Museo. Lo spazio della grazia

Ildebrando Clemente




Il Museo che luogo è? Fusione di atmosfere contrastanti - auto da fé - un vuoto simbolico, una specie di stordimento. Il lavoro dello spirito che si affatica intorno al progetto di un Museo è sicuramente uno dei momenti massimi con cui è possibile interrogarsi sulla ricerca compositiva in architettura. Una ricerca difficile, piena di equivoci e di rischi ma anche in grado di scandagliare nuove risorse formali, perché consapevole di poter assume, «qui e ora», il Museo alla stregua di un Monumento. È noto a tutti, infatti, che le architetture del XX secolo hanno in qualche modo esaltato una sensibilità nei confronti del valore della memoria che Alois Riegl definì «culto moderno dei monumenti» (Riegl, 2011). Un «culto» contraddistinto da un intreccio di conoscenze storiche, tecniche e documentarie sempre più accompagnate dalla necessità di comprendere le istanze più vicine alla dimensione trascendente ed emotiva del Monumento.
Le fluttuazioni e i legami tra l’idea di Monumento e quella di Museo sono stati anche oggetto di ricerca della teoria della composizione architettonica di Aldo Rossi. Il Museo e il Monumento condividono per Rossi un’allusione all’indicibile e questo «residuo di mistero» è l’unica cosa che interesserebbe conoscere ma che nonostante tutti i nostri sforzi è l’unica cosa che invece continua a rimanere inconoscibile. Secondo la nota avvertenza di Rossi, espressa nel suo celebre testo Architettura per i musei, il Monumento rappresenta, infatti, qualcosa con cui cerchiamo di decifrare “ciò che altrimenti non può essere detto”(Rossi, 1969, p. 136).

Ci sono molti modi per eludere oppure fronteggiare «ciò che altrimenti non può essere detto». Sicuramente è necessaria una singolare facoltà immaginativa. Il non detto si può, infatti, immaginare, si può suggerire nelle forme del progetto. Ma di che tipo d’immaginazione abbiamo bisogno per figurare un Museo capace di accennare a ciò che non può essere detto? Molto spesso il non detto viene interiorizzato per poi sciogliersi a un tratto in un riflusso espressivo in cui l’urgente del vissuto e della ricerca si scaricano e si ribaltano, per dirlo con le parole di Walter Benjamin, nella magia di un’immagine dialettica (Benjamin, 2010, p. 216). Con questa immagine dialettica l’architettura del Museo mostra la sua realtà e racconta le sue aspirazioni, variando, innovando e trasformando poieticamente la perpetua oscillazione tra polarità contrastanti: opponendo alla pienezza stabile e latente della forma tipologica, l’alternanza spaziale di vuote continuità e palpitanti estemporaneità.  Oppure, detto in altri termini con le parole di Mies van der Rohe, il Museo crea “un nobile sfondo per la vita civile e culturale dell’intera comunità” (Mies van der Rohe, 2010, p. 109). Su questo «nobile sfondo» in cui si agita la nostra esperienza insieme ai fantasmi dell’archeologia e dell’anacronismo, forse può essere utile, per il nostro discorso, far emergere l’idea di Museo come un’immagine primordiale.

Un’immagine primordiale, oppure archetipica, è per definizione particolare ma contiene in sé, come ha scritto Carl Gustav Jung, i nessi in base ai quali può essere conosciuta, amata e custodita dalla memoria collettiva (Jung, 2007). Questi nessi disegnano molteplici sentieri della conoscenza, ma una visione in particolare penetra in tutte le direzioni dello spazio, è il sentiero del mundus imaginalis; il mondo dal quale sorge e prende avvio, come ha scritto Henry Corbin, l’esperienza profonda dell’immaginazione attiva e trasformatrice della realtà. Tuttavia questo fare immaginativo, perché sia vero ed efficace, deve affidarsi all’intelligenza del cuore. L’espressione «intelligenza del cuore» è ciò che connota, seguendo le parole di Corbin, il desiderio di conoscere e di amare simultaneamente le forme della realtà per mezzo dell’atto immaginativo (Corbin, 2010). Il pensiero del cuore è dunque il pensiero delle immagini che plasmano la realtà. Il cuore è la sede dell’immaginazione e con l’immaginazione si esprime la voce autentica del cuore, sicché se parliamo dal cuore, dobbiamo parlare, riprendendo le indicazioni di James Hillman a proposito del mundus imaginalis, in modo immaginativo (Hillman, 1981). Il pensiero del cuore, secondo Henry Corbin, è, infatti, un dire che si approssima alla realtà non cercando di rispondere agli interrogativi concernenti il che cosa è, il che cosa sono gli esseri e le cose (interrogativi categoriali riguardanti delle essenze) ma abbracciando la via immaginale del chi è, del chi sono gli esseri e le cose (interrogativi riguardanti delle persone, delle figure, delle narrazioni, delle visioni), (Corbin, 1986, pp. 13-73).

