Luigi Vietti. Progetti veneziani1

Mauro Marzo e Viola Bertini




Lo studioso che consultasse i documenti relativi ai progetti veneziani di Luigi Vietti, conservati presso gli archivi del CSAC dell’Università degli Studi di Parma, s’imbatterebbe prima o poi, com’è successo a chi scrive, in una singolare prospettiva a volo d’uccello della città di Venezia.
Realizzata a china su carta da lucido essa non riporta alcuna data2. Due particolari, tuttavia, richiamerebbero l’attenzione di quello studioso se fosse interessato a ipotizzare una possibile datazione del disegno. Primo: sul lato sinistro del disegno, nella parte che rappresenta l’estremità occidentale del canale della Giudecca, un cartiglio agitato ad arte dal vento accoglie la scritta “Fortuny” e testimonia probabilmente l’avvio di un incarico professionale svolto da Vietti negli anni compresi tra il 1953 e il 1957. Secondo: sul lato destro, laddove si rappresenta il retro dell’Isola di San Giorgio, con il monastero benedettino e la profonda abside della chiesa di Andrea Palladio, si staglia la figura di un teatro all’aperto, dotato d’orchestra e di cavea, evidente richiamo al progetto del Teatro Verde, elaborato insieme ad Angelo Scattolin e realizzato, per iniziativa della Fondazione Giorgio Cini, negli anni compresi tra il 1951 e il 1956. A questi anni, dunque, risale probabilmente il disegno di tale prospettiva. Individuare l’esatta datazione dell’elaborato, tuttavia, per quanto utile possa risultare a delineare le riflessioni compiute da Vietti nella sua traiettoria professionale in ambito lagunare, non è l’unico elemento di interesse di questa prospettiva. Altre questioni attirano l’attenzione: la dovizia con cui è rappresentato l’intero complesso marciano (con la basilica, il sincopato ritmo delle Procuratie Vecchie, Palazzo ducale e la sua corte, le proporzioni forse eccessivamente slanciate del campanile); l’accentuazione volumetrica e dimensionale di alcune emergenze della città, sia storiche che contemporanee (la Punta della Dogana, la cupola della Madonna della Salute, le chiese palladiane di San Giorgio e del Redentore, la basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari e quella dedicata ai Santi Giovanni e Paolo, ma anche la fabbrica del Molino Stucky alla Giudecca, il parcheggio multipiano di piazzale Roma progettato da Eugenio Miozzi, le banchine del Tronchetto e – pur così profondamente alterata nella sua conformazione, tanto da farla apparire una sorta di invenzione progettuale – la stazione ferroviaria. In forma sintetica, seguendo il profilo finito della città, soffermandosi sui principali fatti urbani, disegnando le sue infrastrutture, quelle ferroviarie e portuali, così come quelle per i puntuali attraversamenti del Canal Grande, sembra che Vietti sia mosso dalla volontà di comprendere la forma, afferrarne il senso generale, coglierne le principali regole costitutive. La chiarezza figurativa con cui egli evidenzia la conformazione a pettine del tessuto insediativo che si dispone lungo entrambe le sponde del canal Grande o lungo la fondamenta della Giudecca sembrano denunciare una precisa finalità conoscitiva di questo disegno. I numerosi incarichi professionali che il destino riservò a Vietti nella città lagunare costituiscono per lui, come vedremo nelle pagine successive, l’occasione per elaborare progetti che, lungi dal volere offrire risposte alle mere richieste funzionali espresse dalla committenza, si configurano come vere e proprie indagini intorno a un determinato tema compositivo e a uno specifico luogo. Lo strumento principe per la conduzione di queste indagini non può che essere un approccio alla composizione fatto per successivi tentativi. Si tratta di un processo ideativo che induce Vietti a elaborare innumerevoli ipotesi formali iniziali che gli consentono di affinare progressivamente il ragionamento, scartando le soluzioni che appaiono meno convincenti e approfondendo quelle che viceversa sembrano delineare risposte considerate più appropriate al tema e al luogo di progetto. Questo particolare atteggiamento emerge in alcuni dei progetti veneziani di Luigi Vietti e si evince con maggiore evidenza – forse anche a causa dell’abbondanza degli schizzi conservati in archivio – nel complesso processo ideativo del progetto per l’Hotel Bauer-Grünwald.
