Fig.
2 - Napoli, Ponticelli, Lotto O. Foto di Grazia Pota
Fig.
3 - Napoli, Centro storico, Il “panaro solidale”
durante la Quarantena.
«Noi
abbiamo bisogno di abitazioni a buon mercato e igieniche, che rendano
possibile agli abitanti il risparmio di forze fisiche e psicologiche.
Tali abitazioni non implicano soltanto una salute migliore della
popolazione ma anche un vantaggio per il patrimonio nazionale
perché risulterebbero ridotte le spese per ospedali,
sanatori, etc.».
Alexander Klein (1930).
La città moderna fonda le proprie radici sul rapporto
architettura e salute pubblica. Gli studi sull’alloggio
minimo in grado di assicurare un “modus vivendi”
minimo anziché un “modus non moriendi”
(Gropius 1930), investono rapidamente la dimensione non solo
dell’edificio ma dello spazio pubblico e del quartiere e,
dunque, dell’espansione della città moderna. Non
è questa la sede per ripercorrere una storia a tutti ben
nota, attuatasi prima attraverso i CIAM e poi con le sperimentazioni
pre e post-belliche, passando per le grandi Utopie degli anni Sessanta
e Settanta e tristemente conclusasi con la banalità di molte
delle nostre periferie; tuttavia, l’emergenza Covid-19, che
ci ha messo di fronte alle vere ragioni dell’urbanistica
moderna, inquadra il tema di queste aree “ai
margini” della città in una nuova prospettiva.
Prima della pandemia la questione delle periferie rappresentava uno dei
temi caldi della ricerca architettonica italiana. Il piano delle
Periferie, fortemente voluto da Renzo Piano, nonostante il
congelamento
dei fondi attuato nel 2019 dall’emendamento 13.2 al ddl n.
717, aveva dato avvio ad alcuni processi di rigenerazione urbana nelle
aree periferiche di diverse città italiane talvolta basati
su studi condotti all’interno delle università1.
La pandemia ha forse spento, almeno per il momento, i riflettori su
questa questione spostandoli verso altri orizzonti, altre idee di
città o di sviluppo del territorio come il recupero delle
aree interne attraverso la costruzione di strutture di piccoli borghi
con corridoi ecologici che consentano agli animali selvatici di
convivere con gli uomini.
Tutto molto bello, molto poetico, forse anche molto
consolatorio… ma la realtà, almeno al momento,
è che la maggior parte di noi continuerà a vivere
nelle nostre città e nelle nostre periferie. Prima della
pandemia il gruppo di ricerca coordinato dalla Prof. Laura Lieto,
dell’Università di Napoli Federico II, aveva
cominciato a lavorare nell’ambito del Progetto Europeo Hera,
dal titolo PUSH, Public
Space in European Social Housing2 sulla
periferia Est di Napoli e, in particolare sul Lotto O3, un sistema di
edifici a pettine e in linea realizzati nell’ambito del PSER,
Programma Straordinario
di Edilizia Residenziale, sul finire degli anni
Ottanta. In particolare, il progetto di ricerca aveva come scopo
l’indagine sui luoghi della publicness
all’interno
del quartiere. A valle della pandemia la domanda che echeggiava nella
nostra testa era: ha ancora senso parlare di publicness in epoca
post
Covid-19 e, soprattutto, cos’è la publicness ora?
Erede dell’idea dell’abitare
“moderno”, fondata sul concetto di standard come
garante di qualità (Le Corbusier 1924) rapidamente
trasformatosi poi in principio di quantità, il Lotto O
presenta alcune caratteristiche che lo rendono interessante
nell’ottica del progetto della città post
Covid-19. Innanzitutto, la posizione geografica, alla periferia est di
Napoli, alle falde del Vesuvio in un’area a carattere ancora
fortemente agricolo. Poi il disegno di impianto, caratterizzato da
rapporti tra edifici e gli spazi aperti impostati su criteri
dimensionali corretti e, infine, una struttura distributiva in linea
che consente, a differenza della tipologia a ballatoio, un accesso
controllato ai corpi scala particolarmente importante durante la
pandemia.