Chi è Museo? Museo è una figura leggendaria. Nelle fonti antiche si accompagna a Orfeo che rappresenta la figura superiore. A Orfeo è infatti riconosciuta la genitura della poesia orfica e più in generale l’orfismo come religione estatica ed escatologica primitiva, fondata su visioni oltremondane. Dopo il V secolo a.C. i due nomi spesso si sovrappongono e si mescolano senza che sia possibile definire con chiarezza le corrispondenti caratteristiche. Secondo le testimonianze arcaiche, Orfeo e Museo appartengono entrambi ad una stirpe divina e sono stretti da vincoli di parentela e di discepolato. Museo è conosciuto come nativo di Eleusi e “figlio di Selene e di Eumolpo. Costui poi formulò le liberazioni e le iniziazioni e le purificazioni. Sofocle peraltro dice che era un divinatore” (Colli, 2015, p. 297). Anche se a Museo si attribuiscono versi poetici di matrice orfica, è l’elemento della divinazione, secondo Giorgio Colli, ciò che lo caratterizza rispetto al più antico e importante Orfeo (Colli, 2015, pp. 43-45). Resta il fatto, importante secondo Colli, che la tradizione abbia trattato Museo secondo il duplice riferimento ad Apollo e a Dioniso e allo stesso tempo abbia suggerito due aspetti importanti e decisivi per lo sviluppo posteriore della tradizione orfica: la divinazione e i misteri.

Giovanni Semerano ha rilevato che non si è meditato abbastanza sul fatto che Museo (Mουσαῖος), e Orfeo (Oρφεύς) sono nomi che evocano “la sacralità delle tenebre in cui ama avvolgersi la divinità che ha creato la luce” (Semerano, 2001, p.127). Al poeta Museo, figlio di Selene, la Luna, e secondo alcuni di Orfeo stesso di cui è stato il primo discepolo, è attribuito l’Inno a Demetra. A Museo risale, infatti, secondo una tradizione antica, l’istituzione dei misteri di Eleusi (De Cicco, 2014, pp. 9-44). Una delle tracce più antiche in cui Museo compare come figlio di Selene è in Platone: “Ed esibiscono una catena di libri di Museo e di Orfeo, progenie di Selene e delle Muse, come dicono, e in base a questi libri compiono sacrifici, persuadendo non soltanto i privati, ma anche le città, che sono possibili per quelli che sono ancora vivi, e inoltre per quelli che sono già morti, liberazioni e purificazioni da atti ingiusti, attraverso offerte e giuochi e gioie, cose chiamate veramente iniziazioni, che si sciolgono dai mali di laggiù, mentre pene terribili attendono coloro che non sacrificano” (Platone Rep. 364e-365a).
Si tratta di sacrifici per propiziarsi il favore degli dei offerti con cuore puro, con gioia, come dice Platone. Piccoli doni offerti al dio con sincera pietà, come del latte, del vino, delle granaglie, oppure mazzetti di fiori che ricordano e celebrano la fragilità e la brevità della vita (Hubert, Mauss, 2002). Alle ricompense per tali doni di purezza e sincerità Platone fa cenno in un altro passo della Repubblica: “Museo e suo figlio beni più generosi accordano dagli dei ai giusti: condottili, nel loro canto, all’Ade, li mettono a giacere, preparano il convito dei giusti e lasciano che essi incoronati ed ebbri passino tutto il loro tempo: pensano così che il premio più bello alla loro virtù sia una ebrietà senza fine” (Platone, Rep. II 363c). Anche Eraclito non esitò a definire i misteri (μυστήριον) medicina dell’anima e sostenne che “essi sono destinati a medicare le sventure e rendere le anime libere dalle pene che sono proprie dell’esser nati” (Semerano, 2001, p. 128).

