La città rivendicata. Isole di resilienza nell’arcipelago urbano. “Uso Temporaneo” e trasformazione in condizioni di emergenza

Nicola Marzot




Premessa
L’emergenza pandemica generata dalla diffusione del coronavirus, ben oltre il carattere drammatico delle sue ricadute, ci ha colti impreparati nell’affrontare, più in generale, una crisi di sistema. Per potervisi rapportare, infatti, abbiamo dovuto dichiarare lo “stato di eccezione”1. Invocato ogni qualvolta si manifesti una grave minaccia alle istituzioni dello Stato, a garanzia della tempestività ed efficacia delle misure da intraprendere, esso impone la temporanea sospensione delle regole vigenti di convivenza civile, e il contestuale subentro di un regime “governamentale” (Agamben 2003). Nel recente passato dell’Occidente, ciò era già accaduto alla giovane democrazia americana2, con effetti rapidamente estesi al vecchio Continente, in ragione di una economia sempre più globale e finanziarizzata.
Tra le conseguenze immediate delle decisioni prese, l’aumento progressivo ed esponenziale di spazi inutilizzati, tanto pubblici quanto privati, è stato, oltre ogni dubbio, il fenomeno più macroscopico, quanto evocativo, delle relative implicazioni politiche, economiche, sociali e culturali che, da lì a poco, avrebbero investito l’intero paese. A questo proposito, si può a buon diritto affermare che l’elenco degli edifici “vacanti” e delle aree in attesa di valorizzazione abbia registrato un aumento quantitativo senza precedenti, venendo contestualmente ad ampliare un catalogo qualitativamente assai articolato (Marzot 2013a).
Se tutto ciò ha portato ad intraprendere tempestivi interventi dal carattere eccezionale (soprattutto nel settore sanitario), nell’immediato lo spazio domestico dell’abitare è stato oltremodo caricato di responsabilità che, ontologicamente parlando, non gli competono, accogliendo il lavoro, l’educazione e il tempo libero. Le implicazioni semantiche che il fenomeno dell’abbandono ha creato sono tuttavia rimaste, a dispetto della sua magnitudo, del tutto inesplorate. Attraverso un necessario percorso di verità questo saggio intende portare alla luce le aporie presenti all’interno di una disciplina del governo della trasformazione del territorio, a tutte le scale d’intervento, che ha fortemente inibito la propensione al cambiamento in Italia, condizionando tanto il dibattito disciplinare quanto i modi, i tempi e gli esiti degli interventi attuati.

Sul concetto di Patrimonio, ovvero l’ambiguità del munus
La recente crisi ha disattivato, seppure temporaneamente, ogni distinzione “convenzionale”, ovvero tipica, tra sfera pubblica e privata, su cui si fonda la realtà socialmente costruita (Ferraris 2012), facendole implodere entrambe per decreto, e contestualmente precipitare all’interno di una dimensione domestica imprevedibilmente totalizzante e indeterminata. La casa, suo malgrado, è diventata ipertrofica, senza che a tale imposizione corrispondesse, nella maggioranza dei casi, un’adeguata predisposizione degli spazi e, soprattutto, una capacità ad accogliere l’inatteso, se non in condizioni del tutto emergenziali3. L’improvvisa indistinguibilità dei concetti richiamati ha indirettamente rivelato il portato retorico della discussione disciplinare sul “patrimonio”, tanto materiale quanto immateriale, con rare, e per questo meritorie, eccezioni.
A questo proposito, è opportuno ricordare come la radice del composto pater, evocante il principio di autorità, sia associata alla desinenza munus, alla cui disamina, in anni recenti, la riflessione filosofia ha dedicato saggi d’importanza capitale (Agamben 2001; Nancy 2002; Esposito 2006). L’ambigua oscillazione del suo significato risulta comprensibile solo nella prospettiva di un continuo ribaltamento prospettico d’uso e di ruolo, di cui è responsabile la crisi. Dalle sue alterne vicende dipende, infatti, lo slittamento semantico del termine da ciò che, ab origine, identifica l’“obbligo”, o il “compito” imposto dalle regole di convivenza civile, che ogni generazione ha il diritto e dovere di imporre a se stessa e ai suoi contemporanei, a ciò che, ad limina, si traduce compiutamente in “dono” alle generazioni che verranno, nell’auspicio che se ne facciano degne eredi, moltiplicandone il valore (Marzot 2019; Rispoli 2019).

