Fig.
2 - Giambattista Nolli, Nuova Pianta di Roma, 1748, (particolare)
Fig.
3 - Le Corbusier, Urbanisme, Rio de Janeiro, Brasil, 1929 (Plan FLC
32091)
Interrogarsi
su come è cambiato il modo di abitare lo spazio, sia esso
privato che pubblico, è necessario per saper leggere gli
opposti piani su cui si costruisce la città; è
all’interno del rapporto tra pieni e vuoti, intesi questi
ultimi come luogo delle relazioni, che una struttura collettiva prende
coscienza di sé e viene «messa in scena la
simultaneità dei fatti urbani» (Espuelas 2004, p.
13). Infatti, l’aggregazione di individui (sinecismo)
è alla base della nascita di molte città dove il
principio di comunità precedeva e fondava
l’identità degli abitanti1. Nel momento in cui ci
si è trovati a vivere “reclusi”, lo
spazio pubblico si è sottratto e con esso è
venuta meno l’idea stessa di città fondata sulla
vita associata. Il virus ha difatti acuito ed esasperato le
disparità sociali tra protetti e indifesi, accentuando le
contraddizioni già presenti e mettendo in discussione la
stessa “matrice relazionale” tra noi e
l’intorno, che riconosce solo
nell’alterità la condizione essenziale in grado di
determinare il ribaltamento da “soggetto
individuale” a collettivo (Tagliagambe 2008, p. 121).
Mosso da una «pulsione immunitaria, da una volontà
ostinata di restare intatto, integro, indenne» (Di Cesare
2020, p. 23) l’individuo si è così
trovato costretto nel proprio isolamento, privato della
libertà che trae origine unicamente dallo “spazio
infra” (Arendt 1994): la dimensione storico-politica che
assicura la pluralità, l’esistenza di individui
non schiacciati l’uno sull’altro, non privati dei
propri confini individuali ma dove, anzi, lo spazio pubblico riveste un
ruolo rappresentativo che «associa un ideale collettivo a un
ideale individuale» (Tagliagambe 2008, p. 208).
Cosa succede quando questa distanza aumenta a tal punto da diventare
separazione, quando il cittadino antepone la propria protezione alla
partecipazione alla vita pubblica? Ecco che il sentimento
d’immunità prevale, generando una crisi del senso
d’identità, sostituito dalla
singolarità2.
È necessario quindi evitare l’errore di pensare lo
spazio, privato o pubblico, senza pensare la città;
l’architettura è, infatti, arte del costruire
nella misura in cui è anche arte dell’abitare3
inteso quale modo in cui gli uomini agiscono, si relazionano e danno un
senso concreto, cioè non alienato e astratto, al loro stare
in un luogo. Liberata da ogni concezione finalistica degli spazi, la
“capacità di abitare” deve quindi
costituirsi, oggi forse più che in passato, in quanto
qualità immanente dei luoghi proponendo soluzioni che
stabiliscano gradi di “collaborazione” tra edificio
e spazio urbano, recuperando cioè quelle forme di relazione
che la città contemporanea non sembra più capace
di produrre.
La pandemia appare come il risultato di un tempo troppo lungo passato a
sottostimare i problemi legati all’espansione della
città, come se i fenomeni ambientali e sociali ad essa
connessi potessero essere facilmente controllati e gestiti. Lo
“stato di eccezione” ha mostrato la non
volontà di affrontare la crisi con uno sguardo a lungo
termine sebbene, solo maturando una “visione ambientale
preveggente”, sia davvero possibile prendersi cura della
città, fondare un’etica, insieme
dell’individuo e della comunità (Emery 2011, p.
113).
Il rischio è che la città si mostri nuovamente
incapace di disegnare gli spazi urbani e deroghi – per
ragioni economiche – alle normative esistenti, piegandosi
all’uso dei privati4.
Se nella sua prima e più acuta fase, la pandemia ha
estremizzato il senso di reclusione, ora il ruolo che lo spazio aperto
ha assunto in quanto luogo del movimento e dell’aggregazione
si presta a considerazioni circa la forma e l’uso di quegli
spazi intermedi irrisolti, zwischenraum tra edificio e strada. In una
simile cornice, il disegno dell’attacco al suolo degli
edifici si pone come struttura conformativa con l’obiettivo
di perseguire una continuità spaziale di relazioni al pari
di quanto accadeva in passato grazie a elementi architettonici quali la
soglia, il portico, il coperto – interpreti del reciproco
senso di appartenenza tra pubblico e privato – espressione di
un modo di pensare il progetto urbano che sembra essere stato quasi del
tutto rimosso nella città contemporanea.