Alla luce di quanto detto in linea puramente teorica potrebbe sembrare
che, dal punto di vista dell’architettura, la periferia si
presta meglio alla gestione dell’emergenza rispetto alla
città storica. Le riflessioni che seguono sono ancora
puramente speculative, dal momento che, probabilmente, è
ancora prematuro avanzare delle conclusioni su ciò che
è accaduto. Tuttavia, dai primi sopralluoghi effettuati e
dalle notizie raccolte durante l’emergenza attraverso i
social, la città storica sembrerebbe essersi dimostrata
molto più “resiliente” di quella moderna
perché, negli stretti vicoli resi deserti dalla pandemia, si
sono attivate pratiche di sostegno sociale ed economico alle fasce
più deboli della popolazione. In altre parole, la
realtà ci ha mostrato che quello che veramente ha retto
durante il lockdown
sono state le reti sociali, quelle
dell’unità di vicinato e delle comunità
che sembrano essere molto più tipiche del
“vicolo” che del quartiere moderno. Questa
risposta, che si manifesta in tempi di emergenza, si costruisce in
“tempi di pace”, attraverso la creazione di una
publicness
fatta di “luoghi comuni” nei quali le
comunità possano incontrarsi e riconoscersi. Nel Lotto O,
come in gran parte delle periferie del mondo, è difficile
ritrovare i luoghi della publicness
mentre sono ben visibili i luoghi
dello spazio pubblico, spesso coincidente con grandi attrezzature,
quasi sempre non realizzate. I due concetti non sono tra loro
sovrapponibili; volendo andare per grandi approssimazioni, e facendo
riferimento al concetto di Commons
di Elinor Ostrom, è
possibile sostenere che, mentre l’idea di spazio pubblico
è legata al concetto di proprietà dello Stato,
quella di publicness
è un concetto più legato
alla “adozione” e alla gestione dello spazio da
parte di un gruppo di persone tenute insieme da legami di conoscenza e
leggi non scritte. In architettura il concetto non è nuovo e
ricorda quello di “utopie realizzabili” teorizzato
da Yona Friedman, secondo il quale la società è
un’utopia realizzata da un gruppo di individui che
quotidianamente manifesta con il proprio comportamento
l’adesione a un progetto comune (Friedman 1947).
Perché ciò sia possibile, è necessario
un livello di comunicazione tra le persone tale da rendere quel
progetto condiviso. Con una certa capacità pre-visionaria,
ben prima del CIAM di Otterlo, Friedman ipotizzava il fallimento di
modelli di sviluppo “globali” perché
basati su una comunicazione che non si costruisce all’interno
di una comunità ma si muove ad un livello superiore ed
è, quindi, in qualche modo imposta e gestita da gruppi e
autorità esterne alla comunità stessa.
Dal punto di vista dell’architettura lo spazio pubblico
può essere progettato, la publicness no. Si
possono solo
creare alcune condizioni spaziali perché essa si determini.
Innanzitutto, la definizione di spazi a dimensione umana, spesso in
antitesi con quelli previsti dagli “standard”, dove
le persone possano riconoscersi e costruire una struttura di relazioni.
I luoghi della publicness
necessitano di poter essere colonizzati dai
diversi tipi di utenti e di un certo livello di indeterminatezza
programmatica (Mau e Koolhaas 1995), che sia in grado di porli come
“opere aperte” (Eco 1962) rispetto alle
possibilità d’uso. Molti dei principali contributi
teorici in questo senso sono da ricercare negli anni Cinquanta e
Sessanta. Si pensi all’appropriazione dello spazio di Alison
e Peter Smithson che trova la sua sperimentazione con le
“strade in aria” e la concatenazione di spazi a
diversi livelli di condivisione nel progetto per il Golden Lane Estate
Building (Smithson 2001). O, ancora, al lavoro di Aldo Van
Eyck sugli
spazi “in-between”, per la loro capacità
di porsi come luoghi neutri e facilmente colonizzabili (Venturi 1966;
De Silva 2018), e al grande contributo dato dalla teoria di John
Habraken nell’evidenziare l’inappropriatezza del
sistema di “Mass Housing” rispetto alle
necessità pratiche e creative dell’uomo di
costruirsi il proprio ambiente (Habraken 1961).
