Luoghi elastici e progetto intermedio

Paola Scala, Grazia Pota




«Noi abbiamo bisogno di abitazioni a buon mercato e igieniche, che rendano possibile agli abitanti il risparmio di forze fisiche e psicologiche. Tali abitazioni non implicano soltanto una salute migliore della popolazione ma anche un vantaggio per il patrimonio nazionale perché risulterebbero ridotte le spese per ospedali, sanatori, etc.».
Alexander Klein (1930).

La città moderna fonda le proprie radici sul rapporto architettura e salute pubblica. Gli studi sull’alloggio minimo in grado di assicurare un “modus vivendi” minimo anziché un “modus non moriendi” (Gropius 1930), investono rapidamente la dimensione non solo dell’edificio ma dello spazio pubblico e del quartiere e, dunque, dell’espansione della città moderna. Non è questa la sede per ripercorrere una storia a tutti ben nota, attuatasi prima attraverso i CIAM e poi con le sperimentazioni pre e post-belliche, passando per le grandi Utopie degli anni Sessanta e Settanta e tristemente conclusasi con la banalità di molte delle nostre periferie; tuttavia, l’emergenza Covid-19, che ci ha messo di fronte alle vere ragioni dell’urbanistica moderna, inquadra il tema di queste aree “ai margini” della città in una nuova prospettiva. Prima della pandemia la questione delle periferie rappresentava uno dei temi caldi della ricerca architettonica italiana. Il piano delle Periferie, fortemente voluto da Renzo Piano, nonostante il congelamento dei fondi attuato nel 2019 dall’emendamento 13.2 al ddl n. 717, aveva dato avvio ad alcuni processi di rigenerazione urbana nelle aree periferiche di diverse città italiane talvolta basati su studi condotti all’interno delle università1. La pandemia ha forse spento, almeno per il momento, i riflettori su questa questione spostandoli verso altri orizzonti, altre idee di città o di sviluppo del territorio come il recupero delle aree interne attraverso la costruzione di strutture di piccoli borghi con corridoi ecologici che consentano agli animali selvatici di convivere con gli uomini.
Tutto molto bello, molto poetico, forse anche molto consolatorio… ma la realtà, almeno al momento, è che la maggior parte di noi continuerà a vivere nelle nostre città e nelle nostre periferie. Prima della pandemia il gruppo di ricerca coordinato dalla Prof. Laura Lieto, dell’Università di Napoli Federico II, aveva cominciato a lavorare nell’ambito del Progetto Europeo Hera, dal titolo PUSH, Public Space in European Social Housing2 sulla periferia Est di Napoli e, in particolare sul Lotto O3, un sistema di edifici a pettine e in linea realizzati nell’ambito del PSER, Programma Straordinario di Edilizia Residenziale, sul finire degli anni Ottanta. In particolare, il progetto di ricerca aveva come scopo l’indagine sui luoghi della publicness all’interno del quartiere. A valle della pandemia la domanda che echeggiava nella nostra testa era: ha ancora senso parlare di publicness in epoca post Covid-19 e, soprattutto, cos’è la publicness ora?
Erede dell’idea dell’abitare “moderno”, fondata sul concetto di standard come garante di qualità (Le Corbusier 1924) rapidamente trasformatosi poi in principio di quantità, il Lotto O presenta alcune caratteristiche che lo rendono interessante nell’ottica del progetto della città post Covid-19. Innanzitutto, la posizione geografica, alla periferia est di Napoli, alle falde del Vesuvio in un’area a carattere ancora fortemente agricolo. Poi il disegno di impianto, caratterizzato da rapporti tra edifici e gli spazi aperti impostati su criteri dimensionali corretti e, infine, una struttura distributiva in linea che consente, a differenza della tipologia a ballatoio, un accesso controllato ai corpi scala particolarmente importante durante la pandemia.
Alla luce di quanto detto in linea puramente teorica potrebbe sembrare che, dal punto di vista dell’architettura, la periferia si presta meglio alla gestione dell’emergenza rispetto alla città storica. Le riflessioni che seguono sono ancora puramente speculative, dal momento che, probabilmente, è ancora prematuro avanzare delle conclusioni su ciò che è accaduto. Tuttavia, dai primi sopralluoghi effettuati e dalle notizie raccolte durante l’emergenza attraverso i social, la città storica sembrerebbe essersi dimostrata molto più “resiliente” di quella moderna perché, negli stretti vicoli resi deserti dalla pandemia, si sono attivate pratiche di sostegno sociale ed economico alle fasce più deboli della popolazione. In altre parole, la realtà ci ha mostrato che quello che veramente ha retto durante il lockdown sono state le reti sociali, quelle dell’unità di vicinato e delle comunità che sembrano essere molto più tipiche del “vicolo” che del quartiere moderno. Questa risposta, che si manifesta in tempi di emergenza, si costruisce in “tempi di pace”, attraverso la creazione di una publicness fatta di “luoghi comuni” nei quali le comunità possano incontrarsi e riconoscersi. Nel Lotto O, come in gran parte delle periferie del mondo, è difficile ritrovare i luoghi della publicness mentre sono ben visibili i luoghi dello spazio pubblico, spesso coincidente con grandi attrezzature, quasi sempre non realizzate. I due concetti non sono tra loro sovrapponibili; volendo andare per grandi approssimazioni, e facendo riferimento al concetto di Commons di Elinor Ostrom, è possibile sostenere che, mentre l’idea di spazio pubblico è legata al concetto di proprietà dello Stato, quella di publicness è un concetto più legato alla “adozione” e alla gestione