Elaborato tra il 1945 il 1947, questo progetto non giunse mai a realizzazione, ma risulta a nostro avviso esemplare per la sua capacità di avvicinamento alla definizione di una risposta alle questioni sollevate da un tema e da un luogo chiaramente definiti e indagati nelle loro peculiarità. Se il tema è quello offerto dal disegno del fronte di un palazzo affacciato su uno spazio pubblico, il luogo specifico è costituito da un campo veneziano, connotato dalla presenza di un imponente fronte barocco, quello della chiesa di San Moisè, di un rio che ne disegna un bordo e di un ponte che modifica la percezione dello spazio pubblico, elevando il punto di vista di chi attraversi il corso acqueo. Ma prima di affrontare la lettura di questo progetto, e accennare al clima culturale post-bellico in cui fu elaborato, occorre delineare un quadro più ampio in cui collocare alcune delle più significative esperienze maturate da Vietti nella città lagunare alle quali il progetto per l’Hotel Bauer-Grünwald sembra essere fortemente interrelato.
Il corpo dei progetti veneziani a firma di Luigi Vietti conservati presso gli archivi del CSAC dell’Università degli Studi di Parma si configura come un vasto complesso di apparati grafici, a cui si affiancano un repertorio fotografico, numerosi articoli di quotidiani (non particolarmente rilevanti ai fini di una ricerca incentrata sull’approccio progettuale, ma preziosi per delineare il quadro socio-culturale in cui le opere – si pensi ad esempio al Teatro all’aperto di San Giorgio – furono realizzate e accolte dalla critica locale) e alcuni documenti epistolari (estremamente utili, questi ultimi, per un’analisi dei rapporti tra committenti e progettista). Quasi del tutto assenti sono invece le relazioni tecniche di accompagnamento ai progetti, la cui mancanza rende a tratti ardua la possibilità di ricostruire con precisione un quadro documentario entro cui collocare l’opera di Vietti nella città lagunare.
Degli undici progetti conservati in archivio3, datati per la quasi totalità tra la metà degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta, solo due sono stati interamente realizzati, mentre i restanti furono parzialmente portati a termine o rimasero solo su carta. Diversi sono gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, in particolare riforme di appartamenti privati all’interno di storici palazzi veneziani, espressione di una committenza benestante.
È, in primo luogo, al nome di Vittorio Cini che si lega il lavoro compiuto da Luigi Vietti a Venezia. I due si conobbero forse già alla metà degli anni Trenta a Genova, dove Vietti realizzò diversi edifici tra cui la stazione Marittima Andrea Doria presso il Porto (1932)4, opera che Cini, armatore e habitué della Riviera, ebbe probabilmente modo di conoscere in prima persona. Certamente, quando nel 1939 Cini fu nominato commissario generale dell’Ente Esposizione Universale di Roma e Vietti entrò a far parte di un gruppo di progettazione del piano generale dell’EUR (con Pagano, Piacentini, Piccinato e Rossi), tra i due vi furono numerose occasioni di incontro5.
A circa dieci anni di distanza dall’esperienza dell’EUR, nel 1949, Vietti venne chiamato a progettare un complesso di case al Lido di Venezia per gli impiegati SIDARMA, società navale di cui Giorgio Cini, figlio di Vittorio scomparso prematuramente nello stesso 1949, era presidente. Il complesso si situa in un lotto triangolare compreso tra il Lungomare Gabriele D’Annunzio, Piazza Pola, via Caboto e via Duodo. La scelta progettuale è quella di realizzare sei edifici di forma regolare – quattro parallelepipedi e due corpi a L – disposti lungo il perimetro del lotto e connessi tra loro mediante pergole a configurare un ampio spazio collettivo centrale. Una prospettiva dall’alto mostra l’intenzione dell’architetto di introdurre l’acqua come elemento ordinatore dello spazio aperto, definendo un sistema di insule collegate da ponti che ripropongono in forma astratta la struttura della città lagunare. Sebbene nel processo costruttivo il disegno iniziale subisca numerose variazioni e l’elemento acqueo sia sostituito da ampie aree pavimentate e spazi verdi, emerge già in questo progetto un atteggiamento nei confronti della città, il tentativo di assecondarne il carattere. Il linguaggio del Moderno di derivazione mediterranea si ibrida con elementi architettonici della Venezia “minore”: i prismi bianchi e puri sormontati da pergole sono coronati da cornici in cotto, al di sopra delle quali svettano i camini, le cui forme sono esplicita memoria dell’architettura tradizionale locale.
