Architettura cooperativa. Lo spazio urbano come mezzo e
strumento per condividere narrazioni
Riccarda Lea Cappeller
Fig.
1 - Parti filmiche – atmosfere dei tre spazi: spazio 1 (Foto
dell'autore).
Fig.
2 - Parti filmiche – atmosfere dei tre spazi: spazio 2 (Foto
dell'autore).
Fig.
3 - Parti filmiche – atmosfere dei tre spazi: spazio 3 (Foto
dell'autore).
Sollevare
domande in un nuovo contesto
Pensare a come lo spazio nel contesto urbano possa essere in grado di
rispondere alle esigenze degli utenti e come plasmarlo in un futuro per
far sì che vi siano flessibilità, distanza e
possibilità di incontro, sono da sempre domande su cui
architetti e progettisti urbani si sono interrogati per secoli. In che
modo potremmo organizzare spazialmente la vita, il lavoro e lo spazio
per il tempo libero, per consentire alle persone di costruire ponti tra
gruppi provenienti da diversi background sociali? Come possiamo
conciliare il desiderio di autonomia e privacy all’interno di
un contesto urbano, il desiderio di avere una propria
“piccola isola”, con un’idea di spazio
pubblico, che possa impedire l’isolamento ed una crescente
segregazione sociale? Come possiamo re-immaginare il concetto
primordiale del riunirsi, l’Agorà dei Greci
– un luogo d’incontro per la produzione culturale,
l’organizzazione politica e la convivenza sociale
nell’attuale vita quotidiana dei nostri spazi. Tutte queste
domande risultano estremamente attuali e continuano a destare
attenzione e coinvolgimento da parte dell’opinione pubblica
in tutto il mondo. La pandemia dovuta al Coronavirus ci ha obbligati a
ripensare al modo in cui viviamo insieme e al modo in cui noi, come
architetti e urbanisti, agiamo all’interno dello spazio o
come lo creiamo – “affrontando
l’intreccio del sistemico e del personale” (Roberts
2020, p. 10) in un contesto nuovo ed alquanto positivo. La pandemia di
Covid-19 non solo ci ha costretti a trovare nuove soluzioni spaziali
per allontanare il più possibile le persone l’una
dall’altra, imponendo dure restrizioni a luoghi ed eventi
considerati non sicuri: dai luoghi di lavoro, ai luoghi di incontro
casuale e inaspettato (piccole istituzioni culturali, caffè,
club sportivi, laboratori ecc.). In questa nuova realtà,
milioni di lavoratori si sono ritrovati a lavorare da casa e ad
organizzare la propria vita in maniera completamente diversa. Sono
emerse delle enormi differenze sociali attraverso la suddivisione e
distribuzione dello spazio; un’accessibilitá
diversa agli spazi aperti, alla mobilità e ai rifugi
privati; citando solo alcuni dei vincoli che, purtroppo, sono sintomi
di una società sempre più segregata. Dunque,
guardando alle sfide attuali e mantenendo uno sguardo a lungo termine,
bisognerebbe domandarsi come progettare lo spazio urbano e quale tipo
di intervento sia necessario. Per rispondere a tale quesito servirebbe
una comprensione basilare dello spazio urbano inteso come luogo fisico
indispensabile, in particolar modo, in una società altamente
digitalizzata come la nostra oggi, come la descrive Manuel Castells
(2005). Temi, ad esempio, come la complessità e la
molteplicità delle relazioni sociali e spaziali (Boeri
2004), mostrati nell’insieme eterogeneo di aspetti, programmi
e gruppi di utenti (Cappeller in Schröder e Diesch 2020),
così come negli incontri spontanei di persone nella
quotidianità, sono da evidenziare come qualcosa di
straordinariamente positivo. Non solo, tali temi offrono una
pluralità di risorse sociali, economiche e culturali per i
cittadini, o, utilizzando la definizione dei due cinematografi Ila beka
e Louise Lemoine, per “L’homo urbanus”.
