L’isolato europeo come rinnovata entità spaziale tra abitare collettivo, autonomia funzionale e sostenibilità

Pascal Federico Cassaro, Flavia Magliacani 




La recente crisi sanitaria ci ha posti di fronte all’impellente necessità di un significativo ripensamento dello spazio urbano. Nonostante le città abbiano mostrato i limiti di una condizione sotto molto aspetti insostenibile, quella urbana rimane tuttavia una realtà abitativa impreteribile. Diviene dunque prioritario focalizzare l’attenzione sulla comprensione e sulla definizione di nuove soluzioni alle problematiche attuali con la capacità di riflettere, allo stesso tempo, sulle potenzialità rigenerative del tessuto esistente.
Sebbene l’attenzione collettiva si sia ampiamente focalizzata sulla necessità di ripensare lo spazio dell’alloggio come ambito di confinamento individuale per lo svolgimento di tutte le attività quotidiane, rimane fondamentale la ricerca di soluzioni che preservino e favoriscano le relazioni sociali, superando la fatalistica rassegnazione ad un futuro fatto di isolamento ed individualismo. Al di là del ruolo della singola abitazione, un livello superiore di analisi di primaria importanza diviene dunque quello che riguarda la dimensione urbana. In quest’ottica, risulta interessante esplorare le potenzialità di un modello tipo-morfologico già pienamente inserito nella storica linea di sviluppo della realtà europea: l’isolato urbano, nucleo strutturale e generatore del tessuto della città.
Specifico elemento di organizzazione spaziale che «il secolo XIX trasforma e il XX abolisce» (Panerai 1980), il complesso processo evolutivo di erosione, dissoluzione, ricomposizione e apertura dell’isolato ha coinciso con le maggiori trasformazioni urbane dell’ultimo secolo (Reale 2012). La sua progressiva scomposizione, voluta dal movimento Moderno nel tentativo di distruggere il concetto di rue corridor in nome di una maggiore libertà nella disposizione degli oggetti architettonici sul suolo urbano, ha portato alla trasformazione De l’îlot à la barre (Panerai, Castex e Depaule 1980). Tuttavia, dal secondo dopoguerra una sua progressiva riabilitazione ne ha affermato nuovamente il ruolo di fondamentale importanza nella ricostruzione urbana.
Proseguendo un percorso definitivamente affermatosi dalla fine degli anni ’70 volto a riscoprirne i valori di identità del luogo (Rossi 1966) e di collettività (De Carlo 1976), l’isolato rappresenta ancora oggi un dispositivo spaziale di grande interesse e rinnovata sperimentazione. Negli ultimi decenni, numerosi architetti e urbanisti vi hanno infatti identificato l’unità da cui partire per rigenerare il tessuto delle città (Portzamparc 1994), convinzione che ha dato vita a promettenti esperimenti architettonici come quelli dei macrolots1: una soluzione di diffuso successo operativo nelle principali città francesi come modello in grado di rispondere alle grandi sfide della pianificazione contemporanea (Fromont 2012).
Il modello del macrolot si iscrive nella continuità teorico-progettuale dell’îlot – l’isolato tradizionalmente inteso come entità autonoma di forma urbana primordiale – ma ne propone una profonda reinterpretazione ed attualizzazione, opponendosi all’eccessivo frammentarismo spaziale dell’urbanisme parcellaire2 che ostacolerebbe il perseguimento di una «densità intelligente» (Michelin 2010): se la città contemporanea deve essere ripensata alla scala dell’isolato, il progetto unitario di un grand îlot rende possibile il ripensamento della trama classica in una dimensione urbana composta da sottoinsiemi che non coincidano più con singole parcelle autonome, ma che generino altresì delle nuove unités de vie3 (Lucan 2012).
Nel macrolot i residenti condividono – sul piano della proprietà, del diritto alla fruizione e della gestione – lo spazio semi-privato delle corti interne, diversi servizi comuni ed alcuni ambienti dedicati a funzioni collettive, per un principio di coproprietà che pone l’accento sull’importanza degli spazi tra gli edifici, del tempo libero e della condivisione.
Nonostante l’emersione di diverse problematiche derivanti dalla complessità di queste operazioni (difficoltà di concertazione tra un elevato numero di attori, difficile distinzione tra proprietà collettiva e proprietà privata sul piano della gestione finanziaria e manutentiva, etc), l’«esprit de copropriété dymnamique» (Lucan 2012) che le anima costituisce il fattore di maggior interesse per il nostro ragionamento, rivelando due intenti principali: in primo luogo, una rinnovata ricerca di quella complessità sociale, spaziale e relazionale propria delle unità di vicinato in una porosa spazialità urbana, quell’ambito intermedio tra la casa ed il quartiere a lungo indagato a partire dagli anni ‘60 (Team X 1962); in secondo luogo, la volontà di integrare diverse destinazioni d’uso, tipologie abitative e gradi di utenza in un’entità urbana organica che costituisca allo stesso tempo la minima cellula generatrice dell’intero tessuto.
Tra le innumerevoli realizzazioni, l’Îlot Armagnac realizzato a Bordeaux da ANMA materializza il modello descritto in una articolata “stratigrafia” funzionale, una sorta di piccolo villaggio in un unico macro isolato. Come nella maggior parte dei casi, si tratta di una strategia di riurbanizzazione utilizzata per interventi di nuova costruzione e recupero di vaste aree dismesse con programmi ad elevata densità funzionale (Guislain 2016).
Tuttavia, l’approccio fin qui descritto può accomunare diverse scelte progettuali e realizzative: la ricerca di una sapiente modulazione spaziale dal mondo privato dell’abitazione all’universo pubblico degli spazi condivisi e la sperimentazione su modelli abitativi che incentivino la presenza di vita collettiva dovrebbero infatti costituire il denominatore comune di una prassi operativa che indirizzi allo stesso tempo nuove modalità di intervento sulla città esistente.
Sebbene infatti la recente crisi sanitaria abbia imposto la parola isolamento come dictat di una nuova dimensione abitativa, è emerso altrettanto chiaramente il bisogno di spazi aperti e di luoghi in cui poter vivere la socialità nonostante la necessità controllo e sicurezza. Proprio in quest’ottica assume rilievo, e acquisisce potenziale, un ripensamento della città consolidata come sistema composto di cellule (gli isolati), con la possibilità di prevederne autonomia e isolabilità da un punto di vista funzionale, gestionale ed energetico.
Si tratterebbe, operativamente, di intervenire alla scala dell’isolato in maniera integrata, con un approccio che potremmo dirsi ispirato alla filosofia di intervento di Aldo Rossi a Berlino sull’isolato di Schützenstraße: la ricomposizione di un blocco in cui mantenimento e integrazione dell’edificazione preesistente riflettano la progressiva stratificazione del tessuto, di cui è interessante, in questo contesto, rimarcare la forte volontà di conferire una significazione urbana collettiva ad una se pur mantenuta eterogeneità delle componenti; un’operazione in cui lo spazio interno assume nuova vitalità e importanza come trait d’union tra gli edifici nel tentativo di incentivare un comune senso di appartenenza e la riappropriazione dello spazio oltre la soglia del singolo alloggio.
Tuttavia, ripensare l’isolato in questi termini richiede oggi, ed alla luce delle mutate esigenze sociali, ambientali ed igienico sanitarie, uno sforzo ulteriore nel ricercare soluzioni finalizzate a garantire una sempre maggiore mixité programmatica, adeguate a nuove necessità abitative: la previsione di spazi per lo svolgimento di attività sportive, per il coworking e lo studio, aree ricreative e luoghi aperti per il tempo libero, la previsione di servizi essenziali facilmente reperibili, sono alcuni degli elementi che potrebbero essere condensati coesistendo all’interno di un modulo urbano. Con simili presupposti, anche nei casi in cui fosse necessario un maggiore isolamento sociale e la naturale continuità con lo spazio urbano circostante dovesse essere temporaneamente interrotta, sarebbe tuttavia possibile garantire qualità nella quotidianità degli abitanti.
L’unitarietà così ritrovata permetterebbe inoltre di raggiungere importanti risultati anche da un punto di vista energetico. Nella ricerca di sostenibilità su una molteplicità di piani che coesistono e si compenetrano, la possibilità di condividere spazi è infatti potenzialmente legata alla possibilità di condividere diverse modalità di consumo e produzione energetica4 (Ratti 2017; Salat 2011). Considerare l’isolato nella sua interezza, piuttosto che i singoli edifici in maniera frammentaria, agevolerebbe la continuità di scambio energetico attraverso un percorso breve ed efficiente, minimizzando situazioni di svantaggio unitario, promuovendo l’equilibrio energetico complessivo e un maggiore controllo di scala sul piano progettuale e gestionale (Lehmann 2010).
La reinterpretazione dell’isolato proposta può avvenire attraverso diverse ipotesi trasformative, basandosi su alcuni orientamenti comuni: prevedere un’unitarietà di intervento su isolati esistenti a cui conferire identità spaziale e complessità funzionale, attraverso la ricucitura di frammenti di tessuto, l’inserimento di nuove funzioni collettive e un adeguato ripensamento degli spazi comuni, cellule urbane energeticamente autonome e socialmente ricche, caratterizzate da una adeguata qualità abitativa.