dello spazio da parte di un gruppo di persone tenute insieme da legami di conoscenza e leggi non scritte. In architettura il concetto non è nuovo e ricorda quello di “utopie realizzabili” teorizzato da Yona Friedman, secondo il quale la società è un’utopia realizzata da un gruppo di individui che quotidianamente manifesta con il proprio comportamento l’adesione a un progetto comune (Friedman 1947). Perché ciò sia possibile, è necessario un livello di comunicazione tra le persone tale da rendere quel progetto condiviso. Con una certa capacità pre-visionaria, ben prima del CIAM di Otterlo, Friedman ipotizzava il fallimento di modelli di sviluppo “globali” perché basati su una comunicazione che non si costruisce all’interno di una comunità ma si muove ad un livello superiore ed è, quindi, in qualche modo imposta e gestita da gruppi e autorità esterne alla comunità stessa.
Dal punto di vista dell’architettura lo spazio pubblico può essere progettato, la publicness no. Si possono solo creare alcune condizioni spaziali perché essa si determini. Innanzitutto, la definizione di spazi a dimensione umana, spesso in antitesi con quelli previsti dagli “standard”, dove le persone possano riconoscersi e costruire una struttura di relazioni. I luoghi della publicness necessitano di poter essere colonizzati dai diversi tipi di utenti e di un certo livello di indeterminatezza programmatica (Mau e Koolhaas 1995), che sia in grado di porli come “opere aperte” (Eco 1962) rispetto alle possibilità d’uso. Molti dei principali contributi teorici in questo senso sono da ricercare negli anni Cinquanta e Sessanta. Si pensi all’appropriazione dello spazio di Alison e Peter Smithson che trova la sua sperimentazione con le “strade in aria” e la concatenazione di spazi a diversi livelli di condivisione nel progetto per il Golden Lane Estate Building (Smithson 2001). O, ancora, al lavoro di Aldo Van Eyck sugli spazi “in-between”, per la loro capacità di porsi come luoghi neutri e facilmente colonizzabili (Venturi 1966; De Silva 2018), e al grande contributo dato dalla teoria di John Habraken nell’evidenziare l’inappropriatezza del sistema di “Mass Housing” rispetto alle necessità pratiche e creative dell’uomo di costruirsi il proprio ambiente (Habraken 1961).
Ma come si concilia tutto questo con le restrizioni e il distanziamento sociale imposto dalla pandemia? Una possibile risposta è nella definizione di “luoghi elastici” pensati per favorire la costruzione di reti sociali ma anche capaci di reagire in caso di emergenza diventando spazi attrezzati per indirizzare e gestire i flussi e per consentirne un uso compatibile con i protocolli di sicurezza. Il disegno di questi spazi attiene dunque a un progetto che possiamo definire “intermedio”, non solo perché attraversa tutte le scale, da quella urbana a quella del design, ma soprattutto perché lavora provando a tenere insieme un doppio approccio. Da un lato è un processo aperto che lavora a partire dall’osservazione attenta dei luoghi finalizzata all’individuazione di tutti quegli spazi “sospesi” tra pubblico e privato, disponibili ad accogliere usi flessibili e imprevisti e a lasciarsi colonizzare da diverse tipologie di utente; dall’altro necessita di un approccio più scientifico capace di tradurre i protocolli di sicurezza in strutture spaziali. Un possibile approccio al problema dovrebbe ripartire dall’individuazione di alcune categorie di spazi capaci di produrre publicness, per le loro caratteristiche di luoghi neutri e intermedi, e da un loro ridisegno critico capace di astrarre criteri e parametri che includano, da un lato, dati immateriali in grado di qualificare lo spazio e, dall’altro, dati quantitativi che concilino i protocolli di distanziamento con le dimensioni minime necessarie a favorire un certo grado di indeterminatezza d’uso. Questa fase di ridisegno potrebbe essere effettuata sfruttando strumenti come i software di progettazione parametrica al fine di ottenere un repertorio di possibili strategie che, invece di essere cristallizzate in forme predeterminate, sono trasferibili attraverso parametri e criteri in grado di proporre un repertorio di possibili configurazioni spaziali. Una ricerca che riparte, nei contenuti, dai contributi e dall’approccio “post-moderno” del Team 10 e che riprende, nella metodologia, la sistematicità che ha caratterizzato il Movimento Moderno. Sicuramente utile, in questo senso, risulta il lavoro svolto da Chermayeff e Alexander in cui la relazione tra spazio pubblico e spazio privato è indagata attraverso un approccio sistematico il cui risultato si traduce in criteri e diagrammi che si pongono in contrapposizione alla predisposizione di forme, tipologie e stereotipi (Chermayeff e Alexander 1963).
È ancora presto per capire se e quanto il rischio pandemico impatterà sul nostro modello di vita e sui nostri paradigmi urbani, tuttavia per l’architettura questa crisi potrebbe rappresentare l’occasione per superare una volta e per tutte annose dicotomie prima tra tutte quella della contrapposizione tra pensiero moderno e “post-moderno”. Affrontare le sfide della città post Covid-19 mantenendo questo doppio registro significa probabilmente rileggere interamente la propria tradizione disciplinare per ripensare modi, metodi e strumenti (si pensi alla progettazione con algoritmi) del progetto in una logica adattiva che consenta agli spazi di poter essere vissuti come “luoghi” ma anche di essere in grado di reagire alle sollecitazioni esterne e, soprattutto, alle emergenze.