A Museo e Orfeo fanno dunque ritorno molti aspetti della segreta essenza della nostra antica umanità. Nel nome di Museo, come ha scritto Giovanni Semerano, è traslitterata la voce dell’antico babilonese e dell’antico assiro mūšu (notte) e Museo è il cultore degli arcani misteri; il μύστης è l’iniziato all’arcano rito notturno; μυσ-τήριον è detto invece propriamente il rito. Da non dimenticare che M è un antico simbolo grafico dell’acqua e in accadico mû significa proprio “acqua”. E luna si dice in greco μήνη da associare, secondo Semeraro, al valore semantico e accadico manû (calcolare) con il senso di ricordare e avere senso. E manû nell’antico accadico (calcolare, computare) risulta proprio la mano come strumento naturale del contare (Semerano, 2001, pp. 4-18). Prima di essere identificato come il cantore consacrato alle Muse, Museo è dunque ipostasi della sacralità della Notte. “Mουσαῖος, il nome del figlio della Luna, è stato nel tempo appiattito su quello delle divine ispiratrici e ha cancellato - secondo Semerano - il vero nome che evoca la Notte, detta in antica parola accadica mūšu. Da questa parola ha origine il greco μύστης: “chi veglia tutta la notte” (παννυχίς) e partecipa al μυστήριον, in onore delle divinità ctonie Persefone e Demetra” (Semerano, 2001, pp. 229-230).
In Grecia la più antica voce dei poeti ha cantato la sacralità della Notte, genitrice cosmica: “nelle celebrazioni dei grandi misteri eleusini le anime che nella lunga notte si preparavano ad accogliere il segno del prodigio, con la presenza della divinità, rivivevano l’ansia delle antiche fedi che sapevano del mondo sviluppatosi dall’oscuro manto della Notte” (Semerano, 2001, p. 230). Anche Orfeo che discende all’Ade evoca la voce greca ὄρφνη (notte, tenebra); anch’egli partecipa del merito di avere istituito i riti misterici in cui si richiama la visione orfica del soggiorno all’isola dei beati, nei prati fioriti. Ogni luogo, nel suo profondo, richiama questa visione.

Alla figura leggendaria di Museo, incarnazione della potenza divinatoria di Apollo e di quella rigeneratrice di Dioniso, si lega anche il nome di un luogo: il Museion. La descrizione di questo luogo è presente in un frammento di Pausania: “…fortificando la località chiamata Museion. Il Museion è un colle proprio dirimpetto all’Acropoli, dentro il recinto della città antica, là dove dicono che cantasse Museo, e fosse sepolto quando morì di vecchiaia” (Otto, 2005, p. 79). Questo frammento di Pausania ferma la nostra attenzione e non ha bisogno di supporti probativi. Dirimpetto all’Acropoli c’è una collina denominata Museion (oggi Philopappos) in cui è sepolto Musaios: “vicino a questo Museion gli Ateniesi avevano un tempo combattuto le Amazzoni” (Otto, 2005, p. 79).

Come noto nell’antichità la costituzione di un luogo ha quale diretta conseguenza l’appropriazione di uno spazio delimitato da parte di uno spirito il quale può essere invocato da un uomo. Alla base dell’ideazione del Museion possiamo dunque ravvisare l’istanza di una ri-consacrazione formale dello spazio che si intreccia con l’arcano e sacro culto dei morti e degli antenati. E il primo Monumento umano, come ci ricorda Adolf Loos, è il tumulus, il sepolcro (Loos, 1999, pp. 253-254). Dalla morte traggono forza e origine le istituzioni umane e dunque trae forza e origine anche l’architettura del Museo. Tumulus, inteso come piccola collina, monticello di terra che ricopre un corpo, come rialzo, proviene dalla stessa base di «tumeo» da cui «tumba». La – m – di «tumeo» – come ha rilevato Giovanni Semerano – “corrisponde a un’originaria – b –: accad. taba’u (venir su, elevarsi, sollevarsi, aufstehen)” (Semerano, 2002, p. 569). Il Monumento è ciò che richiama alla memoria, richiama all’attenzione, (faccio pensare) e allo stesso tempo assume la funzione di monito, da moneo; “μένος animo, spirito, μέμονα io progetto, ho l’intenzione, ved. mamné (penso, credo); accad. mannû, manû, che ha il significato originario di calcolare, computare, ma anche di dare responsabilità a qualcuno” (Semerano, 2002, pp. 471-475). Senz’altro il più antico Monumento che l’uomo ha edificato è la tomba: memoria del passato e monito ai vivi.