Adoperare questi parametri consente ai nostri spazi di adattarsi a
mutevoli esigenze, ad evolvere ed apprendere insieme a noi, in continua
e costante trasformazione. Il tutto, finalizzato alla realizzazione di
uno spazio che possa esprimere un’idea filosofica di
democrazia che aspiri all’uguaglianza politica, garantisca le
stesse condizioni – nella vita, nel lavoro,
nell’istruzione e nell’accesso alle istituzioni
pubbliche – a tutti (Allen 2020).
Utilizzo inatteso in spazi urbani esistenti
Come affermò Jane Jacobs «i vecchi materiali sono
necessari per reinventare la vita culturale degli ambienti dei centri
urbani e visti per resistere al capitalismo ad alta
velocità» (1963). Gli spazi esistenti nelle nostre
città, le rimanenze di un passato storico, come ad esempio
vecchi siti industriali all’interno del centro cittadino,
sono luoghi in cui è possibile sperimentare programmi, idee,
nuovi collegamenti, lavorando su più dimensioni e temi che
possano relazionarsi ai quartieri circostanti. In questo modo la
possibilità di eventi inaspettati porta ad un certo
coinvolgimento creativo e ad un modo diverso di abitare gli spazi, di
cambiarli, di ampliarli e svilupparli ulteriormente tramite le persone
coinvolte.
La loro sostanza materiale si posiziona come fondamentale elemento di
integrazione, che raccoglie storie e ricordi, mantenendoli vivi e
creando nuovi tipi di comunità per il futuro che va al di
là del materiale adoperato. Sono “spazi
vissuti”, spazi socialmente influenzati e soggettivamente
percepiti, che acquisiscono significato attraverso la pratica e
l’uso nella quotidianità (Lefebvre 1974), sono
stati riciclati, riutilizzati ed interpretati in modi nuovi che non
rappresentano ma mettono in atto la dipendenza del sociale e del
materiale. Su questo punto sono completamente d’accordo, e a
tale proposito trovo sempre molto rilevante l’affermazione di
André Corboz nel suo articolo “Vecchi edifici e
funzioni moderne”, pubblicato nel 1978, in cui Corboz afferma:
«Se il progetto di un edificio [qui inteso in una situazione
spaziale] è considerato fin dall’inizio come un
prodotto in costante sviluppo creato come parte di un programma con uno
scopo in mente è dotato di una causa di
adattabilità, il rianimatore [architetto o urban designer]
si occupa quindi di oggetti aperti alla modernizzazione».
(1978, p.77).
Ampliando questo concetto l’idea di oggetti aperti alla
modernizzazione diventa spazio urbano che cambia e che si sviluppa
ulteriormente, che non si concretizza in un prima e dopo ma in un
processo che va letto nelle sue diverse sfaccettature e diverse
modalità di produzione. È un processo non solo
sociale, politico e spaziale, ma che riguarda anche
un’atmosfera con una capacità culturale che
consente e produce interrelazioni tra le questioni vive e quelle
spaziali sempre in costruzione col passare del tempo (Massey 2005).
Proponendo questa continua attenzione a spazi già esistenti,
al loro contesto e alle comunità ad esse legate, credo
fermamente nelle idee generali di contestualismo degli anni
‘70 e nelle varie teorie proprie di quegli anni, che ci
portano ad una nozione di spazio fortemente contestualizzata in grado
di leggere ed interpretare gli strati di spazi-palinsesti (Corboz 1983)
ancor prima di progettare o materializzare lo spazio. Ci sono molti
vecchi edifici che vengono riutilizzati in base a questo tipo di
processo, posti in cui diversi gruppi di utenti si mischiano tra di
loro per organizzare diversi tipi di eventi e spazi, dando vita a
vecchie strutture. Tuttavia, a mio avviso, direi che i casi sono ancora
pochi, dato che ci vorrebbe un impegno reale da parte di architetti e
progettisti urbani, affinché vi sia uno sforzo in situ per
recuperare materiali già presenti nel luogo. Non solo,
bisognerebbe ascoltare e coinvolgere attivamente le persone che
vivranno e lavoreranno in questi posti, sulla base di modelli
alternativi di proprietà e organizzazione che si riferiscono
a una dimensione più ampia e culturale dello spazio connessa
alla volontà dei suoi abitanti di trasformarlo e cambiarlo.