Ma come si concilia tutto questo con le restrizioni e il distanziamento
sociale imposto dalla pandemia? Una possibile risposta è
nella definizione di “luoghi elastici” pensati per
favorire la costruzione di reti sociali ma anche capaci di reagire in
caso di emergenza diventando spazi attrezzati per indirizzare e gestire
i flussi e per consentirne un uso compatibile con i protocolli di
sicurezza. Il disegno di questi spazi attiene dunque a un progetto che
possiamo definire “intermedio”, non solo
perché attraversa tutte le scale, da quella urbana a quella
del design, ma soprattutto perché lavora provando a tenere
insieme un doppio approccio. Da un lato è un processo aperto
che lavora a partire dall’osservazione attenta dei luoghi
finalizzata all’individuazione di tutti quegli spazi
“sospesi” tra pubblico e privato, disponibili ad
accogliere usi flessibili e imprevisti e a lasciarsi colonizzare da
diverse tipologie di utente; dall’altro necessita di un
approccio più scientifico capace di tradurre i protocolli di
sicurezza in strutture spaziali. Un possibile approccio al problema
dovrebbe ripartire dall’individuazione di alcune categorie di
spazi capaci di produrre publicness,
per le loro caratteristiche di
luoghi neutri e intermedi, e da un loro ridisegno critico capace di
astrarre criteri e parametri che includano, da un lato, dati
immateriali in grado di qualificare lo spazio e, dall’altro,
dati quantitativi che concilino i protocolli di distanziamento con le
dimensioni minime necessarie a favorire un certo grado di
indeterminatezza d’uso. Questa fase di ridisegno potrebbe
essere effettuata sfruttando strumenti come i software di progettazione
parametrica al fine di ottenere un repertorio di possibili strategie
che, invece di essere cristallizzate in forme predeterminate, sono
trasferibili attraverso parametri e criteri in grado di proporre un
repertorio di possibili configurazioni spaziali. Una ricerca che
riparte, nei contenuti, dai contributi e dall’approccio
“post-moderno” del Team 10 e che riprende, nella
metodologia, la sistematicità che ha caratterizzato il
Movimento Moderno. Sicuramente utile, in questo senso, risulta il
lavoro svolto da Chermayeff e Alexander in cui la relazione tra spazio
pubblico e spazio privato è indagata attraverso un approccio
sistematico il cui risultato si traduce in criteri e diagrammi che si
pongono in contrapposizione alla predisposizione di forme, tipologie e
stereotipi (Chermayeff e Alexander 1963).
È ancora presto per capire se e quanto il rischio pandemico
impatterà sul nostro modello di vita e sui nostri paradigmi
urbani, tuttavia per l’architettura questa crisi potrebbe
rappresentare l’occasione per superare una volta e per tutte
annose dicotomie prima tra tutte quella della contrapposizione tra
pensiero moderno e “post-moderno”. Affrontare le
sfide della città post Covid-19 mantenendo questo doppio
registro significa probabilmente rileggere interamente la propria
tradizione disciplinare per ripensare modi, metodi e strumenti (si
pensi alla progettazione con algoritmi) del progetto in una logica
adattiva che consenta agli spazi di poter essere vissuti come
“luoghi” ma anche di essere in grado di reagire
alle sollecitazioni esterne e, soprattutto, alle emergenze.
Note 1 Cfr. ECOWEB TOWN n. 19, giugno
2018. Dossier: Progetti
urbani per le
periferie edited by/a cura di Maria Pone. 2 La ricerca europea Push (Pubblic Space in European Social
Housing)
è inquadrata nel programma di ricerca HERA “Public
Spaces: Culture and Integration in Europe 2019-2022” e
condotta da quattro università partner europee: La
University of Copenhagen in Danimarca, La Norwegian University of Life
Sciences in Norvegia, La ETH di Zurigo in Svizzera e
l’Università “Federico II” di
Napoli in Italia. 3 Il “Lotto O”
si estende per una superficie totale
di 143.000 mq, ed è organizzato a sua volta in quattro
sub-aree, tre delle quali ospitano un edificio a pettine, mentre la
quarta è occupata da cinque edifici a stecca. Il quartiere
è pensato per dare alloggio a circa 3800 persone distribuite
in 1084 appartamenti in linea, di cinque tagli diversi e con superfici
abitabili comprese tra i 45 ai 115 mq. Gli edifici “a
pettine” sono organizzati intorno a delle corti a C,
attrezzate in maniera alternata a verde e a parcheggio, e le zone
giorno degli appartamenti sono orientate, per quanto possibile, verso
le corti attrezzate a verde. Lo stesso criterio organizzativo
è utilizzato per gli edifici “a stecca”,
alternando piazze a strade con parcheggi, e orientando le zone giorno
degli alloggi verso le piazze. Il progetto originario, inoltre, prevede
una stecca centrale di servizi pubblici.
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