Il tumulus è la forma simbolica che esorcizza e contiene l’angoscia della fine. La tomba antica è anche uno spazio il cui interno – vuoto, buio e senza funzione – è meravigliosamente allestito. Gli interni delle tombe antiche pur essendo affidati all’oscurità eterna erano allestiti come delle vere e proprie scenografie del vissuto. Nello spazio protetto ed elementare delle tombe erano, infatti, allestite vere e proprie scene quotidiane con l’intenzione di assicurare ai morti un concreto supporto materiale e spirituale per la vita oltre la vita. Veri e propri teatrini domestici – Wunderkammer ante litteram – le tombe costituiscono un archetipo fondativo delle forme dell’architettura in cui il luogo della memoria si fonde con quello della teatralità, nella comune ricerca della visione impossibile: la continuità tra la vita e la morte. Lo spazio teatrale è appunto lo spazio originario in cui tutto è predisposto per l’attesa e la visione di qualcosa che non c’è, che è invisibile oppure che è incomprensibilmente sparito (Clemente, 2016, pp. 19-93).

Il museo inteso come deposito di memorie da custodire e tramandare, e con le quali immaginare un nuovo mondo, ha felicemente nutrito nel corso del tempo il significato intrinseco dell’architettura. Per mezzo dei musei l’architettura contemporanea è riuscita a esprimere straordinarie potenzialità formali, costruttive ed espressive. Sappiamo altresì che i musei sono intimamente legati ai cambiamenti delle condizioni politiche di un paese, agli sviluppi storici, ai cambiamenti sociali e culturali di una società. A questo proposito è opportuno ricordare che il museo, come architettura autonoma, sorge nel momento in cui Hegel, nelle Lezioni sulla filosofia della storia redatte tra il 1821 e il 1824, dichiara il compimento del percorso storico dello spirito europeo (Hegel, 1961). Nelle Lezioni Hegel pone in evidenza un fatto semplice e decisivo per la nostra esperienza storica. Noi ci accorgiamo delle cose, dice Hegel, quando esse giungono al tramonto. Quando cioè le cose giungono al compimento. A quel punto possiamo soltanto rammemorare (Erinnerung) ciò che è stato. Che cosa, dunque, giunge a compimento? Giunge a compimento, secondo Hegel, il processo storico di razionalizzazione e di organizzazione del reale guidato dall’universalità della ragione cum scientia. Ed è noto come dall’evidente potenziamento dell’istanza razionale si affacci il rischio di un progressivo depotenziamento della ricchezza delle forme di vita – culturali, spirituali e metafisiche – su cui la storia e la realtà da lungo tempo s’assestavano vicendevolmente. È altrettanto noto a tutti come tale rischio di depotenziamento delle forme di vita e delle forme simboliche dell’esperienza umana oggi si esprima a tutti i livelli del sentire comune soprattutto attraverso la rete globale digitale.