L’urbanistica come katéchon, ovvero il potere che frena
Eppure, il munus-dono offerto in sacrificio alla posterità dalla crisi non è, nella realtà effettuale inaugurata dalla Modernità, immediatamente disponibile, come ben apprende chi vi aspiri. Parafrasando un magistrale saggio di Massimo Cacciari (2013), ciò che ne trattiene inopinatamente il potenziale (di rigenerazione), ritardando il dispiegarsi dei relativi effetti benefici, è infatti un sistema di regole, invisibile quanto capillarmente pervasivo, la cui funzione dichiaratamente catecontica inibisce la trasformazione possibile dello status quo (Marzot, 2016). In tal senso, il cosiddetto “regime transitorio” sta al Piano come lo “stato di eccezione” alle istituzioni dello Stato, garantendone la conservazione a oltranza. In tal modo, non solo viene meno la possibilità di rivendicare responsabilmente tale patrimonio, quanto soprattutto quella di appropriarsene attraverso un necessario processo di risignificazione. In ultimo, la disciplina urbanistica si riserva il compito di frenare il kairos, o tempo opportuno, senza il quale l’attesa del rinnovamento è destinata a rimanere lettera morta.

Della durata, ovvero l’impossibilità dell’abbandono in Italia
Il paradosso conseguente è che, soprattutto nel nostro paese, al di fuori di uno “stato di eccezione” (Agamben 2003), nulla sembra poter (di)venire propriamente abbandonato. Siamo ostaggio di uno status quo in cui la liberazione delle energie creative trattenute in ogni costrutto sociale-storico, attraverso l’uso e il lavoro ivi incorporati, pare addirittura impensabile, come semplice categoria ontologica, rendendo quasi impraticabile il cambiamento, nelle sue molteplici quanto imprevedibili declinazioni (Marzot 2018). Ciò induce, soprattutto, spirito di rassegnazione nelle ultime generazioni, le quali vedono frustrato ogni legittimo tentativo di rivendicare un senso di appartenenza, aggiornato alle istanze autonomiste emergenti, attraverso la trasformazione responsabile di uno spazio che, per quanto privato di strumentalità, e spesso versante in condizioni di evidente degrado, comunque resiste loro.
 
Il ruolo pionieristico delle pratiche di rivendicazione degli spazi espulsi dalla città
A fronte dei fattori ostativi già richiamati, in virtù di molteplici casi esemplari di successo a cui si è data evidenza pubblicistica crescente, nel corso dell’ultimo decennio, le pratiche di rivendicazione di spazi abbandonati e/o sottoutilizzati sono venute progressivamente a costituire un fenomeno inedito per scala e implicazioni metodologiche. Grazie, soprattutto, al ruolo pionieristico svolto dall’associazionismo culturale (Albertazzi 2019), e al contributo fattivo dei progettisti più aperti alle sollecitazioni provenienti dal dibattito internazionale (Marzot 2019a), è sorto un movimento di opinione trasversale che ha supportato la promulgazione della prima Legge Urbanistica Regionale4 che riconosce la “resilienza” quale principio costitutivo di una nuova idea di città, fondata sulla trasformazione responsabile dell’esistente. In particolare, a partire dalle esperienze anticipatrici di Bologna5 e Ravenna sugli “Usi temporanei” (Bonetti, Marzot e Roversi Monaco 2016), l’art.16 del testo introduce il principio di sospensione transitoria della cogenza della disciplina degli usi urbanistici – sulla cui classificazione il Piano fonda la propria funzione deontica– stabilendo una moratoria per tutti gli immobili che, a conclusione del proprio ciclo di vita, vengano resi disponibili ai fini di pratiche rigenerative sperimentali. L’importanza di tale decisione, che non ha precedenti nella storia dell’urbanistica italiana, non riguarda unicamente la volontà di riabilitare il ruolo proattivo della soggettività nella costruzione dello spazio urbano, come per lo più evidenziato dalla politica contemporanea (particolarmente sensibile a riabilitare la propria immagine pubblica a fronte della crisi evidente di ogni forma di rappresentatività), quanto, soprattutto, nel riconoscimento implicito dell’architettura come strumento esplorativo, alla ricerca di risposte innovative ai temi posti dal tempo presente.

Ibridazione e processi rigenerativi
Ne consegue che la rigenerazione del patrimonio edilizio dismesso, materiale e immateriale, investa tanto la dimensione umana quanto quella urbana all’interno di un rapporto di mutua reciprocità, per effetto del quale l’una non si possa dare se non attraverso l’altra, e viceversa. Il primato de facto di una visione fenomenologico-esistenziale del “fare”, posta pertanto ex lege a fondamento del necessario rinnovamento del “saper fare”, esige un metodo euristico, da rinvenirsi e reinventarsi tentativamente, per prove ed errori, attraverso la pratica dell’architettura (Marzot 2017). Ma tutto ciò implica il riconoscimento del carattere ibrido di quest’ultima, presupponente lo sconfinamento e la contaminazione programmatica (tra natura e artificio, soggetto e oggetto, strumenti ed esiti, ricerca e teoria) quale propria condizione ontologica. In tal modo viene alfine smascherato il pregiudizio della classicità apollinea, uscita vincitrice dall’agone degli anni ’60 e ’70, nei confronti del suo alter ego dionisiaco (ed erotico) (Marzot 2013b). Il pensiero razionale, infatti, non contempla la confusione dei codici, e tantomeno l’ambiguità del senso, rinnegando “tragicamente” la sua archetipica origine spuria e paradossale prima ragion d’essere.

