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Lo stupore della forma.
Ventuno domande a Renato Rizzi

Il piccolo e denso libretto oggetto di questa recensione fa parte della serie di interviste Saper credere in architettura, pubblicata dalla casa editrice napoletana CLEAN e strutturata – com’è possibile leggere nell’occhiello – come “collana di ricerca curata da studenti e giovani architetti, che interrogano protagonisti dell’architettura contemporanea sulle ragioni e il futuro della disciplina”.
Tra le Ventuno domande a Renato Rizzi, a cura di Claudia Sansò, quelle che forse più di tutte sollecitano le riflessioni dell’architetto sono le ultime due. Sansò, in riferimento ad un altro testo pubblicato dallo stesso Rizzi1, cerca di intercettare il principale referente del pensiero dell’architetto, individuandolo non tanto in una persona fisica, quanto in una generale postura nell’osservare e giudicare il mondo: quella dell’uomo “contemporaneo”. È Rizzi ad illuminare indirettamente (il termine contemporaneo, in verità, è usato raramente durante il dialogo) questa comune posizione nei suoi maestri, tratteggiandoli come «[…] personaggi che si sono sempre posti ai bordi della cultura del loro tempo»2.
“Esiliati”, “condannati”, “invisibili” non sono solamente i termini con cui Rizzi descrive le posizioni sociali dei suoi referenti, ma anche gli inevitabili effetti di straniamento che denotano i “contemporanei”, nell’accezione fornita da Agamben quando scrive che «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo»3.
È a partire da questa “responsabilità” nei confronti della propria epoca, che è anche una «consapevolezza nei confronti della disciplina di Architettura»4, che Rizzi intesse la sua distaccata riflessione sulla cultura del nostro tempo, dominata, secondo lui, dal sapere tecnico-scientifico. L’interpretazione critica della realtà fornita da Rizzi si compie in una serrata dialettica tra opposti, in cui all’ambito dei “dominabili”, costituito dalla τέχνη (techne), si contrappone l’ambito degli “indominabili” dell’ἀρχή (archè). Mentre la prima spezza i legami tra le cose – l’analisi è appunto l’operazione che scioglie le relazioni – la seconda rivela l’unità dei fatti, «tutto è in relazione, tutto è strettamente vincolato»5.
Rizzi, prediligendo l’anima «che è in comune con tutti»6 (archè) al corpo «che è separato, disgiunto»7 (techne), è interessato al significato profondo delle cose.
Forse è per questo che il taglio dell’intervista, merito della consapevolezza dell’intervistatrice, è incentrato sul linguaggio. Sia le domande di Sansò che le risposte di Rizzi incominciano spesso con la chiarificazione dell’etimo, quasi tutti di radice greca – θεάομαι (theàomai) = teoria; περί φέρειν (perì pherèin) = periferia; αἰδώς (aidòs) = pudore; δίκη (dike) = giustizia ecc. Non solo tale espediente conferisce al dialogo una certa armonia e continuità, ma soprattutto permette a Rizzi di sostare nel suo “campo” prediletto, quello della ricerca del senso delle cose e dei legami che le tengono unite.
Il riferimento ai “legami” è interessante perché permette di evidenziare la relazione tra la natura dualistica delle tesi di Rizzi, incalzata dalle domande di Sansò, e il pensiero filosofico di Jacques Derrida, un altro possibile referente del pensiero dell’architetto.
Il pensiero dualistico dell’architetto, infatti, sembra in un certo modo riprendere i concetti sintetizzati dal filosofo francese nel neologismo différance, coniato per indicare quella relazione differenziale che coinvolge un “dato” e la sua “relazione” con l’altro, con il diverso da sé. Secondo Derrida, le determinazioni opposizionali (natura/cultura; storia/tecnica; sensibile/ideale; segno/significato ecc.) «[…] non sono semplicemente speculari, ma gerarchicamente organizzate: un termine prevale sempre sull’altro»8.
Se il nostro tempo è caratterizzato dalla prevalenza della τέχνη, è dovere dell’architetto non accettare passivamente la condizione attuale, ma porsi il problema del ribaltamento dello status quo.
Questa dichiarazione d’intenti sul ruolo dell’architetto nella nostra società non deve sorprendere, se si considera che l’Architetto (con la A maiuscola) è per Rizzi colui il quale si interroga costantemente sulla profondità della beruf, un altro termine importante – questa volta di radice tedesca – da tradurre non solo come “professione”, ma significativamente anche come “vocazione”, «[…] qualcosa che non dipende da una scelta ma che già si possiede»9.
La vocazione dell’Architetto si esplicita nella sua impostazione culturale nei confronti dell’architettura, che non ha niente a che fare con l’arroganza e l’ostentazione personale, ma anzi presuppone che egli si faccia da parte per far emergere il valore insito nell’architettura. Un altro dualismo in cui emerge il contrasto tra i cosiddetti “nominativi” (un sinonimo potrebbe essere “archistar”) e i “dativi”, ossia «coloro che ricevono», coloro che retrocedono affinché la totalità delle culture abbia il giusto spazio per emergere. Un’impostazione culturale che si potrebbe relazionare con il pensiero di Maurice Blanchot, come effettivamente lo stesso Rizzi suggerisce: «tutte le opere sono preesistenti alle nostre idee, a noi tocca unicamente il compito di transitarle alla loro evidenza»10.
Non solo dualismi, ma anche significative triadi compongono l’excursus di questo coinvolgente dialogo, come quella che esplicita le relazioni tra il “sapere”, la “cultura” e la “civiltà”. Il sapere è inteso da Rizzi come repertorio di conoscenze tecnico-scientifiche, per sua natura a-direzionato. Questa direzione deve essere dettata dalla cultura del proprio tempo, che detiene la consapevolezza delle proprie configurazioni. Alla civiltà spetta il compito di trasformare queste consapevoli direzioni in forme concrete, reali.
La cultura nella quale si muove Rizzi è quella occidentale, la grande cultura europea che rappresenta il massimo movimento del pensiero. Nella tradizione della cultura occidentale si radicano i progetti di Rizzi.
Non a caso il termine “tradizione” compone, assieme a “natura” e “tecnica”, un’altra triade decisiva per comprendere il sostrato teorico delle sue architetture. Se, infatti, il progetto permette di porre in relazione «le necessità di una comunità con gli ideali elaborati dalla storia»11, non è nell’invenzione che tale relazione si manifesta, ma è l’imitazione che, liberata da qualsiasi autorialità, permette di far emergere la forma come fondamento della tradizione. Imitazione da intendere ovviamente non come una mera copia, ma «trasposizione di un linguaggio che muta le sue forme mantenendo intatta la fascinazione delle stesse»12.
Al legame del progetto con la “tradizione” si affianca quello con la “natura”, da intendere come concreto radicamento nelle forme della terra. La prevalenza di architetture ctonie nella sua produzione è spiegata da Rizzi come la volontà simbolica di sprofondare anzitutto nella propria interiorità per poi risalire, sulle orme della nostra cultura (e cos’altro se non l’opera dantesca può meglio simboleggiarla) il percorso ascendente che dall’Inferno conduce al Paradiso.
Rizzi compie concretamente questo percorso nell’intervista, associando i suoi progetti ipogei all’Inferno, il Teatro elisabettiano al Purgatorio, e il Cosmo della bildung che ruota intorno alla lanterna di S.Maria del Fiore al Paradiso.
Infine, la “tecnica”, da intendere come perfezione dell’atto costruttivo, conclude idealmente il processo progettuale. Tuttavia, Rizzi ci ammonisce nuovamente, avvisandoci che la vera definizione del progetto è quella che permette ad esso di assurgere al rango di “opera”, ma questo avviene solamente se il progetto stesso, nella sua genesi, riesce a non rinunciare alla propria singolarità, che risiede anzitutto nello “stupore della forma”, quel sentimento involontario che deve essere “l’irrinunciabile dell’Architettura”.

