“Montage, mon beau souci”

Elvio Manganaro




1. Questo è il resoconto di come gioco e montaggio hanno agito nello specifico di una didattica. Non è un saggio speculativo sui concetti di gioco e montaggio. È giusto avvertire il lettore.
Più avanti parlerò della Biennale 2019 e del numero de «il verri» su il montaggio e ancora di Mark Fisher e della ineluttabilità al gioco e al montaggio che contraddistingue questi anni.
Prima però devo descrivere i nostri giochi.

2. Il primo esercizio [figg. 1-3] è stato chiamato “Venezianella e Studentaccio” in onore a F.T. Marinetti.
Marinetti trascorre i suoi ultimissimi anni a Venezia. Vive in un palazzo sul Canal Grande davanti a Rialto, alla moglie e alle figlie detta la storia di uno studente futurista deciso a costruire sulla riva degli Schiavoni la Nuova Venezia. Essa avrà le sembianze di Venezianella, figura eterea ma sensuale, e sarà messa in opera attraverso l’assemblaggio delle principali architetture di Venezia: la basilica di San Marco, il Palazzo Ducale, la Ca’ d’Oro. Per chi si era battuto Contro Venezia passatista è quasi una palinodia.
L’esercizio è stato presentato altre volte1: si svolge fissando un universo veneziano di architetture e progetti, poi, attraverso la ricombinazione delle architetture di partenza, si producono rispettivamente un collage di piante, un collage di sezioni e uno di facciate. Ogni collage è autonomo. Ogni collage è un esercizio in sé concluso e niente condivide con gli altri. Comuni sono solo i limiti perimetrali, sia in pianta che in alzato, che appartengono a uno dei due prototipi di palazzo veneziano che il Palladio include nei Quattro Libri.
Non vi è indicazione funzionale. Se è facile riscontrare una naturale inclinazione a organizzare gli spazi in termini di coerenza distributiva, ciò è da imputare all’utilizzo di elementi di partenza già dotati di coerenza distributiva. Le tipologie, seppur smembrate e ricomposte secondo capriccio, ancora mantengono forza transitiva nei confronti dell’organizzazione spaziale.
Per le figure non è diverso. Processi di ribaltamento, di scala, di duplicazione non sono sufficienti a cancellare del tutto la loro riconoscibilità, quindi il loro carico semantico.
Arrivati a questo punto si procede nella direzione di un ulteriore montaggio.
Esso sarà il prodotto/scontro a livello di volume delle potenzialità spaziali insite nei collage precedentemente predisposti. Costrette all’incoerenza di pianta e sezione di solito le figure cedono alla forma.
Ma a volte no. Dal momento che il processo non è meccanico, ma conserva un elevato grado di libertà, spesso si agisce proprio nella direzione di preservare le figure.
Del prospetto invece non serve dire. È una maschera e non partecipa alla genesi dell’organismo volumetrico. Ha compiti di rappresentazione e comunicazione, è shed decorato.
Per questo motivo è incollato fuori dalla scatola.
La scatola, poi, misura la propria aspirazione alla meraviglia sulle scatole-giocattolo di Joseph Cornell, ma ciò non riguarda il processo.

3. Il secondo esercizio ha un luogo di applicazione: Ca’ Venier dei Leoni; e un tema: il Palazzo delle feste [figg. 4-8]. Non è un prototipo come “Venezianella e Studentaccio”, ma è un progetto con tutti i crismi, di cui pure va dato conto della ragionevolezza costruttiva. C’era questa sfida di giungere ad un progetto di architettura partendo solo da processi formali, da tecniche che escludessero le predilezioni, la scelta soggettiva delle immagini.
Non si trattava più di affermare l’arbitrarietà di ogni universo di partenza e dunque la liceità del pastiche, ma predisporre una strumentazione “passiva”, del tutto priva di senso distributivo o strutturale o figurativo. Lavorare con frammenti ridotti alla sola sostanza formale, per scongiurare l’ingresso di significati esterni pre-compositivi.
Rosalind Krauss ha scritto che la griglia è il dispositivo formale che meglio identifica la modernità2. La griglia decreta l’autonomia del campo dell’arte in opposizione al racconto ambientale e storico. Così abbiamo adottato una griglia di 5x5. Anziché prelevare figure e sintagmi dal contesto e assemblarli secondo sensibilità, costringersi a 25 tasselli assegnati dal caso. Frammenti non significativi estratti a freddo da 9 progetti di concorso per il Padiglione Italia (1988) e fatti precipitare su Ca’ Venier. Come un esperimento dada o praticando il cut-up all’architettura.
Durand incontra Balestrini è un bel titolo sotto cui registrare l’esercizio di Ca’ Venier.
La configurazione di partenza successivamente viene “corretta”, in caso contrario non ci sarebbe esercizio. Si stabilisce pertanto la possibilità di intervenire sui tasselli assegnati attraverso un numero limitato di operazioni. Queste sono: ruotare, specchiare, scalare. Lo scambio di posizione è consentito solo secondo movimento a L e ciò è da intendersi come omaggio a Sklovskij. Tali operazioni sono sufficienti per apparecchiare una nuova configurazione dotata questa volta di senso distributivo e spaziale. Quasi tutti ci riescono.
L’abilità ora è solo compositiva. C’è solo la sintassi.
Sebbene poi tornino anche le figure. Respinte da operazioni meccaniche, le figure tornano quale cura per salvare il progetto dal programma dimostrativo. Perché le figure sono ancora la strada più efficace per stabilire una relazione con la città. Tornano come espediente discorsivo. Perché le figure stanno sempre dentro il discorso, anche quando sono utilizzate con funzione polemica. Le figure fanno prima della sintassi.