Legato al nome della famiglia Cini è anche il progetto più noto compiuto da Luigi Vietti a Venezia, quello per il nuovo assetto dell’Isola di San Giorgio Maggiore (1951-56)6, destinata a ospitare una fondazione dedicata alla memoria di Giorgio Cini. A Vietti sono affidati la direzione dei lavori per le opere di nuova costruzione e il disegno di un parco7 nel quale, lungo il margine meridionale dell’isola, è edificata una struttura per rappresentazioni teatrali all’aperto. Denominata Teatro Verde, tale struttura è costituita da un palco di forma esagonale inscritto in un rettangolo al di sotto del quale trovano collocazione i servizi. Gli spalti semicircolari, costruiti su terreno di riporto derivato dai lavori sull’isola, realizzati in pietra di Vicenza e intercalati da spalliere in bosso, configurano nel loro insieme un teatro greco che individua come scena, oltre un rado doppio filare di cipressi, il bacino acqueo della laguna sud. Reminiscenza dei teatri di verzura che ornavano i parchi delle ville venete di terraferma, l’opera evoca un passato lontano e, probabilmente in maniera inconsapevole, allude a quel progetto per il bacino marciano di Alvise Cornaro che prevedeva la costruzione di una fontana, di un vago monticello e, per l’appunto, di un teatro; un progetto che, quasi quarant’anni dopo, Manfredo Tafuri avrebbe studiato e Luca Ortelli ricostruito in un disegno planimetrico8.
In parte contemporaneo agli interventi sull’isola di San Giorgio Maggiore è il progetto per gli uffici della Società Adriatica Elettrica di Elettricità SADE lungo il Rio Novo, a cui Vietti lavora tra il 1955 e il 1961. Anche in questo caso l’intervento ha per committente Vittorio Cini in qualità di presidente della Società. Complesse sono le vicende che ruotano intorno alla costruzione del palazzo e che vedono il nome di Vietti intrecciarsi a quelli di Angelo Scattolin e Cesare Pea, rendendo difficile l’attribuzione di evidenti ruoli di paternità alle diverse parti del progetto. Gli studi compiuti da Vietti si concentrano principalmente sul disegno della facciata prospicente il Rio Novo, dove l’architetto immagina un prisma elevato e a sbalzo rispetto al piano della fondamenta e ritmicamente aperto in direzione del canale. Anche in questo caso il pensiero di Vietti oscilla tra un linguaggio marcatamente moderno e una sorta di riscrittura dell’architettura locale che lo spinge, in alcuni schizzi, sino a una diretta allusione alla facciata di Palazzo Ducale: un diaframma traforato a esagoni allungati si estende per l’intera altezza del volume sospeso, sino a raggiungere l’ultimo livello degli uffici; in una delle molte soluzioni, quest’ultimo appare arretrato e sormontato da una sequenza di merli triangolari. La messa in evidenza delle linee di forza dell’edificio è assunta quale espediente espressivo per riecheggiare in modo diretto Palazzo Ducale, paradigma più noto dell’intera architettura civile veneziana. Sia l’attenzione al tema della facciata, sia la consistenza archivistica di elaborati grafici volti a individuare la migliore soluzione rivelano una forte analogia con quel processo creativo sopra brevemente descritto in relazione all’Hotel Bauer-Grünwald; un processo che procede per continue variazioni e adattamenti ed è espressione di una ricerca progettuale volta a individuare la risposta formale più appropriata alle specificità del luogo.
Questo medesimo approccio emerge fin dal primo incarico professionale che Vietti riceve a Venezia: il progetto di espansione e riforma del complesso dell’Hotel Bauer-Grünwald (1945-47). Seppur non realizzato, è a questo, tra tutti i progetti veneziani, che l’architetto sembra dedicare il maggiore livello di approfondimento, come testimonia il vasto corpo di disegni conservati presso l’archivio del CSAC per la maggior parte incentrati sullo studio della facciata principale. L’edificio preesistente sorge in campo San Moisè che, non lontano da piazza San Marco e di forma trapezoidale, è dominato dalla presenza dell’omonima chiesa. La facciata di quest’ultima, realizzata nel 1668 da Alessandro Tremignon con un fastoso apparato scultoreo, si eleva sul lato est dell’invaso pubblico, divenendo fondale scenico per chi provenga da calle XXII Marzo e attraversi il ponte costruito su rio San Moisè. Nel lato sud del campo trova collocazione la testata dell’hotel che, nel suo ingombro complessivo, occupa l’isolato stretto e allungato compreso tra rio San Moisè e calle Tredici Martiri e proteso fino a raggiungere il Canal Grande. La struttura è frutto della conversione a uso alberghiero di un preesistente edificio residenziale, realizzata sul finire del XIX secolo da Giovanni Sardi, autore anche della riedificazione in stile neogotico della facciata prospiciente il Canal Grande.