Nicola Campanile

Note
1 Rizzi R. (2019) – Eppure… | And yet… Divisare Books, Roma. Il testo è una raccolta di brevi saggi sul pensiero e le opere di 10 maestri scelti da Rizzi: Emanuele Severino, Peter Eisenman, John Hejduk, Carlo Enzo, Iosif Brodskij, Derek Walcott, Osip Mandel’stam, Aldo Rossi, René Daumal e Victor Hugo.
2 Sansò C. (a cura di) (2020) – Ventuno domande a Renato Rizzi. CLEAN, Napoli, p. 59.
3 Agamben G. (2008) – Che cos’è il contemporaneo?. Nottetempo, Milano, pp. 8-9.
4 Sansò C. (a cura di) (2020) – op. cit., p. 7.
5 Ivi, p. 15.
6 Ivi, p. 39.
7 Ibidem.
8 Vitale F. (2018) – “L’ultima fortezza della metafisica. Dieci anni dopo”. In: Id. (a cura di), Jacques Derrida – Le arti dello spazio. Scritti e interventi sull’architettura, Mimesis, Milano-Udine, p. 17. Non sembra un caso che la collana del libro, Estetica e Architettura, sia diretta proprio da Renato Rizzi, che ha collaborato con Peter Eisenman tra gli anni ’80 e ’90, proprio gli anni in cui Eisenman, a sua volta, è stato fitto interlocutore di Jacques Derrida, attraverso progetti, convegni, relazioni sui temi riguardanti le relazioni tra architettura e filosofia.
9 Sansò C. (a cura di) (2020) – op. cit., p. 7.
10 Ivi, p. 17.
11 Ivi, p. 35.
12 Ibidem.





Autore: Claudia Sansò
Titolo: Ventuno domande a Renato Rizzi
Lingua: italiano
Editore: CLEAN, Napoli
Caratteristiche: formato 10,1 x 14,4cm, 63 pagine, brossura, a colori
ISBN: 978-88-8497-740-3
Anno: 2020