Densificare/Diradare. L’arcipelago come risposta

Antonello Russo 




Un’idea di città
L’idea di un’estensione urbana priva di limiti e di forma ha palesato, nella recente emergenza sanitaria, tutta la sua inadeguatezza amplificando il suo, già pregresso, stato di crisi. La necessità di porre rimedio al consumo di suolo, l’urgenza di ottimizzare le risorse, l’esigenza di limitare l’estensione dei servizi di rete dispersi in rivoli capillari per raggiungere singole destinazioni sparse, dispongono oggi nuove connessioni con le cogenti restrizioni sanitarie sospese tra una propensione al confinamento degli abitanti urbani in aree circoscritte e opportune misure di distanziamento sociale tra individui di cui non è nota la provenienza.  L’idea di città che ne deriva assegna di colpo nuova vita ai luoghi marginali purché ampiamente connessi con i nodi intermodali sia fisici che immateriali destinati allo scambio di idee, merci e persone. Ne consegue una riflessione disciplinare sulla forma dei territori antropizzati in grado di alimentare un dibattito critico sulla evoluzione dell’abitare urbano. Attraversata l’idea di una città per parti perpetuata nel Moderno, superati anche i propositi additivi di un modello policentrico che assegnava ai nuclei satelliti funzioni comunque dipendenti dal centro consolidato, l’organismo urbano punta, nel tempo corrente, ad un’idea antigerarchica della sua estensione caratterizzata, nelle aree esterne, dall’instaurarsi di equilibri tensionali tra nuclei di media dimensione dotati di autonome identità. Al pari delle aggregazioni formali riconoscibili nel fondo del Campo Marzio di Piranesi, la lettura zenitale dei territori periurbani rilegge la composizione spontanea di grumi identificabili come entità intermedie tra urbanità concluse e frammenti di città. Riconducibili, in Italia, ai comparti residenziali caratterizzanti la scala del quartiere (che riconosce nel secondo Novecento un importante periodo di sperimentazione sulla composizione di parti finite dell’organismo urbano) tali addensamenti si propongono, oggi, come
potenzialità in attesa di opportuni completamenti, di nuove addizioni di servizi, di ampie e salutari demolizioni di ogni proliferazione priva di forma, come strategie finalizzate alla definizione di nuclei ad alta densità ma di contenuta dimensione. In tale quadro una riflessione sulla forma dell’organismo urbano conduce ad affinare una grammatica insediativa che, a fronte dell’estensione e della dispersione della  città diffusa, individua, per opposto, nella concentrazione e nella discontinuità del costruito, nella definizione di un limite esatto agli insediamenti, nella distanza tra parti distinte, i presupposti operativi per definire i caratteri delle aree periurbane coinvolgendo, nella stessa logica, anche i processi rigenerativi di ampi comparti dismessi posti all’interno dei nuclei consolidati. Attualizzazione degli studi sulla Città Orizzontale di Irenio Diotallevi, Franco Marescotti e Giuseppe Pagano, interpretazione critica delle indagini sulla Città in Estensione di Giuseppe Samonà, della Città nella Città di Oswald Mathias Ungers, rielaborazione scalare delle ricerche sulle Zolle Urbane di Salvatore Bisogni, l’idea dell’arcipelago urbano composto da insediamenti distinti delinea la messa a sistema di una materialità densa e compatta come luogo operativo di fitte relazioni tra matrici pluriscalari organizzate, ciascuna, in un ordine spaziale vario, stratificato e interconnesso dei vari elementi costituenti. Proiezione critica delle potenzialità espresse nella definizione di città diffusa di Francesco Indovina, sintesi e memoria di un’idea di suolo come infrastruttura di supporto che sostiene ogni insediamento, espressa già negli anni Ottanta da Bernardo Secchi, tale figurazione definisce un modello caratterizzato da una prevalenza di spazi aperti di natura utili alla materializzazione, sul suolo agricolo, di improvvise coagulazioni di tessuto determinate dalla densificazione e dal completamento dei grumi/quartieri esistenti per la disposizione, a distanza critica, di isole insediative in grado di ospitare abitanti stanziali per non più di ventimila unità. Distinguibili come addizioni finite i singoli urbani amplificano la loro presenza in virtù della definizione di una figura riconoscibile per contrasto rispetto alla trama dei campi circostante. Collocati in prossimità dei nastri infrastrutturali, che come canali navigabili solcano il suolo agricolo, tali addensamenti definiscono relazioni complementari tra isole contermini per la disposizione planimetrica di un arcipelago insediativo caratterizzato da molteplici approdi. Consono a interpretare un virtuoso rapporto tra città e natura, tale modello delinea, dunque, nel vuoto, nel negativo verde tra gli insediamenti, nella distanza tra agglomerazioni distinte, un intervallo non residuale ma, piuttosto, necessario a riconoscere i caratteri fisici della natura ospitante e il valore civile della città come paritari interlocutori di una dialettica alta.  