La città della globalizzazione che distrugge i propri limiti
e fagocita il paesaggio circostante estendendo la propria ombra sulla
campagna, edifica al contempo molteplici confini al suo interno che
definiscono una successione di “dentro” e di
“fuori” senza essere però in grado di
dare forma a questi luoghi. Koolhaas denomina Intermedi-stan
– “terra intermedia” – il
confine che da cesura diventa soglia e riconquista il senso etimologico
di limes
come condizione essenziale dello spazio urbano: la
città è tale proprio perché ha un
inizio nel tempo e un limite nello spazio5. La Nuova Pianta del Nolli,
poi presa a “pretesto” per quel laboratorio che fu
Roma Interrotta,
è emblematica perché mostra un
rapporto dialettico tra pieni e vuoti, in cui lo spazio risulta
realmente plasmato in un sistema integrato nel quale la densificazione
è il risultato di un disegno della città
attraverso le architetture. Se è vero che la distruzione, la
trasformazione, è connaturata all’architettura,
è importante che essa porti a una conseguente
“produzione” non solo/non più di
capitale economico secondo le regole della speculazione ma di
“capitale civico” (Settis 2014, pp. 57-58). Ad oggi
invece sembra che le riflessioni e le soluzioni proposte sotto il segno
del pericolo e dell’urgenza siano indirizzate da ragioni
economiche più che ecologiche.
Per converso, il fenomeno pandemico ha reso ancor più
evidente la necessità di una riflessione, troppo spesso
disattesa, su quelle architetture che, data la loro stessa funzione,
costruiscono degli spazi “inabitabili”
perché progettati con il chiaro scopo di limitare/negare il
significato di abitazione. Luoghi che in tempo di pandemia,
più di altri, interrogano l’architettura sul suo
senso e, in particolare, sul rigore con cui l’architettura
stessa si assume l’onere di “costruire”
prima di “abitare”, consapevole che solo
rovesciando l’abituale consequenzialità si renda
pensabile la convivenza e, forse, la sopravvivenza: per progettare
è necessario sapere abitare, anzi bisogna imparare ad
abitare. Come progettare situazioni in cui la con-vivenza è
forzata, dove essere reclusi è la regola e non
l’eccezione? «che cosa è
un’architettura che si fonda
sull’impossibilità
dell’abitazione» (Agamben 2018)?
Un’architettura che non riconosce più
nell’abitare il suo principio e la sua regola risulta ostile
ai soggetti di cui nega i bisogni, si tramuta in “dimora
estranea”, portando alla trasfigurazione
dell’heimlich
in unheimlich6.
Un sentimento del
“perturbante” che ha mostrato quanto
“abitabile”/“inabitabile” siano
in realtà contigui, vicini, separati da un confine labile.
L’“inabitabile”, il negativo
dell’architettura, costruito prima di/senza essere abitato
cioè pensato, fino a quel momento rimosso
dall’architettura, è riemerso con
l’esperienza pandemica (Vidler 1992). Non più
scissione ma conflitto con l’abitabile, che può
arricchire il pensiero architettonico e generare una tensione creativa
altrimenti inattingibile. Luoghi per i quali è necessario
ristabilire una ricomposizione delle relazioni urbane
affinché non si pongano più come un corpo
separato nel tessuto della città. Nel progetto di Michelucci
per il Giardino degli
Incontri all’interno del Carcere di
Sollicciano, è possibile riconoscere la volontà
di affrontare il tema dell’inabitabilità
costruendo uno spazio che sembra annullare la separazione tra interno
ed esterno, che si evocano così reciprocamente
nell’uso dei materiali e nelle scelte figurative; nel quale
la chiarezza strutturale non è semplicemente esibita ma
è al servizio dell’invenzione di una
spazialità nuova che determina, con la propria irruzione,
una crisi semantica non priva di complessità rispetto
all’idea stessa di carcere.
Se la risposta all’emergenza Covid-19 è stata
affrontata assumendo una strategia comune, il lockdown, pensare
la
città post Covid-19 deve invece rappresentare un esercizio
di specificazione che, partendo dalle differenze insite in ciascuna
città, dalla conoscenza della sua storia, del suo passato,
sia in grado di produrre uno sguardo sul futuro: una banalizzazione
della risposta non farebbe che consegnare la città agli
stessi problemi nei quali l’estetizzazione
dell’architettura l’ha fino a oggi condannata. Le
riflessioni di Vittorio Gregotti
sull’autoreferenzialità della bigness sono utili
per distinguere l’attuale disaffezione verso il passato che
nutre l’architettura contemporanea, dal rifiuto per il
passato di alcune avanguardie di inizio XX secolo che rappresentava in
chiave dichiaratamente utopica un’idea di progetto come
alternativa.