La ricostruzione del senso di Comunità
Le pratiche sperimentali in corso dimostrano che un rinnovato senso del cum-munus, ovvero della condivisione di ciò a cui asservirsi su base volontaristica (De La Boétie 2013), non possa emergere dalla stanca retorica delle pratiche discorsive, in cui si riconosce la noesi della partecipazione, così come non possa derivare da precostituite prassi consolidate, che già presumono ciò che la comunità deve congiuntamente trovare, per potersi autonomamente definire. Al contrario, essa esige il coinvolgimento diretto e responsabile di tutti coloro che, a vario titolo e in ordine alla effettiva disponibilità e diversa capacità manifestate, aspirino a sentirsi attori engaged negli stessi processi rigenerativi. Soprattutto, ciò implica che la risignificazione del patrimonio edilizio reso vacante dalla relativa dismissione, d’uso e di ruolo, e disponibile a nuove avventure dello spirito, risulti fattore condizionante la possibilità stessa di innovare i comportamenti, i quali, simmetricamente, ne orientano i relativi risultati. “La comunità che viene”, parafrasando Agamben (2001), è infatti l’esito mutevole di reciproche implicazioni tra “soggettività”, che rivendicano il diritto naturale ad essere protagoniste del cambiamento, e “oggettività” spazializzate, alla ricerca di un possibile ordine nuovo. In tale prospettiva, il progetto ha il compito prioritario di comporre una pluralità di interessi particolati all’interno di una visione generale che, traguardandoli, li possa superare, integrandoli reciprocamente in virtù di un interesse superiore perseguito.

Da “la città nella città” all’arcipelago di isole resilienti
Gli anni ’80 sono animati dalla pervasività di una trasgressione collettiva, intesa come catartico ludus, attraverso il quale le violente contrapposizioni di classe, e gli antagonismi tra rivendicazioni autonomiste e resistente istituzionali, proprie del recente passato, precipitano inesorabilmente in un estetizzante altrove (Menna 1983). Nelle sue profondità abissali, il punto di vista dello “strutturalismo”, fino ad allora dominante in ogni campo del sapere, si dissolve gioiosamente nella caleidoscopica varietà delle poetiche. Della conseguente frammentazione dei corpora disciplinari, “la città nella città” diventa il manifesto retroattivo unificante, in cui Ungers e i suoi migliori allievi immaginano l’abbandono coatto di intere parti di città, per effetto di una crisi, tanto improvvisa quanto inarrestabile, che implica l’emorragia del suo capitale umano, presagio di più imminenti e biblici crolli, di cui Berlino è il caso studio prescelto e il predestinato emblema (Hertweck e Marot 2013). La progressiva dissoluzione della forma urbana in uno stato di avanzata rovina, dall’esplicito sapore neo-romantico, lascia progressivamente spazio ad un inedito paesaggio rinaturalizzato, che la narrazione si limita ad evocare come sterminato campo di indeterminazione, destinato all’attraversamento dei nuovi flussi intermodali e dei corrispondenti stili di vita nomatico-evenemenziali. Dalla sua incommensurabile estensione emergono distintamente frammenti di urbanità, reciprocamente estraniati dalla perdita dei riferimenti contestuali, ulteriormente privati di significato e riconoscibilità collettiva dal sopravvenire delle demolizioni. Si rinnova, in tal modo, la profezia della città moderna preconizzata dall’Abate Laugier nell’Essai sur l’architecture (1753), il cui Esprit rivoluzionario si fa sorprendente interprete di un disurbanismo ante litteram attraverso il “tumulto dell’insieme”.
Là dove questo modello, portato dal suo interprete più zelante, Rem Koolhaas, alla ipertrofica scalabilità della Bigness (Koolhaas 1995), pare incontrovertibilmente tramontare a seguito di una crisi finanziaria senza precedenti nel mondo occidentale, di cui la pandemia è l’imprevisto epilogo, si può timidamente intravvedere l’alba di un nuovo orizzonte urbano.
Qui, tuttavia, il meccanismo compositivo adottato nel progetto teorico di Ungers e collaboratori, colta rivisitazione dell’archetipo della tabula rasa, subisce una radicale inversione di polarità. All’emersione di frammenti urbani (intesi quali pieni/positivi) dalla “liquidità” delle relazioni contestuali, che contraddistingue il Manifesto evocato, subentra la combustione puntuale della struttura del Piano generata dalla “rimozione” di aree dismesse ed edifici abbandonati (letti come vuoti/negativi). I suoli rinaturalizzatti, intenzionalmente sottratti al sistema delle regole che la “città conforme” incarna, diventano isole di resilienza alla deriva nel nuovo arcipelago urbano. Restituite alla sperimentazione senza limiti del progetto di architettura, sono testimonianza inoperosa di una “città rivendicata” attraverso mirate azioni di desistenza, che si oppongono, standovi dentro, alla cogenza del Piano, de facto destituito di ogni valore.
Non si tratta, tuttavia, di “riserve indiane”, in cui gestire il conflitto sociale, in nome della retorica del pluralismo post-modern, attraverso la varietà dell’offerta culturale. Al contrario, si parla di innovativi Living Lab nei quali esplorare nuove forme di urbanità, potenzialmente in grado di fertilizzare la città esistente, destabilizzandone i limiti interni. Oasi di resilienza nel deserto urbano contemporaneo, isterilito dalla permanenza di regole impermeabili alla richiesta di cambiamento non programmato; ambiti di trasformazione resi ideali dalla preventiva liberazione da ogni forma di condizionamento sociale-storico, offerti all’esplorazione di nuove forme di vita, da impiantare ben oltre i limiti, a oggi, consentiti ex-lege.