Già negli anni Venti si inizia a immaginare la ricostruzione dell’hotel e il suo ampliamento attraverso il riuso di casa Moisè-Preti, l’edificio di testata del lotto sud prospiciente il campo. Tuttavia, è solo negli anni Quaranta che l’ampliamento su campo San Moisè e la riforma complessiva dell’edificio trovano effettivo compimento. Sono questi anni in cui si inizia a immaginare che il turismo possa divenire una tra le principali risorse economiche per la città lagunare e la Compagnia Italiana Grandi Alberghi CIGA promuove la costruzione di una serie di edifici ricettivi. Tra questi l’espansione dell’hotel Danieli lungo Riva degli Schiavoni, che, al pari del Bauer, riceve forti critiche a causa della scelta compiuta in favore di un linguaggio moderno9. Analoghe motivazioni sostanziano le critiche rivolte alla soluzione finale adottata per la facciata dell’hotel prospiciente campo San Moisè, disegnata da Marino Meo, al quale il progetto fu infine affidato, e completata nel 194910. Nel 1946, mentre Meo sta lavorando alla riforma dell’albergo, l’allora proprietario Arnaldo Bennati, non pienamente soddisfatto del suo operato, invita Luigi Vietti a elaborare alcune proposte alternative11. È in occasione di questo invito che Vietti intraprende i propri studi per l’hotel, concentrandosi sulla definizione degli spazi planimetrici di casa Moisè-Preti, che avrebbe dovuto funzionare come nuovo corpo d’ingresso al complesso, e sulla facciata principale. L’ingombro dell’edificio lungo il lato sud del campo, attraverso acquisizioni e cessioni, viene parzialmente rettificato, regolarizzando sia la forma dello spazio pubblico, che il filo della facciata. L’edificio si compone di tre parti che, pur funzionando al piano terreno come un sistema unitario, assumono ciascuna un proprio carattere e una propria articolazione volumetrica: un corpo stretto e verticale lungo calle Tredici Martiri; un frammento della preesistente casa, che viene conservato, insieme al retrostante piccolo giardino introverso e il corpo d’ingresso vero e proprio, su cui si concentrano le riflessioni progettuali di Vietti.
Le innumerevoli soluzioni per il fronte rivelano, come già messo in evidenza nel caso del progetto per gli uffici SADE, un processo compositivo che procede attraverso tentativi e progressive approssimazioni. L’attenzione dell’architetto si concentra principalmente sul tema della facciata, approfondendo due questioni di grande importanza dati il carattere e la conformazione dello spazio pubblico: la figura basamentale e la soluzione dell’angolo compreso tra il campo e il rio. Nella quasi totalità delle soluzioni, l’angolo è immaginato cieco al piano terreno e talvolta anche ai piani soprastanti, e assume in alcuni casi la funzione di sfondo rispetto alla figura di una statua collocata in posizione antistante. Nelle varie soluzioni l’angolo dell’edificio tende a distinguersi sia matericamente che volumetricamente rispetto alla restante parte della facciata. Immaginato rivestito in pietra e collocato in posizione avanzata rispetto al filo di facciata, l’angolo diviene un espediente utile a definire un chiaro rapporto tra il fronte d’ingresso e il fronte acqueo che si estende lungo il rio, introducendo al contempo un elemento di asimmetria nella facciata sul campo. Nelle diverse soluzioni, il fronte lungo il rio si apre al piano terreno mediante una sequenza serrata di arcate o, alternativamente, di bucature rettangolari, accentuando, anche a livello percettivo, la relazione tra edificio ed elemento acqueo. La diversificazione dei materiali, impiegata in diverse varianti anche per connotare l’elemento basamentale, è strumento volto a individuare e distinguere in modo netto e chiaro le parti che compongono il fronte e a verificare, attraverso schematismi grafici, l’effetto complessivo finale dell’impaginazione della facciata. Chiara e sempre costante è la tripartizione del fronte. Il basamento, coronato da una fascia marcapiano, assume talvolta le sembianze di un paramento murario in cui si stagliano bucature disposte simmetricamente rispetto all’ingresso, in posizione centrale. Porta e finestre appaiono