In qualche modo – forzando la prospettiva hegeliana – il Museo rappresenterebbe il luogo ideale dal quale lo spirito razionale e astraente della cultura europea, giunto ormai al suo apice, può, in fine, contemplare pacificamente le immagini del suo passato, ormai protette e organizzate crono-logicamente.
Da questo luogo ideale, e da questo momento in poi, l’hegeliana razionalità della storia, intrinseca all’agire dello spirito europeo, può, senza alcun rimpianto per ciò che è stato, volgere lo sguardo al passato e rammemorare il proprio percorso e le sue forme ormai giunte al compimento. Ma soprattutto tale razionalità può finalmente e consapevolmente proseguire il suo cammino nella direzione del potenziamento della razionalizzazione della realtà e dell’esistenza umana in tutti i suoi aspetti.
Tuttavia, nonostante la forza unidirezionale dell’istanza di razionalizzazione, nel sentire comune, come ha mostrato tra gli altri Karl Jaspers, sembra che la memoria sopravvivi attraverso profonde e ineliminabili risonanze emotive ed affettive: “la storia non è completa; il divenire racchiude in sé possibilità infinite; ogni modellamento della storia in un tutto conosciuto viene infranto; ciò che è ricordato rivela, mediante nuovi dati, una verità prima inosservata; ciò che è stato scartato come inessenziale, acquista un’essenzialità dominante” (Jaspers, 2014, p. 345). Tuttavia il passato - il già stato - per quanto riepilogato, schematizzato e riorganizzato attraverso un sapere astratto e concettuale, continua a popolare gli spazi della nostra interiorità e della memoria collettiva e continua a riemergere ancora oggi come agente premonitore d’inquietudini rivelative. In altri termini il Museo appare oggi ai nostri occhi come un formidabile agente premonitore d’inquietudini rivelative. Il Museo è il ricettacolo del nuovo mondo e di cose arcaiche.


Tornando ai musei bisogna dire che negli ultimi anni sono passati dall’essere un importante fenomeno nazionale, regionale oppure locale, a essere un vero e proprio fenomeno globale, in cui, come ha mostrato Jean-Loup Amselle, convergono e s’intrecciano iniziative intergovernative, istituzionali ed economiche, a scala mondiale (Amselle, 2017). Ma il fatto ancora più importante è che nel frattempo, poniamo negli ultimi 25 anni, il luogo privilegiato in cui accumulare memorie, mitigare le differenze, organizzare cose e informazioni, si è spostato nello spazio virtuale del world.wide.web., uno spazio virtuale potenzialmente illimitato.
Questa dislocazione d’immagini, concetti e informazioni all’interno di uno spazio virtuale potenzialmente infinito è incomparabile con l’esperienza tradizionale, ma è allo stesso tempo qualcosa di incontrovertibile e altrettanto irrinunciabile. Com’è facile immaginare ci sono fondati motivi per pensare che anche il world.wide.web. rappresenti uno degli ultimi tasselli che disegnano il percorso storico dello spirito europeo. Nel non-luogo virtuale del world.wide.web. emerge stridente il rapporto tra razionalizzazione e rammemorazione del reale.

“E Orfeo afferma che Museo è figlio di Selene, mentre Museo dice di sé stesso d’essere figlio di Pandia figlia di Zeus e Selene – e di Antifemo. Ione, invece, sostiene che sia caduto dalla luna” (De Cicco, 2014, p. 29). La Luna richiama la notte. La Notte richiama il sonno. All’interno del non-luogo del sonno il futuro viene silenziosamente sognato, meravigliosamente immaginato. Tutte le gioie inaspettate e tutti i timori angoscianti racchiusi nei sogni, racchiusi nel tempo, sfociano, oltre che nella memoria, di cui la luna è simbolo di protezione, nella premonizione. Tra i tanti nomi della luna c’è anche quello sanscrito di Candra, che indica allo stesso tempo il presagio: la luna divinità del presagio.
Sicuramente tra le parole che creano il mondo, la “luna” è una tra le più belle, e la sua bellezza risiede anche nel suo rapporto con la parola “mano”, dal latino manus che ha il suo antecedente, come già accennato, nell’antico accadico manû (calcolare, computare). L’aspetto immaginativo, trasformativo e divinatorio dell’astro notturno non è sfuggito a Osvaldo Licini che ha fatto della luna il riflesso di fantasmatiche personificazioni chiamate Amalassunte. Personificazioni della luna che fluttuano - come anche i suoi Angeli ribelli – con le loro linee fiammeggianti nello spazio metamorfico del regno dei cieli. Anche le lune-Amalassunte di Licini sono figure del rammemorare originario, del trasfigurare immaginativo della memoria, del suo domandare simbolico e metafisico. Nel rapporto tra uomo e luna si apre lo spazio-vuoto del cielo notturno in cui salgono le domande degli uomini sull’indecifrabilità di ogni cosa. 