Note
1 A livello di definizione urbanistica, un macro-lot è l’associazione di piccoli lotti, che può in certi casi raggiungere la scala dell’isolato urbano (IAU ÎdF 2011).  
Come le macrostrutture delle grandi utopie, questo nuovo strumento di organizzazione della città riprende, sviluppa ed estremizza il principio dell’unità delle parti nella totalità del blocco, concretizzando l’aspirazione alla coesistenza ed all’intreccio di diverse funzioni – solitamente distinte – in un unico organismo dalla forte mixité programmatica e densità urbana, non rifiutando tuttavia il dialogo con un tessuto di tipo tradizionale con cui invece ricerca continuità e relazione (Guislain 2016).
2 Per urbanisme parcellaire o découpage parcellaire si intende la tradizionale parcellizzazione degli isolati in lotti eterogenei e sconnessi.
3 Il termine “unità di vita” viene spesso usato a partire dagli anni ’50 e ’60 (Team X, 1962) per indicare le “unità di vicinato” che, moltiplicate e reciprocamente articolate tra loro, costituiscono un quartiere o un distretto urbano.
4 Numerosi studi sul legame tra caratteristiche morfologiche ed energetiche condotti dall’Urban Morphology Institute negli ultimi dieci anni, hanno infatti dimostrato come l’isolato rappresenti la giusta scala di intervento per l’ottenimento di elevate prestazioni energetiche a livello locale e di rete urbana.


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