Note
1 Cfr. ECOWEB TOWN n. 19, giugno 2018. Dossier: Progetti urbani per le periferie edited by/a cura di Maria Pone.
2 La ricerca europea Push (Pubblic Space in European Social Housing) è inquadrata nel programma di ricerca HERA “Public Spaces: Culture and Integration in Europe 2019-2022” e condotta da quattro università partner europee: La University of Copenhagen in Danimarca, La Norwegian University of Life Sciences in Norvegia, La ETH di Zurigo in Svizzera e l’Università “Federico II” di Napoli in Italia.
3 Il “Lotto O” si estende per una superficie totale di 143.000 mq, ed è organizzato a sua volta in quattro sub-aree, tre delle quali ospitano un edificio a pettine, mentre la quarta è occupata da cinque edifici a stecca. Il quartiere è pensato per dare alloggio a circa 3800 persone distribuite in 1084 appartamenti in linea, di cinque tagli diversi e con superfici abitabili comprese tra i 45 ai 115 mq. Gli edifici “a pettine” sono organizzati intorno a delle corti a C, attrezzate in maniera alternata a verde e a parcheggio, e le zone giorno degli appartamenti sono orientate, per quanto possibile, verso le corti attrezzate a verde. Lo stesso criterio organizzativo è utilizzato per gli edifici “a stecca”, alternando piazze a strade con parcheggi, e orientando le zone giorno degli alloggi verso le piazze. Il progetto originario, inoltre, prevede una stecca centrale di servizi pubblici.