Presentazione di “Architettura cooperativa” come
concetto e realtà
L’architettura cooperativa come idea concettuale riunisce
molteplici temi della città ed esibisce un atteggiamento
diverso nella progettazione e produzione non solo sociale e spaziale,
ma anche una comprensione dello spazio come processo in corso, e
sequenza di situazioni che consentono differenziazioni spaziali. Parola
derivante dal Latino cooperor,
cooperaris,
in cui co-
significa insieme
e operari
vuol dire occuparsi
o lavorare su qualcosa.
Questa parola
denota il “fare” attivo, proprio
dell’architettura, inteso come atto di collaborazione e di
co-creazione. Un altro significato intrinseco è
“opus”,
inteso come un lavoro musicale, artistico,
letterario o scientifico, un lavoro o una composizione – una
raccolta di conoscenze astratte, concettuali ma allo stesso tempo
interpretative ed intuitive, caratteristiche queste, proprie di un
progetto di design urbano. L’Architettura Cooperativa come
visione idealistica verso questa disciplina in continuo mutamento
raggruppa: a) situazioni urbane, spazi più ampi
all’interno di un determinato contesto urbano o modelli
programmatici come progetti di riferimento, mostrando modi alternativi
di trasformazione con il coinvolgimento degli abitanti piuttosto che di
sviluppi immobiliari spinti dal denaro, b) Prospettive
sull’atmosfera e sulla vita quotidiana, che esprimono la loro
capacità ed il valore culturale come ambiente performativo,
nonché c) azioni e pratiche, intese come modalità
di progettazione dei “praticanti spaziali”
coinvolti (Dodd 2020, pp. 18-19) – atteggiamenti e approcci
che contribuiscono lentamente a cambiare il nostro ruolo di architetti
e urbanisti. Come spazi esemplari per l’architettura
cooperativa possiamo analizzare tre progetti, diversi per posizione,
dimensioni e precedente utilizzo: “Exrotaprint” ,
ad esempio, una ex fabbrica di stampa a Berlino, che dopo essere stata
tutelata dall’acquisto di un investitore privato,
è stata programmata e riorganizzata da un gruppo di
architetti e artisti impegnati a livello sociale. Oggi viene utilizzata
da piccole imprese con vari background sociali, artistici e lavorativi.
Un altro esempio alquanto interessante è il
“Granby Four Streets”, un ex quartiere residenziale
di operai a Liverpool, nel Regno Unito, che, dopo un periodo di degrado
e abbandono, è stato salvato dalla demolizione e
ripristinato da una fervente comunità di vicini, che hanno
lottato per dare una nuova vita a questo quartiere. Assieme a loro,
l’Architecture
Collective Assemble, ha lavorato per
utilizzare il più possibile materiali locali nel restauro e
la realizzazione di nuovi spazi pubblici. Il terzo esempio, una zona di
vecchie fabbriche tessili a Barcellona, chiamato “Can
Batllo”, ha saputo trarre vantaggio della crisi del 2008, e
diretta anch’essa da un gruppo di persone nel vicinato, e la
collaborazione dello studio di architettura LaCol, ancora oggi,
trasforma e adatta continuamente gli spazi alle esigenze degli utenti
che ci vivono, che cambiano costantemente.
Come e perché usare lo spazio come mezzo e strumento
Prendendo spunto da spazi esemplari dell’architettura
cooperativa introdotti di recente, situati sul campo di una ricerca
empirica basata sull’arte e sulla pratica, li utilizzo come
dispositivi (Candea 2013). Diventano parte di un’esplorazione
inventiva che cerca di tradurre la capacità culturale dello
spazio in formati narrativi, alterando i dispositivi architettonici con
approcci interdisciplinari, favorendo una riflessione di pratica e
teoria, portando a una pratica spaziale critica (Marguin 2019).
L’inventiva dei metodi secondo Lury e Wakeford, che hanno
raccolto tutta una serie di esempi, cercando di «contribuire
alla definizione del cambiamento» (2012, p. 6) è
«la relazione tra due momenti: l’indirizzamento di
un metodo [...] a un problema specifico, e la capacità di
ciò che emerge nell’uso di quel metodo per
cambiare il problema» (Ibid., p. 7). Il movimento
interdisciplinare introdotto negli anni ‘50 dagli Smithson,
noto come il “As Found”, aumentò
l’attenzione sull’esistente, inaugurando un nuovo
ambito a metá tra arte e scienza, basato
sull’osservazione e la riflessione del mondo come vissuto.