frequentemente riquadrate da cornici modanate e apparati decorativi, che richiamano l’idea di un’operazione a tratti mimetica o di anastilosi. Talvolta, invece, il basamento diviene schermo vetrato sormontato da una pensilina aggettante o portico con colonne, il cui disegno costituisce un rimando in alcuni casi implicito e in altri esplicito alla facciata barocca della chiesa di San Moisè. Nella totalità delle soluzioni il basamento si distingue come elemento autonomo rispetto allo sviluppo del fronte soprastante, il cui impaginato solo raramente risponde alla disposizione delle bucature basamentali. Il suo disegno, nelle diverse varianti, oscilla continuamente tra composizioni simmetriche e asimmetriche, così come tra la scelta di inserire nel fronte finestre rettangolari o finestre ad arco. La forma e le dimensioni assunte dalle finestre tendono in ogni caso a attribuire una configurazione specifica e distintiva per il piano nobile dell’edificio. A segnare il coronamento si pone una sottile fascia marcapiano, al di sopra della quale, in alcuni casi, sembra elevarsi un sistema trilitico che funziona come un pergolato.
Le molte varianti di progetto elaborate da Vietti per l’Hotel Bauer-Grünwald rivelano un tipo di ricerca architettonica tutto teso a imbastire un possibile dialogo tra preesistenze ambientali, avrebbe detto Ernesto Nathan Rogers, e intervento contemporaneo. Paradossalmente sarà proprio tale ricerca, incentrata sullo studio del rapporto tra facciata e spazio aperto del campo e intesa come ambito di mediazione e di superamento della tradizione, a indurre la Commissione Edilizia a esprimere un parere negativo nei confronti del progetto di Vietti, ritenuto eccessivamente “pittorico”, e favorevole nei confronti della soluzione proposta da Marino Meo, in cui si rinviene un carattere di più convincente modernità12.
Quelli dell’immediato dopoguerra sono d’altra parte gli anni in cui il Paese, pesantemente provato dalle distruzioni belliche, si accinge ad avviare un profondo processo di ricostruzione fisica e, naturalmente, sociale, culturale e politica. In particolare, gli anni in cui Vietti opera al progetto del Bauer-Grünwald, tra il 1945 e il 1947, sono ancora connotati da atteggiamenti e giudizi altalenanti e sovente apertamente contrastanti circa le modalità di intervento all’interno dei centri storici. All’interno delle amministrazioni pubbliche, delle commissioni edilizie, del mondo del professionismo colto si registrano forti oscillazioni tra l’apertura a una dimensione internazionale del Moderno e l’avvertita ma ancora non chiaramente espressa esigenza di individuazione una di via italiana all’architettura moderna.
Potremmo dire che questo progetto di Vietti sia in qualche modo antesignano, anche se con esiti diversi, della vicenda che avrebbe contraddistinto tra il 1953 e il 1958 l’elaborazione e la realizzazione della Casa alle Zattere di Ignazio Gardella13. Potremmo forse aggiungere che questo progetto arriva troppo in anticipo sui tempi e, nelle fluttuanti oscillazioni del gusto, si propende infine verso la soluzione di Marino Meo avvertita come più moderna. Potremmo infine sostenere che si tratta di un’occasione perduta per la costruzione dell’immagine della città. Il complesso e stratificato manufatto architettonico del Bauer-Grünwald altro non è che uno di quei solidi edilizi disposti a pettine rispetto alle rive del Canal Grande che Vietti rappresenta nella prospettiva a volo d’uccello descritta all’inizio di questo articolo. Dal Canal Grande, il manufatto si addentra nel fitto tessuto della città fino ad affacciarsi su campo San Moisè, dove avrebbe trovato, grazie alla facciata disegnata dal Vietti, una soluzione capace di compenetrarsi con l’atmosfera luminosa dello spazio pubblico, con la varia consistenza materica e la ricchezza cromatica degli edifici circostanti: dal fronte lapideo della chiesa, ai colori dell’edilizia minore prospiciente campo e rio, fino al fronte dell’ex-Scuola dei Fabbri del XVI secolo, più volte rimaneggiata, inglobata nel Bauer-Grünwald e accolta all’interno degli studi compositivi di Vietti come una sorta di sorta di objet trouvé.
