Abitare produrre riprodurre. Progetti politici per la residenza

Edoardo Marchese, Noemi Ciarniello 




Per lavoro produttivo si intende qui il lavoro salariato, a cui si affianca il lavoro riproduttivo o di riproduzione sociale, tutto quel lavoro, tradizionalmente femminile, che serve alla riproduzione dell’individuo e della società (Marx 1867). L’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro in seguito all’abbassamento del salario medio e il contemporaneo ridimensionamento del welfare, hanno ridisegnato la relazione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, privatizzando ulteriormente quest’ultimo in senso simbolico e materiale rendendo inoltre il lavoro produttivo delle donne precario e svalutato (Fraser 1996). Questo non solo influenza il mercato verso il basso, ma rende necessarie nuove condizioni di flessibilità lavorativa che permettano la presa in carico del lavoro domestico e riproduttivo. La flessibilità è spesso auspicata dalle stesse lavoratrici che ne hanno bisogno per conciliare ‘lavoro’ e ‘vita’, e si verifica essere una “risorsa produttiva” (Standing 2011) che consente alle aziende significative agevolazioni di costo. I salari più bassi, i benefit minimi e l’allungamento della giornata di lavoro, in particolare, sono motivati e garantiti dallo sfruttamento dello spazio della residenza.
Se queste tendenze erano già riscontrabili, il lockdown ha comportato una loro estensione alla quasi totalità del mercato occupazionale, sfumando ancor di più i confini tra spazio pubblico e privato, tra produzione e riproduzione (Martella, Enia 2020). La casa, infatti, ha dovuto ospitare attività impreviste, trasformandosi in aula, palestra, e luogo di incontro. La vita virtuale si è verificata dipendere dallo spazio reale, condiviso e conteso in base alle esigenze di ciascuno, che a loro volta dipendono dai ruoli diseguali attribuiti dalla società e dal mercato del lavoro, strettamente legati al genere.
In questo senso il lockdown ha funzionato al contempo come catalizzatore della flessibilizzazione e come lente di ingrandimento sulle problematiche che genera. Tra queste, depressione, ansia e insonnia risultano aver colpito le donne il doppio rispetto agli uomini (Campolongo S. Amore M. 2020). Tra le cause principali di questi fenomeni la mancanza di spazio per sé e l’assenza di aree aperte. Non è stupefacente: le donne svolgono ancora larga fetta del lavoro riproduttivo, e la forzata interruzione del lavoro di cura a pagamento (colf, baby-sitter, badanti, etc.) le ha obbligate ad una individuale conciliazione del lavoro di produzione e riproduzione, nei soli spazi della residenza. Incrociando questi dati con quelli ISTAT (Istat 2020) è possibile ricostruire come durante il lockdown le donne si siano ricavate spazi lavorativi, all’interno dell’abitazione, proprio negli ambienti tradizionalmente deputati alla riproduzione, come la cucina. Questo dimostra che le incombenze riproduttive e quelle produttive si intrecciano nella vita delle donne spingendole ad una ‘flessibilità’, anche spaziale, che è difficile sostenere.
Dopo aver provato che con il lockdown lo spazio dell’abitazione sia diventato per tutti, un terreno ‘misto’, in cui produzione e riproduzione si fondono e che questa commistione può avere effetti pericolosi su alcuni aspetti del vivere, è utile indagare prospettive capaci invece di scardinare quegli stessi elementi di pericolosità. Lavorando parallelamente su un doppio registro scalare, la strategia proposta vuole, attraverso esempi concreti, tratteggiare orizzonti di azione per intervenire rapidamente sullo spazio della residenza nel contesto della città consolidata.

Lo spazio privato nella residenza
Nelle nostre case, soprattutto in città, ogni ambiente corrisponde ad un’attività che deve essere svolta con la massima efficienza, nel minor tempo possibile e con il minimo dispendio di risorse. Questa tendenza poggia in realtà le sue fondamenta su leggi di mercato che hanno compresso oltre misura gli spazi disponibili dell’alloggio. Durante il lockdown si è accentuato il processo di messa in crisi della destinazione specifica degli ambienti. Le attività da svolgere in casa si sono moltiplicate e così la necessità di spazi ulteriori, multifunzionali, capaci di ospitare più della quotidiana, invisibile, riproduzione privata. La necessità stringente di continuare a lavorare ha accelerato un processo acritico di fornitura di spazio specifico – ambienti separati, controllo acustico e luminoso – utile ad una ‘domesticizzazione’ della produzione (Chayka 2020). Questa tendenza modifica la forma dell’alloggio ma non la sua natura. Pensa, cioè, uno spazio con funzioni assegnate e quindi non svincola gli abitanti dai relativi ruoli che ne dipendono, spesso legati al genere. In questo senso vale la pena ricordare le sperimentazioni di riqualificazione di Lacaton & Vassal, sull’edilizia popolare, a Parigi o Bordeaux. Il giardino d’inverno che realizzano è una superficie neutrale, aggiunta, e quasi regalata, una scelta opposta rispetto a quelle logiche di mercato che avrebbero visto favorevolmente la demolizione dell’immobile (Mayoral Moratilla 2018) e che sono abituate a rendere commercializzabili aria spazio e sole, rendendoli fruibili solo a chi può permettersene il prezzo. Quanto queste caratteristiche siano fondamentali è emerso durante il lockdown, quando balconi e terrazzini, per quanto piccoli, hanno acquistato centralità inedita nella vita dei residenti.
La radicalizzazione di disuguaglianze spaziali – ma anche economiche – simili ha avuto, a Zurigo, l’effetto di incentivare una larga sperimentazione di residenze collettive (Bideau 2015). Un esempio significativo è lo Zwicky Sud, progettato da Schneider Studer Primas. La scelta effettuata alla base della riconversione dell’ex-industria in residenze è stata quella di collettivizzare larga parte degli ambienti privati, condividendo grandi spazi all’interno della comunità. Da un lato, questo meccanismo è in grado di ridistribuire superfici, garantendo a ciascuno una qualità di vita altissima a fronte di un costo materiale ed ecologico minimo. Dall’altro modifica virtuosamente le relazioni tra gli abitanti, favorendo lo sviluppo di reti assistenziali, e decentrando, perfino durante una pandemia, il carico di lavoro riproduttivo su una più ampia collettività, a vantaggio delle fasce di popolazione che soffrono maggiormente della sua privatizzazione.