Bibliografia
BAFFA RIVOLTA M., ROSSARI A. (1981) – Alexander Klein. Lo studio delle piante e la progettazione degli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957. Mazzotta, Milano.
CHERMAYEFF S., ALEXANDER C. (1963) – Community and Privacy, trad. it (1968) Spazio di relazione e spazio privato. Mondadori, Milano.
DE SILVA F. (2018) – Dall’alloggio alla città. Comporre gerarchie dello spazio aperto per il progetto di rigenerazione dei quartieri residenziali pubblici. Clean Edizioni, Napoli.
ECO U. (1962) – Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle politiche contemporanee. X ed., Bompiani, Milano.
ECOWEB TOWN n. 19, giugno 2018.
FRIEDMAN Y. (1947) – Utopies réalisables, trad. it (2016) Utopie realizzabili. Quodlibet, Macerata.
GROPIUS W. (1930) – Die soziologischen Grundlagender Minimalwohnung. Bourgeois V. et al. (a cura di). Die Wohnungfürdas Existenzminimum. Englert&Schlosser Frankfurt AmMain, Frankfurt
HABRAKEN N.J. (1961) – De dragers en de mensen. Het einde van de massawoningbou, trad. it (1973) Strutture per una residenza alternativa. Mondadori, Milano.
Klein A. (1930), “Gross-Siedlungfür 1000 Wohnungen in BadDürrenberg bei Leipzig” «Die Baugilde» Berlino, n.16 Trad.it (1981) “Gross-Siedlung per 1000 abitazioni a Bad Dürrenberg presso Lipsia”, in Baffa Rivolta M., Rossari A. (1981) Alexander Klein. Lo studio delle piante e la progettazione degli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, Mazzotta, Milano, pp. 129-139.
INGHILLERI P. (2014) – “Verso un’architettura dei beni comuni” in «Lotus International» 153, Commons.   
LE CORBUSIER (1924) – Construire en série in «Bytowa-Kultura» ora in Tamborrino R. (2003), Le Corbusier. Scritti. Einaudi, Torino.
MAU B., KOOLHAAS R. (1995) – S,M,L,XL. Monacelli Press, New York.
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SMITHSON A., SMITHSON P. (2001) – “Golden Lane”. In: The charged void. Architecture. Monacelli Press, New York.
VENTURI R. (1966) – Complexity and contradiction in architecture, trad. it (1980) Complessità e contraddizioni nell’architettura. Edizioni Dedalo, Bari.

Sul Lotto O
AA,VV (1982) – "La ricostruzione a Napoli. Urbanistica Informazioni, Quaderni 1/82.
LUCCI R., RUSSO M. (a cura di) (2012) – Napoli verso oriente. Clean Edizioni, Napoli.
MONACO A. (1989) – La nuova Ponticelli e la città orientale: dai programmi alle realizzazioni. Report per il Programma Straordinario di Edilizia Residenziale a Napoli.
DAL PIAZ A. (1986) – “Ponticelli: la storia di un quartiere pubblico”. Urbanistica, n.83, pp. 110-119.

Sitografia
www.pushousing.eu (luglio 2020)