Verso un nuovo habitus
Se il tipo edilizio è la promessa, e la premessa, della città a venire, la rivendicazione significante dei luoghi abbandonati (che il coronavirus ha moltiplicato, portando a compimento la cultura dell’eccesso globalizzante), ne costituisce il prototipo, necessario alla preventiva costruzione di un consenso sulla eventualità e opportunità della prima. Solo nel remoto esilio da ogni possibile forma convenzionale di civitas e di urbs, in ultima istanza, la discussione sul Progetto dell’Autonomia (Avidar, Geerts, Grafe e Schoonderbeek 2003; Aureli 2016), umana e disciplinare, può ritrovare la pienezza del senso originario, restituendo all’espressione la sua inesauribile carica di radicalità, al di fuori di ogni stanca retorica discorsiva e disciplinare.


Note
1 La dichiarazione è stata prodromica al D.P.C.M. dell’8 Marzo 2020, che ha esteso a tutta l’Italia le misure preventive preliminarmente applicate alle sole “zone rosse”, fonte dei primi focolai virali. La relativa validità è in scadenza, salvo proroghe, al 31 luglio 2020.
2 Ci si riferisce tanto alle restrizioni imposte all’indomani dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, quanto a quelle introdotte, a seguito dello scandalo dei mutui sub-prime, con l’obiettivo di scongiurare il rischio default del Paese. Con riferimento particolare a quest’ultimo, è opportuno ricordare come sia il Presidente uscente Bush, che quello subentrante Obama, abbiano rispettivamente introdotto e confermato aiuti di Stato, per il sostegno del sistema finanziario, pari a 800 miliardi di dollari, contravvenendo al principio costituzionale che esclude l’ingerenza dell’Amministrazione sulle questioni inerenti l’andamento del mercato.
3 Ciò è dipeso, per molti versi, da normative regionali di settore che hanno ricompreso gli ambiti pertinenziali dell’alloggio, quali terrazze, balconi, loggiati, lastrici solati e porticati (assimilati a superfici accessorie), nel dimensionamento complessivo dei comparti di nuova edificazioni, non rendendole remunerative per l’investitore, in quanto urbanisticamente equiparate a quelle utili.
4 Si tratta della Legge n.24 del 2017 della Regione Emilia-Romagna.
5 La rigenerazione dell’ex scalo ferroviario Ravone costituisce, in tal senso, il progetto pilota, su scala nazionale, in cui il Piano Urbanistico Attuativo (PUA) si configura come processo incrementale, di cui l’attivazione temporanea del patrimonio edilizio dismesso esistente viene a definire la strategica fase d’innesco. Quest’ultima, avviata ufficialmente nel maggio 2019 con l’identificazione di un soggetto gestore, costituisce ad oggi l’occasione itinerante per esplorare, in maniera preventiva, soluzioni che il PUA potrà attuare, se ritenute di successo e capaci di costruire consenso sul più generale processo di valorizzazione dell’area. Il carattere prototipico del progetto è già confermato dalla decisione, assunta dall’Amministrazione, di mutuare da quello il sistema delle regole a cui uniformare il ricorso agli “usi temporanei”, così come definiti nel nuovo Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE), in vigore dal 15 Settembre 2020.


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