L’imprescindibile ruolo dell’architettura nel rapporto tra cinema e romanzo: Il caso Psyco di Alfred Hitchcock

Gianluca Guaragna




Com’è noto, esiste uno stretto legame tra cinema e architettura, così come tra cinema e letteratura, tuttavia riteniamo che in tale contesto l’architettura occupi sicuramente un ruolo centrale.
Detto in altri termini, il rapporto tra cinema e letteratura, difficilmente può ignorare il ruolo di cerniera che l’architettura viene ad assumere in questa triade, poiché il legame tra film e romanzo, sicuramente non può prescindere da essa.
Sappiamo che lo ‘scenario’ è ciò che di solito consente alle storie di avere uno svolgimento, e il rapporto tra scenario e azione è stretto quanto quello tra palcoscenico e opera teatrale, scrive Amitav Gosh. Inoltre, egli aggiunge, entriamo a poco a poco nello scenario fino a quando comincia a sembrarci reale e noi stessi ne diventiamo parte. Ed è proprio questa la ragione per cui ‘il senso del luogo’ è notoriamente una delle grandi magie della forma romanzo (Gosh 2017).
Che sia descritta nelle pagine di un libro o ripresa nelle sequenze di una pellicola, l’architettura, in quanto scenario per eccellenza, rappresenta senza dubbio un elemento indispensabile per la narrazione. Tuttavia quando il racconto ci viene restituito attraverso la tecnica cinematografica, mostra in tutta la sua evidenza come questa rivesta oggettivamente un ruolo assolutamente inderogabile.
Del resto basti pensare, solo per dirne alcuni, a film come Il disprezzo, di Jan Luc Godard, con Michelle Piccoli e Brigitte Bardot, tratto dall’omonimo romanzo di Moravia e interamente girato nella Villa Malaparte a Capri; o a Kafka con Il processo di Orson Welles girato in gran parte nella Gare d’Orsay in disarmo; o ancora a Blade Runner di Ridley Scott, ispirato al romanzo di Philip K.Dick, dove in una distopica Los Angeles, il progettista di replicanti Sebastien abita nella Ennis House di Frank Lloyd Wright (Fig. 1).
Allo stesso modo del film anche l’architettura ovviamente prescinde dalla fedeltà al romanzo, e difatti quando François Truffaut, in uno scritto del 1958, parla dell’adattamento letterario al cinema, ci dice chiaramente che tra fedeltà alla lettera e fedeltà allo spirito nessuna regola è possibile e ogni caso è particolare. È permesso tutto, egli aggiunge, tranne la banalizzazione, l’immiserimento e l’edulcorazione1.
Luchino Visconti ad esempio interpreta molto liberamente i romanzi da cui sono tratti i suoi film tanto che, quando con Lo straniero, del 1967, si trova costretto a rimanere strettamente fedele al testo letterario, ammetterà che il film, nonostante si avvalga di un’impeccabile interpretazione di Marcello Mastroianni, è uno dei suoi lavori cinematografici meno riusciti2.
Tratto da un testo di Albert Camus, la pellicola è il frutto di un compromesso con la vedova di quest’ultimo che nel cedergli i diritti esigerà l’assoluta fedeltà al testo letterario, e a tal fine arriva ad imporgli addirittura due sceneggiatori francesi di sua fiducia.
D'altronde, secondo David Lynch, un libro o una sceneggiatura non sono altro che uno scheletro cui bisogna dare carne e sangue3; e questo, possiamo aggiungere, vale sia che si voglia rimanere fedeli al racconto, sia che se ne faccia la più libera interpretazione.
È naturale, dunque, che sotto tale punto di vista l’architettura, oltre al luogo per l’ambientazione delle vicende, venga inevitabilmente ad assumere una funzione di carattere fortemente simbolico nella quale concentrare i contenuti reconditi e i risvolti psicologici della storia da raccontare.
Tutto ciò, ad esempio, è facilmente riscontrabile nella ricchissima filmografia di Alfred Hitchcock dalla quale, oltre a capire che la fedeltà al romanzo è per lui un falso problema4, si può evincere quanto sia fondamentale l’architettura al fine di creare l’atmosfera che il regista desidera ottenere per infondere ulteriori emozioni alla storia.
Truffaut, ci fa notare come Hitchcock in molti dei suoi film utilizzi lo stesso principio di esposizione che va dal più lontano al più vicino: si vede prima una città, un edificio in questa città, una camera in questo edificio (Truffaut 2010, p. 224).