I molti disegni conservati allo CSAC si Parma sono testimoni dunque di un atteggiamento progettuale che cerca il dialogo con le preesistenze e, attraverso lo scarto di una serie di soluzioni possibili, giunge a individuare una rosa ristretta di versioni appropriate su cui svolgere successivi approfondimenti. Il lessico, le figure e gli elementi architettonici dell’architettura veneziana si ibridano con l’asciutto linguaggio moderno, mentre le asimmetrie e i ritmi dell’edilizia lagunare irrompono nelle molteplici versioni che Vietti disegna immaginando una facciata appropriata al contesto su cui si affaccia.
L’ibridazione tra linguaggi, che emerge chiaramente in alcuni dei progetti veneziani e connota buona parte della sua opera14, e il tentativo di interpretare le specificità contestuali attraverso le tecniche della composizione architettonica fanno di Luigi Vietti una figura di rilievo nell’ambito del dibattito culturale italiano del suo tempo intorno al tema della relazione tra progetto contemporaneo e città storica. La sua opera veneziana, e in particolare il suo progetto per il Bauer-Grünwald, aprono un campo di indagine di un certo interesse sia per gli storici dell’architettura contemporanea che per gli studiosi della composizione architettonica. Un campo di indagine strettamente correlato a quell’originale interpretazione del Moderno sviluppata da parte della cultura architettonica italiana nell’arco temporale che dall’immediato dopoguerra si spinge fino alla conclusione degli anni ’70.


Note
1 Il presente articolo è il risultato di riflessioni congiunte compiute da Mauro Marzo e Viola Bertini, presentate in occasione del Convegno “Lezioni italiane. Ignazio Gardella, Roberto Menghi, Luigi Vietti”, a cura di C. Quintelli, A. Lorenzi, E. Prandi, C. Gandolfi, Archivio-Museo CSAC, Parma, 15-16 marzo 2019. Pur condiviso in tutte le sue parti, la stesura dell’articolo risulta riferibile a Mauro Marzo per le righe 1-74, 177-196, 271-335 e a Viola Bertini per le righe 76-175, 197-270.
2 La prospettiva è conservata presso il CSAC di Parma, nella cartella “Fortuny 1953-57” - BO19683P.
3 Presso gli archivi del CSAC di Parma sono conservati i disegni relativi ai seguenti progetti: ampliamento e riforma dell’hotel Bauer-Grünwald (1945-47); progetto di stabilimento balneare al Lido di Venezia (1945-48); appartamento del Barone Ruben presso Palazzo Albrizi (1948); case SIDARMA al Lido di Venezia (1949); disegni definitivi per il Teatro Verde presso l’isola di San Giorgio Maggiore (1951-53); riforma di edificio Fortuny alla Giudecca (1953-57); uffici SIDARMA alle Zattere (1957-58); riforma degli interni di Palazzo Rocca (1959-60); riforma degli interni di Palazzo Bragadin (1972-74).
4 Sui progetti liguri di Luigi Vietti si veda Barisione S. e Scelsi V. (1999) – Luigi Vietti. Architetture liguri. Erga edizioni, Genova.
5 Cfr. Scimemi M. (2009) – Architettura del Novecento a Venezia. Il Palazzo Rio Nuovo. Marsilio, Venezia.
6 Sul lavoro di Luigi Vietti all’isola di San Giorgio Maggiore si veda Salatin F. (2017) – “«Una cosa affettuosa». Luigi Vietti e i progetti per il recupero dell’isola di S. Giorgio Maggiore”. Studi veneziani, LXXVI. 
7 Presso gli archivi del CSAC sono conservati i soli disegni definitivi del Teatro Verde. I materiali documentari relativi alla definizione dell’intero assetto dell’Isola si trovano presso l’Archivio Ufficio Tecnico della Fondazione Giorgio Cini.