4. Chi negli esercizi che abbiamo descritto riconosce la Grammatica di Gianni Rodari vede bene. Grammatica della fantasia è un libro di composizione. Poco importa che sia dedicato all’arte di inventare storie e non all’architettura.
Rodari applica al suo lavoro di maestro gli artifici delle avanguardie.
C’è una grande speranza che corre tra le pagine di quel piccolo libro. Non solo perché ha come oggetto il mondo dell’infanzia, ma perché afferma che idea di mondo (non dico ideologia) e artificio artistico possono procedere insieme. Nessuna favola o gioco è mai troppo estraneo alla realtà, sebbene favola e gioco siano necessari a superare la realtà.
Gianni Rodari era comunista.

5. Invece, ciò che accomuna i nostri giochi di montaggio è la malinconia per un mondo che non c’è più. Le promesse di quel mondo però agitano ancora l’aria, come fantasmi.
Solo ad occhi distratti o offuscati di pregiudizio la violenza del pastiche e la brutalità della scomposizione formale non rivelano l’amore per il mondo che si fa a pezzi. Sono gesti pietosi, sebbene travestiti da avanguardia.
Dunque lo sperimentalismo come strategia per non cedere alla realtà, il doppio fondo entro cui contrabbandare un’idea di mondo, certe immagini e non altre.
Allora viva il montaggio, viva il “coltello da cucina” di dada, viva il gioco dell’avanguardia se tra le pieghe nasconde qualcosa, una «parte metallica», che «possa appropriarsene solo chi l’abbia chiesta; e per questo meritata»3. Come la «lima fine d’acciaio» fatta recapitare al carcerato nella pagnotta, diceva Fortini.

6. Stefano Chiodi e Daniele Giglioli nel numero de «il verri» dedicato al montaggio4 accusano questa tecnica di essere la forma simbolica del tardo capitalismo. Nello stesso modo in cui la prospettiva è stata la forma simbolica dell’umanesimo rinascimentale. Dismessa la funzione contestativa nei confronti del reale, il montaggio diviene dispositivo di consenso.
Chiodi e Giglioli hanno ragione. Liberare i significanti dalla loro gabbia di senso, attentare alla conseguenzialità delle narrazioni non produce più deflagrazioni nel continuum della Storia.
I presupposti di questo lunghissimo presente, che ha abolito il tempo e la storia e in cui tutto fluisce in perpetua ricombinazione, devono cercarsi proprio nella natura sincronica del montaggio (Warburg ha infine vinto la sua battaglia contro Vasari e Winckelmann).
Eppure è ancora nella capacità di associare idee «distanti e giuste»5 che risiederà la forza di ogni nuova immagine, quel «seme invernalizzato di futuro» di cui dicono Chiodi e Giglioli.
Infatti sono ancora Godard e Balestrini a indicare la via per un montaggio non pacificato.
A Godard, anche, dobbiamo il titolo di queste note.