 L’isola
A distanza i singoli addensamenti materializzano la loro immagine nella definizione di uno skyline orizzontale bilanciato da contraltari verticali identificabili come landmark urbani i quali, al pari delle torri e dei campanili della città storica, compongono i riferimenti territoriali a grande scala. All’interno del tessuto la necessità di mantenere costante una proficua tensione tra l’identità dei fatti urbani e la conformità delle aree-residenza delinea un virtuoso conflitto tra la permanenza, disposta dalla iterazione di una misura, e l’evolversi di una controllata mutazione, distribuita da ampie variazioni tipologiche impresse ai singoli elementi della composizione. Edifici specialistici, servizi a scala territoriale e luoghi per il lavoro collettivo distinguono le accelerazioni di una metrica nella quale lo spazio aperto, nelle sue progressive declinazioni -pubblico, semipubblico, privato- delinea gli intervalli nel costruito e la misura delle spazialità per i riti di appropriazione collettiva con risvolti connessi alla prossimità urbana e alle unità di vicinato. Memore della consistenza porosa dei quartieri americani di Louis Sauer del secondo Novecento, l’idea di diradamento è disposta come operazione successiva alla composizione di una fitta densità per la misurazione di vuoti caratterizzanti le polarità e i riferimenti spaziali del tracciato di base. Strumentali al controllo di un’efficace estetica della variazione, le piazze, i campi, le corti e i patii,
ma anche i parchi, i giardini, gli slarghi, i cortili, i parcheggi, i luoghi interstiziali, dispongono in sequenza le nomenclature di un elenco tipologico di esterni in grado di generare improvvise dilatazioni finalizzate a rifiatare la densità del tessuto. Interprete della discontinuità urbana teorizzata nelle esperienze di OMA -nel progetto per la Ville Nouvelle di Melun Sénart nei dintorni di Parigi in Francia e, più chiaramente, nell’impianto per Chassé Terrain a Breda in Olanda- è l’identità dello spazio aperto a guidare la composizione ricorrendo, però, ad una serrata misurazione della sua forma per la definizione di un’appropriazione identitaria alternativa ai propositi decontestualizzanti della città generica e alla dimensione informale del junkspace contemporaneo. Come nella Roma settecentesca tratteggiata nella pianta del Nolli, la connessione tra vuoti alveolari dispone nell’attraversamento pedonale, nell’incontro informale, nella presenza dell’arte, le consuetudini di una dimensione più umana e civile dell’abitare urbano. In tale quadro analizzare, immaginare, comporre l’architettura della città a partire dalla consistenza del vuoto riverbera l’esigenza di una più evidente intelligibilità delle forme degli edifici più rappresentativi i quali, come cardini massivi e pesanti, si propongono come improvvise solidificazioni materiche che ancorano al suolo l’idea di una monumentalità debole della composizione disposta, nella contemporaneità, come nuova esegesi della dimensione tettonica del manufatto.
La casa
In tale quadro lo spazio domestico acquista nuova centralità registrando nella misura e nelle variazioni della cellula abitativa l’unità primaria elementare del tessuto. Luogo primario di un’esibita convivialità, l’interno residenziale urbano registra le istanze rappresentative di ogni attività performativa dell’individuo a cui è opposta una crescente richiesta d’internità in grado di riservare alla casa i caratteri di ultimo rifugio dell’esistenza. Come negli studi miesiani degli anni Trenta è ribadita, in tale ambiguità, la richiesta di una progressiva dilatazione della spazialità dell’interno domestico corroborata dalla dotazione di vani aperti –logge, terrazze, giardini– confluente in un progressivo indebolimento della soglia di passaggio tra interno e spazio esterno della residenza. Silenzioso e assertivo, sospeso tra esibizione e introversione, tra la densità delle sue funzioni e il diradamento disposto dalla presenza, al suo interno, di ampi vuoti aperti verso il cielo, lo spazio della casa delinea nel patio il suo tipo di riferimento.

Conclusioni provvisorie
Con la convinzione che solo aderendo a una teoria ampia e generale sulla città è possibile procedere alla manipolazione delle sue parti, anche le più minute, la proposizione di un’idea di forma dell’organismo urbano individua nell’alternanza tra densità e rarefazione le azioni primarie di un’articolata sintassi finalizzata a interpretare una sequenza scalare che riunisce i caratteri del territorio e del paesaggio coinvolgendo l’abitante urbano fin nella spazialità del suo interno domestico. Ne consegue l’attitudine ad un’attenzione specifica per l’esistente, per le aree marginali, per le aggregazioni già presenti alla scala del quartiere, per i borghi di contenuta dimensione, come soggetti attivi di una dialettica operante tra aggregazioni urbane e spazi di natura tale da definire nella misura del vuoto i dati di una reale, positiva, appropriazione.


Bibliografia
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