8 Sulla vicenda si veda Tafuri M. (1985) – Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura. Einaudi, Torino, pp. 213-243; la ricostruzione grafica di Luca Ortelli del progetto di Alvise Cornaro è pubblicata alla tavola 115.
9 Sul concorso per il nuovo hotel Danieli si veda Ferrighi A. (2017) – L’ampliamento dell’hotel Danieli a Venezia. Storie di concorsi mancati. In: G. Belli, F. Capano e M. I. Pascariello (a cura di), La città, il viaggio, il turismo. Percezione, produzione e trasformazione. FedOA, Napoli.
10 Cfr. Kusch C. F. e Gelhaar A. (2014) – Guida all’architettura. Venezia. Realizzazioni e progetti dal 1950. DOM, Berlino.
11 Presso gli archivi sono conservate due lettere inviate da Arnaldo Bennati a Luigi Vietti. Nella prima, datata 17 ottobre 1946, si legge: «Lei potrebbe fare qualcosa per il Bauer Grünwald, dove collaborano già da anni l’arch. Meo e l’arch. Gottardi, ma a dirle la verità sono lenti e non mi danno affidamento al 100%». Nella seconda lettera, datata 18 febbraio 1947, Bennati rinnova l’invito a Vietti: «Carissimo Vietti, sto demolendo l’ultima parte vecchia del complesso fabbricati Albergo Bauer, quella parte prospicente verso Campo San Moisè, senza aver avuto approvato nessun progetto, nonostante ne siano stati presentati molti. […] Come già ebbi occasione di dirle io ho qui mio collaboratore l’architetto Meo, che è rimasto solo nei lavori del Bauer dopo la morte del povero prof. Berti, al quale era associato nella pratica: l’architetto Meo è un bravo giovane e fa anche assai bene, però io avrei molto piacere se lei volesse accettare, disposto a metterci tutta la buona volontà, di studiare anche lei un progetto per questa parte così importante dell’Albergo».
12 Il 14 maggio 1947 Arnaldo Bennati scrive a Luigi Vietti: «La Commissione si è orientata sul tipo moderno progettato dall’arch. Meo, e mi riservo di comunicarLe, appena in possesso, il testo preciso della decisione». Al giorno seguente è datata una lettera indirizzata a Vietti da Angelo Scattolin, in cui si legge: «Riguardo al progetto di S. Moisè, io intervenni con qualche ritardo alla seduta […]. L’orientamento della Commissione Edilizia era già di massima definito. Più che il giudizio sul valore intrinseco dei progetti in esame la Commissione intese ad approvare e stabilire le direttive tra tendenze opposte e precisamente tra quella pittorica e quella che diremmo architettonica. Tuttociò [sic] in armonia con il precedente voto esprimente il desiderio di una affermazione di moderna architettura nell’ambiente veneziano». Entrambe le lettere sono conservate presso gli archivi del CSAC, dove si trova anche la decisione della Commissione edilizia, datata 17 maggio 1947: «La Commissione Edilizia, riunitasi per esaminare i due progetti per gli edifici prospicenti il Campo San Moisè – Rio omonimo – Calle della Scuola dei Fabbri, presentati dalla SAIGAT e redatti, uno dall’Arch. Marino Meo e l’altro dall’Arch. Luigi Vietti – accetta in linea di massima quello dell’arch. Meo».
13 Sul progetto di Ignazio Gardella alle Zattere si vedano: Guidarini S. (2002) – Ignazio Gardella nell’architettura italiana. Opere 1929-1999. Skira, Ginevra-Milano, pp. 134-147; Semerani L. (2006) – Ignazio Gardella e la Casa alle Zattere. In: M. Casamonti (a cura di), Ignazio Gardella architetto 1905-1999. Costruire le modernità. Electa, Milano, pp. 199-217.
14 Scrive in proposito Carlo Perogalli: «[Vietti è stato] uno dei primi architetti razionalisti italiani, forse l’unico assieme a Terragni che si è accorto della possibilità di dialogo fra l’architettura del passato, in particolare l’architettura popolare (minore) (…) e l’architettura del Movimento Moderno». Perogalli C. e Roncai L. – Intervista a Luigi Vietti, Dispensa n. 20, A.A. 1984-85, Dipartimento di Conservazione delle risorse Architettoniche e Ambientali. Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano, p. 50. Cit. in Gramigni M. (2000) – L’arte di costruire in Luigi Vietti. Zen, Novara.