7. L’inclinazione alla retrospezione e al rimontaggio nostalgico che caratterizza questi anni è espressione della condizione che Fisher chiama “realismo capitalista”6. Realismo capitalista e non postmodernismo a causa di tutte le incrostazioni critiche depositate sulla formula postmoderno. Ma anche per una certa durezza con cui il thatcheriano “there is no alternative” si è radicato nella nostra società.
Nonostante tutto di postmodernismo si tratta.
Fisher rimpiange la promessa di un potenziale rivoluzionario insito nell’innovazione formale.
Fisher è orfano di quella promessa di futuro che ha presupposti di forma.
Scrive nel suo libro che senza il futuro anche il passato viene meno, che senza la dialettica verso il passato anche il concetto di tradizione smette di avere senso. Perché come il futuro si costruisce sul passato anche quest’ultimo non smette di riconfigurarsi alla luce di ogni nuova opera. Queste cose Fisher le prende da T.S. Eliot7. Ma anche il Kafka8 di Borges, che “produce” a ritroso i propri precursori, non è lontano, così pure Didi-Huberman e il suo anacronismo9.
Ora, c’è malinconia in questa coazione a usare le parole di ieri, a smontare e rimontare sempre le stesse immagini riutilizzando le tecniche dell’avanguardia. Fisher descrive questo particolare tipo di malinconia come “hauntologico”10. Hauntology traduce il francese hantologie, che è un gioco di parole tra hanter (ossessionare, infestare) e ontologie. Derrida lo conia negli Spettri di Marx. Ciò che caratterizza questa condizione di malinconia da altre forme di nostalgia è il suo essere legata alle promesse che una certa situazione aveva avuto la forza di produrre. È il rifiuto di rinunciare a quei fantasmi, in cambio di una realtà mediocre. Quindi capisco la disperazione di Fisher per i futuri “promessi” che non sono mai arrivati e mai arriveranno, ma che continuano ad infestare il presente. Capisco benissimo questo domani ridotto a gioco di spettri, di promesse non evase che poi sono ancora le promesse del modernismo, dell’avanguardia. Anche capisco il Militant modernism di Hatherley11.
Eppure, ancora, la soluzione si trova nel montaggio stesso. È il livello di consapevolezza dell’operazione a distinguere un assemblaggio “hauntologico” da un pastiche reazionario. Il primo non accetta il gioco di illusione che cancella il passato insieme al futuro. All’abbaglio di un passato eternamente presente, in quanto frutto di una riproduzione formalmente perfetta, oppone le giunture, i rappezzi, gli spazi bianchi tra un ritaglio e l’altro.
Il cubismo aveva avuto quasi lo stesso problema. Solo la scoperta della superficie reale della tela, attraverso i papier collé, ha permesso a Braque e Picasso di superare l’illusionismo spaziale a cui la frammentazione in piccole superfici della fase analitica aveva condotto.
Così i musicisti che Fisher ama producono le loro composizioni ancora a partire da un ipermontaggio di frammenti esistenti. Rimontano quello che la risacca culturale lascia per strada, i pezzi abbandonati, ciò che non interessa più a nessuno.
Come il bricoleur di Lévi-Strauss o i bambini di Benjamin12.

8. Anche gli artisti che il curatore newyorkese Ralph Rugoff ha raccolto per la Biennale di quest’anno13 giocano a montare e smontare ciò che la realtà produce; impiegano le tecniche dell’avanguardia con innocenza e impegno sperimentale, senza cinismo neo neo-avanguardista.
D’altronde altre situazioni non si danno. E se si danno sono in funzione della realtà, rispondono alle costruzioni ideologiche del “realismo capitalista”.
Per questo le opere ospitate alle Corderie e al Padiglione centrale sono commoventi, perché affermano con caparbietà e curiosità da fanciullo la loro distanza dal mondo degli adulti, ma anche l’attrazione verso quel mondo.
A chi con sussiego farà notare che è ancora la vecchia storiella dell’arbitrarietà del segno e dello scollamento tra significato e significante a doversi leggere dietro a quei lavori, si risponderà che importa niente, perché serio e necessario è il monologo del bambino che gioca da solo, che smonta i giochi regalati dai genitori, dalla Storia.
Già ci sono risparmiati proclami e manifesti e teorie e tanto basta.
Anche perché il gioco dell’avanguardia oggi vive solo a livello di moralità sperimentale e la moralità riguarda la coscienza del singolo artista. L’avanguardia non è più un gioco di gruppo.
I giochi di gruppo nell’arte si chiamano politica culturale. Sono giochi che anche avevano un senso quando erano espressione di un’idea di mondo.
Ora sono venuti a noia, perché caduta l’idea è rimasto solo l’aspetto più mercantile.