Anche Psyco, inizia nello stesso modo. Infatti, prima di mostrarci il luogo centrale dove si svilupperà tutta la vicenda, il film si apre con una lunga panoramica per poi avvicinarsi all’edificio e inquadrare la finestra che ci porterà nella stanza dove si svolge la prima scena. Mentre scorrono in sequenza le immagini della città, sulla pellicola appare la scritta in sovrimpressione dalla quale apprendiamo che si tratta di Phoenix in Arizona. Poi si vede sullo schermo la data e l’ora: mancano diciassette minuti alle tre del pomeriggio di un venerdì 11 dicembre e questo particolare dell’orario, in apparenza marginale, serve invece al regista per suggerire allo spettatore l’esistenza di un rapporto clandestino che lega Marion a Sam, prima che i due appaiano nella scena. (Truffaut 2010, p. 225).
Attraverso il montaggio, le inquadrature, lo svolgersi delle azioni, indubbiamente Hitchcock imprime alla pellicola ciò che manca alla convenzione narrativa del romanzo da cui è tratto il film, ma è anche grazie all’ausilio espressivo delle architetture scelte come cornice della vicenda che il regista riesce a corroborare il coinvolgimento emotivo del pubblico. Difatti egli afferma: «Ho scelto questa casa e questo motel perché mi sono reso conto che la storia non avrebbe avuto lo stesso effetto con un bungalow qualsiasi; questo genere di architettura era adatto alla sua atmosfera.» (Truffaut 2010, p. 227) (Fig. 2).
A molti piace pensare che l’idea per la casa di Psyco nasca da un quadro di Hopper, tuttavia va precisato che benché l’abitazione della madre di Norman sia indubbiamente molto simile alla casa rappresentata in House by the Railroad, il quadro di Edward Hopper del 1925 (Fig. 3), Hitchcock specifica che si tratta della fedele riproduzione di una casa reale. La sua intenzione, infatti, non era quella di ricreare l’atmosfera dei classici film dell’orrore, ma di trascendere la finzione cinematografica per dare un senso di autenticità alla narrazione. L’atmosfera misteriosa, dunque, è in parte accidentale poiché, ci fa notare sempre il grande cineasta, lo stile gotico californiano che caratterizza quest’abitazione è diffuso in molte case isolate del nord della California.
Ciò non toglie che pur essendo una tipologia usuale, la Casa vicino alla ferrovia, di Hopper, è avvolta da un’atmosfera di abbandono e isolamento tale, da suscitare nell’osservatore una sensazione d’insicurezza, quasi di timore. Nel quadro, infatti, il manufatto esprime una condizione di mistero latente, evidenziata ancor di più dal taglio netto della linea ferroviaria che, attraversando orizzontalmente in basso l’intera superficie del dipinto, cela una parte del volume dell’abitazione all’altezza del basamento.
Tuttavia, ciò che a noi interessa, naturalmente non è la somiglianza tra le due case, poiché abbiamo già appurato che essendo una tipologia molto diffusa si tratterebbe solo di una fortuita coincidenza, mentre è interessante l’analogia concettuale che sussiste tra la composizione degli elementi sulla tela e quella delle architetture in cui si risolve il film. Proprio quella che Hitchcock, parlando di Psyco, chiama appunto la composizione del blocco verticale e del blocco orizzontale, ossia l’ortogonalità tra le linee e le figure che in qualche modo ritroviamo anche in Hopper.
Infatti, così come nel dipinto dell’artista statunitense la verticalità della casa è contrapposta all’orizzontalità della linea ferroviaria, allo stesso modo la casa della madre di Norman si contrappone al blocco orizzontale del motel.
E forse proprio questo “contrasto” tra geometrie, nel secondo caso accentuato ancor di più dall’antitesi che si crea tra lo scarno aspetto formale del motel e lo stile austero dell’abitazione, in una certa misura contribuisce a suscitare un leggero stato di tensione, riuscendo in maniera subliminale ad evocare in noi una sorta di inquietudine latente.
Slavoj Žižek, individua in questa contrapposizione tra le due costruzioni addirittura la causa delle turbe psichiche che caratterizzano il protagonista del film. Infatti, egli scrive:

«…si può anche considerare Norman come il soggetto scisso tra due case, il motel moderno e orizzontale e la casa materna, gotica e verticale. Egli si muove incessantemente tra le due, senza mai trovare un posto proprio. In questo senso, il carattere unheimlich del finale del film sta a significare che, identificandosi pienamente con la madre, Norman ha finalmente trovato il suo heim, la sua casa.» (Žižek 2011, pp. 45-46).

Poi Žižek si spinge oltre, e prendendo come esempio il punto d’intersezione che nella famosa Casa Gehry a Santa Monica in California5 (Fig. 4), segna l’unione tra la preesistenza e l’ampliamento realizzato dall’architetto, sottolinea come Fredric Jameson individui nella stanza dell’intersezione tra i due spazi il luogo fondamentale della costruzione, per aggiungere che è appunto questo il luogo in cui si risolve l’antagonismo tra i due oggetti; vale a dire che quella è la sede nella quale si verifica la mediazione tra gli opposti.
Di conseguenza questo lo porta a una singolare conclusione. Un’ipotesi tanto bizzarra quanto intrigante, secondo la quale il filosofo sloveno arriva a stabilire che se il Motel Bates fosse stato progettato da Gehry, Norman non avrebbe avuto bisogno di uccidere le sue vittime «dato che sarebbe stato alleviato dall’insostenibile tensione che lo obbliga a correre tra due luoghi; avrebbe avuto un terzo luogo di mediazione tra i due estremi.» (Žižek 2011, p. 47).
Ora, senza arrivare a sposare la teoria di Žižek, è tuttavia innegabile il ruolo fondamentale che assumono questi due semplici manufatti architettonici all’interno della struttura narrativa del racconto. Tanto che tutta la storia può essere sintetizzata in due sole immagini: la casa che sovrasta il motel degli omicidi e la scena dell’assassinio sotto la doccia.
Truffaut, afferma che non esistono buone storie, ci sono solo buoni film, tutti basati su un’idea profonda che deve sempre poter essere riassunta in una sola parola.6
E la trama di Psyco, se proprio non si può riassumere in una parola, sicuramente si risolve intorno a queste due immagini senza che il concetto del grande critico e cineasta francese venga alterato.
Ma si sa che Truffaut adorava Hichcock e infatti lo annoverava tra i più grandi registi se non il più grande.
«Fin dall’inizio della sua carriera, Hitchcock ha capito che se si è in grado di leggere un giornale con i propri occhi e la propria testa si è in grado di leggere un romanzo con i propri occhi e con il cuore in gola: un film deve allora essere visto nello stesso modo in cui si legge un romanzo.» (Truffaut 2010, p. 227).


Note
1 «Sono permessi tutti i colpi tranne i colpi bassi; in altri termini, il tradimento della lettera o dello spirito è tollerabile se il regista si interessa solo all’una o all’altro e se è riuscito a fare: a) la stessa cosa; b) la stessa cosa, meglio; c) un'altra cosa migliore. Sono inaccettabili la banalizzazione, l’immiserimento, l’edulcorazione.» (Truffaut, 2010).
2 Quasi tutti i film di Visconti sono ispirati a romanzi ma mai la trasposizione cinematografica è rimasta fedele al testo letterario.
3 «…Una sceneggiatura è per così dire uno scheletro. Devi darle carne e sangue. E un regista è un interprete. Traduce le immagini che riceve dalla sceneggiatura. Questo vale per tutte le idee, che provengano da una sceneggiatura o da un libro. L’idea non ti appartiene, l’hai ricevuta, comprese le immagini, i suoni, l’atmosfera che emana dal materiale. Poi ci sono le altre variabili che entrano in gioco: i luoghi delle riprese, la scelta degli attori, e così via…» (Lynch, 2012, pp. 331-332)
4 «La mia più grande soddisfazione è che il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare l’arte cinematografica per creare un emozione di massa. E con Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione che l’ha sconvolto. Non è un romanzo molto apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il pubblico, è stato il film puro.» (Truffaut, 2014, p. 233).
5 «Nel 1977, Frank e Berta Gehry acquistano un bungalow rosa a due piani con tetto a mansarda, costruito intorno al 1920 e situato in un lotto d’angolo; l’edificio viene completamente ristrutturato, con una spesa relativamente contenuta. Gehry sceglie materiali già impiegati – metallo ondulato, multistrato, rete metallica – per esplorarne le possibilità e approfondire inoltre l’uso del sistema costruttivo a telai di legno grezzo. Per i modelli attinge agli ‘schizzi in legno’ delle case Wagner, Familian e Gunther, cercando di infondervi una vitalità espressiva pari a quella dei disegni di studio. Giocando ancora una volta con la prospettiva e il movimento, e grazie a numerosi disegni assonometrici, arriva ad assemblare un collage di materiali consueti, ma dotati di nuove connotazioni. Gehry voleva racchiudere l’edificio in un involucro attraverso il quale fosse comunque possibile vedere la vecchia casa; in questo modo il nuovo e l’antico avrebbero potuto dialogare e arricchirsi a vicenda…». (Dal Co, Forster, Arnold, 1998, p. 151).
6 «Non esistono buone storie, ci sono solo buoni film, tutti basati su un idea profonda che deve sempre poter essere riassunta in una sola parola: Lola Montès è un film sul sovraffaticamento, Eliana e gli uomini sull’ambizione e sulla carne, Un re a New York sulla delazione, L’infernale Quinlan sulla nobiltà, Ordet sulla grazia Hiroshima, mon amour sul peccato originale.» (Truffaut 2010, p. 97).


Bibliografia
DAL CO F., Forster K.W. e Arnold H.S. (1998) – Frank O.Gehry Tutte le opere. Electa, Milano.
GHOSH A. (2017) – La grande cecità Il cambiamento climatico e l’impensabile. Neri Pozza Editore, Vicenza.
LYNCH D. (2012) – Perdersi è meraviglioso. Ed. minimum fax, Roma.
TRUFFAUT F. (2010) – L’adattamento letterario al cinema, da La Revue des Lettres modernes, estate 1958. In: Il piacere degli occhi, a cura di Jean Narboni e Serge Toubiana, Minimum fax, Roma.
TRUFFAUT F. (2014) – Il cinema secondo Hitchcock. Il Saggiatore, Milano.
ŽIŽEK S. (2011) – Hitchcock: È possibile girare il remake di un film?. Mimesis, Milano.