Originato da un approccio pratico, spontaneo ed inconscio allo spazio
come ispirazione, ha elaborato un background
teorico attraverso la sua
riflessione estetica. Arte concepita in questo senso non vuol dire
produzione concreta di un’opera d’arte,
bensì ad un’arte del pensare e del fare, che va
ben oltre le basi del design (Bürkele 2012), spesso inteso come
interpretazione estetica ma anche come creativo e “fare
attivo”. Lavorare con «approcci aperti e impegnati
dal punto di vista sociale» (Dodd 2019 p.11) e con metodi
sensoriali come ad esempio, film sperimentali o auto etnografici, o la
creazione di pezzi sonori e frammenti visivi, aiuta a creare
interpretazioni testuali che valorizzano le qualità e
capacità dello spazio in questione. Tutto ciò
è ragguardevole per cogliere aspetti tangibili e intangibili
dell’architettura cooperativa, il potenziale di condivisione
di un ambiente di vita in cui vengono raccolte diverse
“conoscenze” – intese come parte di un
apprendimento permanente – (Julien 2016) e condivise come
terreno comune – il che, tornando alla pandemia, è
esattamente l’opposto dell’idea di allontanamento
sociale.
Questa mia ricerca in corso affianca e riflette su questi spazi di
molteplicità intesi come traduzioni spaziali di una
comprensione contemporanea della democrazia, che vuole mettere in
discussione il ruolo di architetti e progettisti urbani che affrontano
la complessità del tema, della progettazione e della
realizzazione di situazioni urbane intrinseche a processi in
evoluzione. Tutto ciò vuole sfociare in un discorso che
interessa non soltanto il mondo accademico ed il mondo pratico ma anche
a persone al di là della disciplina, ad un pubblico
più ampio che vuole prendere parte alla creazione attiva e
all’azione progettuale. È importante evidenziare
la dipendenza reciproca del sociale e del materiale, la propria
esperienza visiva e percezione sensoriale così come la sua
“Poesis”
– la teoria riflessa
mentalmente, e “Pratica”
– il concetto
espresso attraverso l’azione o la realizzazione spaziale e
materiale, Aristoteles
definito. Entrambi devono essere ridefiniti e
reintegrati nella formazione di architetti e designer per consentire
loro di agire come «compratori esperti, consentendo alle
persone di risolvere i propri problemi» (Colin Ward, 1996, p.
17). L’integrazione di arte e gli approcci interdisciplinari,
come già accennato con la spiegazione del concetto di
architettura cooperativa, sono una possibilità, provocando
un cambio di prospettiva e una riscoperta e nuova invenzione di
soluzioni creative e idee legate alla situazione. Una deviazione dal
progetto architettonico e urbano sembrerebbe necessaria (Nilsson 2013);
una deviazione che si muova verso un atteggiamento in grado di
collegare analisi e progetto, teoria e pratica in maniera
più profonda e riflessiva, concentrandosi anche su una
comprensione performativa dello spazio. Questa azione testerebbe nuovi
strumenti e modalità di progettazione è
proporrebbe idee innovative, promettenti, è
chissà, forse anche un pò utopiche, che possano
capovolgere l’esistente. È una nuova
appropriazione dello spazio che consente l’improvvisazione
(Dell 2019) e la sperimentazione (Marguin 2019) collegate ad
un’ambizione sociale, collegate agli ideali portati avanti
dai movimenti internazionali degli anni ‘70 con idee e metodi
emergenti discussi oggi. Ora, in quale modo esattamente
l’esperienza ed il valore dello spazio, attraverso diversi
approcci e metodi, porteranno a nuove modalità di
progettazione, o al cambiamento del ruolo e dell’azione di
architetti e progettisti urbani, è uno dei passaggi
successivi della ricerca che vorrei continuare a discutere in futuro.
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