9. Qui viene la parte più difficile.
Perché chi scrive di composizione non può congedarsi dietro le parole.
Devo mostrare questo disegno [fig. 9]. È un disegno di concorso per una scuola di Milano.
Lo mostro come una confessione o un tradimento, dal momento che non è stato fatto ricorrendo al montaggio (“hauntologico” o stilistico che sia), e ha padri diversi da quelli che ci siamo dati fino a ieri.
È il tentativo di trovare parole più semplici, perché il pastiche è elitario. Il pastiche violenta la storia, la mette sottosopra (benissimo), ma resta un gioco destinato a coloro capaci di godere degli shock di tale libertinaggio figurale.
Praticare il pastiche per amore, per incapacità di rinunciare ai propri fantasmi figurativi non modifica il suo status di gioco prezioso.
Abbiamo deciso di tornare alla linea, al punto e alla superficie, e quindi a Froebel e Klee e alla favola dei 2 Quadrati di Lisitskij, non solo per affermare un’idea di arte come attività dello spirito, ma per un problema di lingua (ancora).
Anche per un’idea di cultura come campo di battaglia. Certo.
Mi spiego: il gioco della geometria va sottratto alla razionalità del processo edilizio, alla ragione tecnologica. Esso possiede natali demoniaci e antinaturalistici che gli vanno restituiti. Ovvero, recuperare il cuore simbolico e magico e mistico della geometria. Perché non c’è solo Cézanne e l’altra origine dell’astrazione è da cercarsi in Toorop, Munch, Klimt.
Mondrian frequentava circoli teosofici. Rileggersi Albino Galvano14 quale contravveleno all’astrattismo progressivo di Argan e all’equazione pedagogia formale = pedagogia sociale.
L’arte astratta possiede un nucleo che è irriducibilmente in opposizione alla realtà, nonostante il suo materialismo. Anzi grazie al suo materialismo.
Io voglio dire: cercare il punto di equilibrio tra Rodari e Malevic.
Questo mi sembra un buon programma di ricerca per i prossimi anni.

* I progetti didattici provengono dal Laboratorio di progettazione architettonica 2 del Politecnico di Milano (a.a. 2018-19) dei proff. Elvio Manganaro, Micaela Bordin (urbanistica), Simone Peloso (strutture); archh. Margherita Mojoli, Ilaria Sgaria, Riccardo Zucco; studenti collaboratori: Francesca Cambi, Sara Camedda, Silvia Cazacencu, Riccardo Danese, Daniele Domokos, Francesca Fiumanò, Houssam Mahi, Giovanni Marca, Linda Martellini, Diego Morabito, Migena Nezha, Beatrice Parma, Francesco Pavan, Mattia Penati, Arnold Pere, Matilde Polvani, Riccardo Rapparini, Greta Rosso.


Note
1 Elvio Manganaro, Assemblages de jeunesse (omaggio a R.R.), in «’Ananke», n. 84, pp. 84-86.
2 Rosalind E. Krauss, Grids, in «October», n. 9, estate 1979, ora in Id., L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, a cura di Elio Grazioli, Fazi, Roma 2007, pp. 13-27.
3 Franco Fortini, Astuti come colombe, in Id., Verifica dei poteri, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 67-89.
4 Stefano Chiodi, Daniele Giglioli, L’epoca del montaggio universale, in «il verri», n. 68, “linee di montaggio”, numero monografico dedicato al montaggio, a cura di S. Chiodi e D. Giglioli, ottobre 2018, pp. 5-9.
5 Pierre Reverdy, L’image, in «Nord-Sud», n. 13, marzo 1918.
6 Mark Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?, Zero Books, Winchester UK, 2009; tr. it, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.
7 T.S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919), in Id., The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, Methuen & Co. Ltd, London 1920; tr. it., Tradizione e talento individuale, in Id., Il bosco sacro. Saggi di poesia e critica, Mursia, Milano 1971.
8 Jorge Luis Borges, Kafka y sus precursores, in Id., Otras inquisiciones, SUR, Buenos Aires 1952; tr. it., Kafka e i suoi precursori, in Id., Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1963.
9 Georges Didi-Huberman, Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, Éditions de Minuit, Paris 2000; tr. it., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
10 Mark Fisher, Ghosts of My Life. Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures, John Hunt Publishing Ltd, UK 2013, tr. it. Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, minimum fax, Roma 2019.
11 Owen Hatherley, Militant Modernism, Zero Books, Winchester UK, Washington USA, 2008.
12 Walter Benjamin, Alte vergessene Kinderbücher [II] (1924); tr. it., Vecchi libri per l’infanzia [II], in Id., Opere complete, II, Einaudi, Torino 2001, pp. 50-57.
13 Cfr. il catalogo della mostra May You Live In Interesting Times, La Biennale di Venezia, Biennale Arte 2019.
14 Albino Galvano, Dal simbolismo all’astrattismo (1953); Le poetiche del Simbolismo e l’origine dell’Astrattismo figurativo (1954-55); L’erotismo del “Liberty” e la sublimazione astrattista (1961), in Id., La pittura, lo spirito e il sangue, a cura di Giuseppe Mantovani, Il Quadrante Edizioni, Torino 1988, pp. 71-90; 111-133; 169-192.


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