Lo spazio pubblico tra le residenze
Il lockdown ha mostrato come alcune configurazioni spaziali a scala urbana abbiano contribuito a dinamiche relazionali di sussidio e mutualizzazione. Si pensi ai cortili condominiali, spazi esterni comuni dove è stato possibile incontrarsi e giocare, o alle piazze della città, in grado di ospitare cinema all’aperto, alimentando la vita relazionale anche durante il distanziamento sociale. È quindi importante espandere ulteriormente la scala del ragionamento sulla residenza attraverso l’introduzione del concetto di porosità, mutuato da Richard Sennett (Sennett 2018 p.304). La definizione si avvale, nella relazione tra spazio pubblico e privato, della distinzione tra confine e membrana. La membrana ha caratteristiche di porosità selettiva, capace di mediare le quantità e la tipologia degli scambi che avvengono tra le due sfere della vita urbana. È interessante che Sennett ponga l’accento sulle caratteristiche di astrattezza e generalità della membrana, partendo dal concetto e condensandolo successivamente in esiti spaziali. La porosità, così, è una qualità riscontrabile in esempi storici e orizzontali – la Roma rappresentata nella pianta del Nolli – come in edifici contemporanei e verticali – il grattacielo del New York Times di Renzo Piano –. Un caso particolarmente interessante di porosità e collettivizzazione dei servizi della residenza è il Waldorf Astoria. L’edificio, operativo nel primo trentennio del XX secolo a New York, ospitava contemporaneamente servizi pubblici per la cittadinanza – hotel, teatro, terrazze panoramiche – e abitazioni private dando vita ad un articolato sistema di relazioni sia interne che urbane (Puigjaner 2014). Le singole residenze, integrate nel sistema di collettivizzazione dei servizi, potevano persino fare a meno della cucina privata beneficiando di una preparazione comune dei pasti. L’edificio fino alla sua demolizione ebbe grande successo.
La ricerca della porosità, nell’ottica pratica della città consolidata, suggerisce un riadattamento selettivo degli spazi volta per volta disponibili – infrastrutture, edifici pubblici, spazi interposti tra privato e città – teso ad opporsi “alle divisioni che il capitalismo ha creato” sulla base, ad esempio, del genere, “ricomponendo le nostre vite e ricostituendo un interesse collettivo” (Federici 2018 in Castelli 2019 pp.148-149) frammentato, tra le altre ragioni, dalla separazione tra produzione e riproduzione su cui si fonda il processo di accumulazione originaria (Ivi).

Conclusioni
Il lockdown ha agito da catalizzatore su problematiche già socialmente diffuse. Una di queste è “la contraddizione” (Fraser, 2016) tra riproduzione e produzione e il conflitto che ne deriva nella sua formalizzazione spaziale. Piuttosto che seguire la tendenza che vede nella flessibilità lavorativa e nell’individuale potere di acquisto, la soluzione a questo contrasto, si è scelto di privilegiare esempi progettuali capaci di collettivizzare, socializzare questo conflitto. La lettura dello spazio urbano – e inevitabilmente anche di quello domestico – come luogo di conflitto è infatti «in opposizione alle dinamiche neoliberiste» che sfruttano «retoriche della comunità» producendo «gated communities, gentrificazione, disuguaglianza ed espulsioni» per garantire che il «territorio urbano» resti «luogo di estrazione di margini sempre crescenti di profitto da parte del capitale globale» (Castelli 2019 p.146).
Per questa ragione è importante analizzare la sfera privata residenziale e quella pubblica urbana mettendone in discussione i margini. La potenzialità è quella di iniziare a «generare parentele» e «con-fare, con-divenire, con-creare» (Haraway 2019) sia all’interno della residenza, contribuendo al miglioramento delle condizioni intrinseche all’abitare, sia tra le residenze, attraverso la tessitura di una fitta trama di relazioni alimentate dalla città e dai suoi bordi. Entrambe le operazioni possono contribuire ad allentare il giogo della responsabilità di produrre e riprodurre, non attraverso la ricerca di flessibili equilibri individuali, ma concorrendo alla ricostituzione di un senso di comunità basato sulla solidarietà, di cui il Covid-19 ha evidenziato necessità e desiderio.


Bibliografia
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