Il regime notturno dell’immaginario – evocato dalla figura leggendaria di Museo caduto dalla luna – affronta le forme del tempo tentando di captare le forze vitali del divenire. Le stesse forze che nel regime diurno, secondo Gilbert Durand, convergono invece nell’orrore e nell’angoscia per il divenire (Durand, 2009). Dunque come ogni inizio scaturisce dal buio in cui è occultato per venire alla luce in qualche cosa di significativo, così l’architettura dei Musei nasce e si sviluppa sottraendosi all’ingiunzione della pura evidenza chiarificatrice, conquistando poco alla volta pezzi di realtà senza dimenticare l’oscurità originaria.

Lungo il corridoio est del convento domenicano di San Domenico, a Firenze, c’è la cella numero 3. All’interno della piccola stanza, Fra Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro detto Guidolino, più noto come Beato Angelico, ha dipinto uno dei suoi affreschi più belli. Il tema dell’affresco è l’Annunciazione. La scena è essenziale, lo spazio è laconico ed enigmatico, la composizione è quasi astratta. Possiamo dire che l’immagine dell’affresco è più vicina all’idea di trascrizione di un evento che non di una sua vera e propria descrizione. Non è dunque una semplice illustrazione del racconto del Vangelo. L’immagine si fa avanti innanzi a noi come se fosse il ricordo del racconto del Vangelo, una sua immagine psichica. La psiche è fatta d’immagini. Ogni accadimento psichico, se ricordiamo le parole Carl Gustav Jung, è un'immagine e un immaginare. L’imaginatio, o l’immaginare, è “un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee quanto psichiche” (Jung, 1981, pp. 283-284). Un concentrato di forze vive che condensa una situazione psichica totale ed è solo indirettamente riferibile alla percezione di un oggetto o di una realtà esterna.
Nell’Annunciazione della cella numero 3 sono scomparsi tutti i possibili ed eventuali dettagli narrativi e naturalistici della vicenda. La scena dell’evento è immaginata spoglia ed è raccolta nel porticato del chiostro di un convento: due colonnine in parte nascoste dietro le risplendenti ali dell’angelo a sinistra, a destra la parete con il taglio di un’apertura. L’intreccio di volte a crociera racchiude la scena come se fosse un antro, una loggia, una piccola galleria. Pochi elementi architettonici per descrivere l’essenzialità dell’immagine. Essenzialità rimarcata dal bianco dell’intonaco che avvolge totalmente con il suo candore invecchiato dal tempo tutte le murature, compreso il soffitto a crociera, e anche il pavimento. Questo biancore essenziale si staglia come fondale rilucente della scena.

Lo spazio dell’Annunciazione appare, infatti, improvvisamente alla coscienza come una visione o un'allucinazione e sembra allo stesso tempo elusivo, incerto, indeterminato, quasi ossessivo, come lo spazio di un sogno. Sulla sinistra dell’immagine è visibile il ritaglio di un prato verde, e sulla soglia, tra il verde paradisiaco e l’artificiale porticato del chiostro, è raffigurato il frate domenicano Pietro da Verona dalla testa sanguinante, testimone anacronistico dell’evento. Il testimone – frate Pietro da Verona come chiunque di noi che guardi la scena – porta con in sé il suo passato e immanente in sé la sua preghiera e rende grazia a ciò che accade ora e per sempre davanti a lui.
La scena è dunque come una sorta d’immagine psichica dell’Annunciazione. La Vergine Maria, regina della notte, e l’angelo Gabriele emergono anche loro come figure essenziali sul bianco muro dello sfondo.  Questo spazio bianco e vuoto tra lo sguardo dell’angelo e lo sguardo di Maria è lo spazio della contemplazione e dell’inatteso. Lo spazio della rivelazione. Vive un eterno passato nel nostro presente. Un passato immemorabile. In questo spazio rarefatto ogni elemento è indizio di un significato pieno di grazia. Ogni cosa è piena di grazia. Lo spazio in sé, questo luogo del colloquio tra due anime, è pieno di grazia. E pieno di grazia è lo spazio che si addice al Museo.