La visione poietica che animava l’opera di architetti come Le
Corbusier, e che oggi sembra essere stata del tutto sostituita da una
pura emozione estetica, era, infatti, il frutto di una riflessione
densa sui materiali, di uno sguardo profondo alle connessioni
storico-geografiche del luogo nel quale il progetto si inseriva. Quello
che si rivela come non più procrastinabile è
proprio la necessità di recuperare questa
capacità di immaginare la città e non solo
progettarla, ovvero confrontarsi con un tempo dilatato, ampio, che non
pensa al contingente ma riflette sul futuro per essere in grado di
restituire alla città la propria memoria, andare oltre la
Città Generica7 e proporre un radicale ripensamento
dello
spazio urbano. Analizzare, cioè, la frattura concettuale
operata dalla globalizzazione in un’ottica più
aggiornata che, senza l’illusione di produrre una struttura
urbana valida ovunque, faccia tesoro della specifica condizione e abbia
come prospettiva la città intesa quale artefatto complesso,
ricco, differenziato8;
un processo che muove
dall’interpretazione costante della città che
precede il progetto e la trasformazione che lo stesso veicola.
Note 1 «[...] gli statuti
medievali dell’Aquila
prescrissero agli abitanti di realizzare collettivamente (uti socii)
gli spazi pubblici (piazza, fontana, chiesa) prima di insediarsi
individualmente (uti
singuli) nelle case» (Settis 2014, p.
91). 2 La singolarità, non
sostenuta
dall’alterità, è fragile ed esposta
alla frammentazione a differenza dell’identità che
è sostenuta dal principio di comunità. Viene
così a delinearsi una paradossale “democrazia
immunitaria” che Di Cesare sintetizza nella formula del noli
me tangere: al centro vi deve essere la propria sicurezza –
oggi verso il virus, più in generale verso il diverso
– fondata sulla separazione tra la condizione che
è riservata ai protetti rispetto agli
“altri” esclusi. 3 Etimologicamente il verbo latino habitare,
frequentativo di habēre
ha
il significato di “continuare ad avere”, nel senso
di “avere abitudine” a stare in un determinato
luogo quale risultato dell’azione dell’uomo che
possiede e quindi conserva il luogo che abita, trasformando lo spazio
da naturale ad artificiale. 4 «In alcuni luoghi,
rurali e urbani, la privatizzazione
degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone
di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali
“ecologici” solo a disposizione di pochi, dove si
fa in modo di evitare che entrino a disturbare una
tranquillità artificiale». (Papa Francesco 2015,
pp. 44-45) 5 Le parole che Argan scrive a
prefazione di Roma
Interrotta oggi
più che mai suonano valide per molte città:
«non essendoci più relazione tra storia e natura o
architettura e campagna, Roma ha cominciato a gonfiarsi e deformarsi
come una vescica, non ha più avuto né
architettura né campagna [...]. Non è
più una città, ma un deserto gremito di gente,
disgregato dalla stessa speculazione che l’ha fatto crescere
senza misura» (Argan 1978, p. 12). 6 Il dibattito
sull’“inabitabilità” ha
origini profonde (in senso filosofico e psicologico) e si riconosce
già nelle posizioni di Adorno («abitare, nel senso
vero del termine è oggi impossibile») e di
Heidegger verso la forma della casa “moderna” che
sebbene fosse una risposta alla condizione di insalubrità
appariva come tutta incentrata sul puro funzionalismo della tecnica,
rendendo il suo abitante un ospite separato dal proprio destino. 7 «La Città
generica è la
città liberata dalla schiavitù del centro, dalla
camicia di forza dell’identità. La
Città generica spezza questo circolo vizioso di dipendenza:
è soltanto una riflessione sui bisogni di oggi e sulle
capacità di oggi. È la città senza
storia. È abbastanza grande per tutti. È comoda.
Non richiede manutenzione. Se diventa troppo piccola non fa che
espandersi. Se invecchia non fa che autodistruggersi e rinnovarsi.
È ugualmente interessante e priva d’interesse in
ogni sua parte. È “superficiale” come il
recinto di uno studio cinematografico hollywoodiano, che produce una
nuova identità ogni lunedì mattina»
(Koolhaas 2006, p. 31). 8 «Progetto urbano
significa prendere come punto di partenza
la geografia di una città data, le sue esigenze e i suoi
suggerimenti e introdurre con l’architettura elementi del
linguaggio per dare forma al sito. Progetto urbano significa tenere
presente la complessità del lavoro da compiere
più che la semplificazione razionale della struttura urbana.
Significa inoltre lavorare in modo induttivo, generalizzando
ciò che è particolare, strategico, locale,
generativo» (Solà Morales 1989, p. 8).
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