli Zoppas, i Falck, i Piaggio, c’era il conte Cini e la famiglia Füstenberg, c’era l’Aga Khan stesso che da lui si fa costruire la sua villa La Cerbiatta.20
Nelle residenze private il rapporto con il committente prevarica, Vietti si lascia sopraffare e le ville a volte ne risentono. La casa che costruì per se stesso, la Cerva (1963), è un progetto forte, che sperimenta sequenze spaziali interessanti tra ingresso e zona di soggiorno, che mescola esterni ed interni avendo come asse di distribuzione un corridoio coperto da una pergola. Ci sono poi altre occasioni in cui il progetto si fece meno limpido, forse un po’ si ripeté in stilemi che avevano incontrato un sicuro successo. Paolo Riccardi, che era stato per vent’anni il segretario generale della Costa Smeralda e stretto collaboratore dell’Aga Khan, così ricorda l’architetto ed i suoi rapporti con la committenza:

“Quel capolavoro che è il villaggio di Porto Cervo (1962) è opera sua, come l’Hotel Pitrizza (1962). Quello che faceva Vietti era tutto molto funzionale, case eleganti ma molto vivibili. Poteva contare su tanti amici che aveva a Milano e faceva dei progetti bellissimi. Faceva i progetti delle case come glieli chiedevano le mogli dei committenti.”21

Se per l’opera di Vietti in Costa Smeralda si può parlare di una tarda applicazione dell’ambientismo, bisogna riconoscere che egli si trovò nella condizione di “ambientare” architetture in un luogo dove il contesto, almeno quello costruito, non esisteva. Se la sintonia con l’ambiente storico aveva portato a privilegiare, nella lezione giovannoniana, una visione prevalentemente pittoresca, ora egli si trova nella difficile condizione di inventare un linguaggio storico.
Un paio di decenni prima, nel 1940, in merito ad un lavoro che sembra ora un’anticipazione delle sue opere sarde, il redattore di Domus, scrisse:

“Dobbiamo all’architetto Vietti […] questa Taverna di Portofino, che è un modello di quello che si può fare per intonarsi ad un luogo essendo moderni, adoperando materiali moderni, realizzando comodità moderne, senza trascurare la piacevolezza che è ancora (o torna ad essere) in onore in casa, nell’albergo, o, come qui, nella “taverna”. Il Vietti, che in altri campi è stato audacissimo, e che è conosciuto per la recente Casa del fascio di Rapallo, qui a Portofino, si è abbandonato ad un estro pittoresco senza cadere per questo nella “messa in scena” facilona o cinematografica che ormai ammorba tanti ambienti e tanti sogni di persone “così dette di lusso”! […] Dove si è abbandonato all’ “ambientare”, si è attenuto, come nella taverna, a reminescenze e spunti locali ”22.

Non è una strada facile quella che Vietti intraprese: servivano conoscenze storiche, sia stilistiche sia relative ai processi di costruzione dei tessuti urbani. E serviva equilibrio e misura.
Le sue architetture hanno avuto il difetto di essere state troppo facilmente replicabili, e il proliferare di copie che, proprio in Sardegna e lungo le coste soggette a sviluppi turistici c’è stato, ha diluito il ricordo della qualità della sua opera.


Note
1 Gustavo Giovannoni inizia la sua attività didattica nel 1899 nella Scuola per ingegneri come assistente al corso prima di Architettura tecnica e poi (1903) di Architettura generale, per la quale disciplina vince, nel 1914, il concorso a cattedra; dopo la guerra inizia ad insegnare Restauro dei monumenti presso la Scuola superiore di architettura di Roma, nella quale divenne una figura culturalmente centrale ed infatti ne assumerà la direzione tra il 1927 e il 1933.
2 Sull’argomento vedasi F.R. Stabile, Gustavo Giovannoni e la cultura dell’ambientismo, «Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura» 1 (N.S.), 2017, pp. 135-146.
3 Gustavo Giovannoni, Questioni d’architettura, Roma 1929, 2° ed. (1924), p. 191.
4 Giuseppe Pagano e Gualtiero Daniel, Architettura rurale italiana, Hoepli, Milano 1936.
5 Architettura mediterranea, in Quadrante - gennaio 1935
6 A.C.: Documentos de Actividad Contemporànea, 1931-37 in particolare si vedano i numeri n°18/1935_Raices mediterráneas de la arquitectura moderna, e n°21/1936_Elementos de la arquitectura rural el la isla de Ibiza.
7 Paola Veronica Dell’Aira, Luigi Vietti. Progetti e realizzazioni degli anni ‘30, Alinea, Firenze 1997, pp. 59-60.
8 Gustavo Giovannoni, Questioni d’architettura, Roma 1929, 2° ed. (1924), p. 191.
9 Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 357-358.
10 Queste indicazioni sui rapporti tra antiquari e Vietti e soprattutto quelle seguenti sul tema del colore per Vietti e Busiri Vici, le devo all’arch. Giancarlo Busiri Vici, che con il padre collaborò sin dall’inizio all’avventura della Costa Smeralda. Da una conversazione occorsa il 24 aprile 2019, nel suo studio a Roma, per la quale lo ringrazio vivamente.
11 Per l’intervista all’Aga Khan, A Man of The World -The Aga Khan, commentary written by Antony Jay, photographed by Peter Bartlett, sound recorded by Pat Whittaker and Bill Searle, edited by Bill Veitch, narrated by Huw Wheldon, directed by Georges Robin, produced by Anthony de Lotbiniere (data probabile: primi anni ’60)
vedere https://www.youtube.com/watch?v=n6w8EOczc74. Consultato 25 aprile 2019.
12 La parola usata nell’intervista è catch eye, un termine in uso nel ‘700 inglese per parlare degli elementi architettonici che venivano impiegati nei giardini pittoreschi.
13 Qui fa riferimento all’hotel Pitrizza.
14 Cfr nota 11.
15 Il carteggio tra René Podbielski e Luigi Vietti è conservato presso lo CSAC ed è stato studiato da Giorgia Sala che lo ha presentato durate le giornate di studio Lezioni italiane: Gardella, Menghi, Vietti, 15-16 marzo 2019, Archivio-Museo CSAC di Parma.
16 Tratto da un’intervista di Giuliana Bianchi a Luigi Vietti in Case di Sardegna, Archideos 1999; citato in Sabrina Dessì, Abitare in Sardegna: mode modelli e linguaggi, Gangemi, Roma 2009, p. 48
17 Informazione tratta dagli studi di Alessandra Cappai sulla Costa Smeralda.
18 Vedi nota 10.
19 Da un’intervista a Vietti, I neo-paesi, “ideologia” di un inventore, in «Abitare», 119, ottobre 1973, pp. 94-95.
20 Una sorprendente agenda telefonica con i nomi dei committenti è conservata presso lo CSAC ed è stata studiata da Enrico Prandi che l’ha presentata durate le giornate di studio Lezioni italiane: Gardella, Menghi, Vietti, 15-16 marzo 2019, Archivio-Museo CSAC di Parma.
21 Paolo Riccardi, Alla corte dell’Aga Khan, memorie della Costa Smeralda, Delfino editore, Sassari 2010, p. 126.
22 Raffaele Calzini, Una taverna a Portofino, «Domus» 145, 1940, pp. 41-43.