L’imprescindibile ruolo dell’architettura
nel rapporto tra cinema e romanzo: Il caso Psyco di Alfred Hitchcock
Gianluca Guaragna
Fig.
1 - Frank Lloyd Wright, Ennis House, 1924.
Fig.
2 - Bates Motel, location del film Psyco di A. Hitchcock
Fig.
3 - Edward Hopper, House by the Railroad, 1925.
Fig.
4 - Frank O. Gehry, Casa Gehry, Santa Monica, California, 1977-78,
1991-94.
Com’è noto, esiste uno stretto legame tra cinema e
architettura, così come tra cinema e letteratura, tuttavia
riteniamo che in tale contesto l’architettura occupi
sicuramente un ruolo centrale.
Detto in altri termini, il rapporto tra cinema e letteratura,
difficilmente può ignorare il ruolo di cerniera che
l’architettura viene ad assumere in questa triade,
poiché il legame tra film e romanzo, sicuramente non
può prescindere da essa.
Sappiamo che lo ‘scenario’ è
ciò che di solito consente alle storie di avere uno
svolgimento, e il rapporto tra scenario e azione è stretto
quanto quello tra palcoscenico e opera teatrale, scrive Amitav Gosh.
Inoltre, egli aggiunge, entriamo a poco a poco nello scenario fino a
quando comincia a sembrarci reale e noi stessi ne diventiamo parte. Ed
è proprio questa la ragione per cui ‘il senso del
luogo’ è notoriamente una delle grandi magie della
forma romanzo (Gosh 2017).
Che sia descritta nelle pagine di un libro o ripresa nelle sequenze di
una pellicola, l’architettura, in quanto scenario per
eccellenza, rappresenta senza dubbio un elemento indispensabile per la
narrazione. Tuttavia quando il racconto ci viene restituito attraverso
la tecnica cinematografica, mostra in tutta la sua evidenza come questa
rivesta oggettivamente un ruolo assolutamente inderogabile.
Del resto basti pensare, solo per dirne alcuni, a film come Il
disprezzo, di Jan Luc Godard, con Michelle Piccoli e Brigitte Bardot,
tratto dall’omonimo romanzo di Moravia e interamente girato
nella Villa Malaparte a Capri; o a Kafka con Il processo di Orson
Welles girato in gran parte nella Gare d’Orsay in disarmo; o
ancora a Blade Runner di Ridley Scott, ispirato al romanzo di Philip
K.Dick, dove in una distopica Los Angeles, il progettista di replicanti
Sebastien abita nella Ennis House di Frank Lloyd Wright (Fig. 1).
Allo stesso modo del film anche l’architettura ovviamente
prescinde dalla fedeltà al romanzo, e difatti quando
François Truffaut, in uno scritto del 1958, parla
dell’adattamento letterario al cinema, ci dice chiaramente
che tra fedeltà alla lettera e fedeltà allo
spirito nessuna regola è possibile e ogni caso è
particolare. È permesso tutto, egli aggiunge, tranne la
banalizzazione, l’immiserimento e l’edulcorazione1.
Luchino Visconti ad esempio interpreta molto liberamente i romanzi da
cui sono tratti i suoi film tanto che, quando con Lo straniero, del
1967, si trova costretto a rimanere strettamente fedele al testo
letterario, ammetterà che il film, nonostante si avvalga di
un’impeccabile interpretazione di Marcello Mastroianni,
è uno dei suoi lavori cinematografici meno riusciti2.
Tratto da un testo di Albert Camus, la pellicola è il frutto
di un compromesso con la vedova di quest’ultimo che nel
cedergli i diritti esigerà l’assoluta
fedeltà al testo letterario, e a tal fine arriva ad imporgli
addirittura due sceneggiatori francesi di sua fiducia.
D'altronde, secondo David Lynch, un libro o una sceneggiatura non sono
altro che uno scheletro cui bisogna dare carne e sangue3; e questo, possiamo aggiungere, vale
sia che si voglia rimanere fedeli al racconto, sia che se ne faccia la
più libera interpretazione.
È naturale, dunque, che sotto tale punto di vista
l’architettura, oltre al luogo per l’ambientazione
delle vicende, venga inevitabilmente ad assumere una funzione di
carattere fortemente simbolico nella quale concentrare i contenuti
reconditi e i risvolti psicologici della storia da raccontare.
Tutto ciò, ad esempio, è facilmente riscontrabile
nella ricchissima filmografia di Alfred Hitchcock dalla quale, oltre a
capire che la fedeltà al romanzo è per lui un
falso problema4,
si può evincere quanto sia fondamentale
l’architettura al fine di creare l’atmosfera che il
regista desidera ottenere per infondere ulteriori emozioni alla storia.
Truffaut, ci fa notare come Hitchcock in molti dei suoi film utilizzi
lo stesso principio di esposizione che va dal più lontano al
più vicino: si vede prima una città, un edificio
in questa città, una camera in questo edificio (Truffaut
2010, p. 224).
Anche Psyco, inizia nello stesso modo. Infatti, prima di mostrarci il
luogo centrale dove si svilupperà tutta la vicenda, il film
si apre con una lunga panoramica per poi avvicinarsi
all’edificio e inquadrare la finestra che ci
porterà nella stanza dove si svolge la prima scena. Mentre
scorrono in sequenza le immagini della città, sulla
pellicola appare la scritta in sovrimpressione dalla quale apprendiamo
che si tratta di Phoenix in Arizona. Poi si vede sullo schermo la data
e l’ora: mancano diciassette minuti alle tre del pomeriggio
di un venerdì 11 dicembre e questo particolare
dell’orario, in apparenza marginale, serve invece al regista
per suggerire allo spettatore l’esistenza di un rapporto
clandestino che lega Marion a Sam, prima che i due appaiano nella
scena. (Truffaut 2010, p. 225).
Attraverso il montaggio, le inquadrature, lo svolgersi delle azioni,
indubbiamente Hitchcock imprime alla pellicola ciò che manca
alla convenzione narrativa del romanzo da cui è tratto il
film, ma è anche grazie all’ausilio espressivo
delle architetture scelte come cornice della vicenda che il regista
riesce a corroborare il coinvolgimento emotivo del pubblico. Difatti
egli afferma: «Ho scelto questa casa e questo motel
perché mi sono reso conto che la storia non avrebbe avuto lo
stesso effetto con un bungalow qualsiasi; questo genere di architettura
era adatto alla sua atmosfera.» (Truffaut 2010, p. 227) (Fig.
2).
A molti piace pensare che l’idea per la casa di Psyco nasca
da un quadro di Hopper, tuttavia va precisato che benché
l’abitazione della madre di Norman sia indubbiamente molto
simile alla casa rappresentata in House by the Railroad, il quadro di
Edward Hopper del 1925 (Fig. 3), Hitchcock specifica che si tratta
della fedele riproduzione di una casa reale. La sua intenzione,
infatti, non era quella di ricreare l’atmosfera dei classici
film dell’orrore, ma di trascendere la finzione
cinematografica per dare un senso di autenticità alla
narrazione. L’atmosfera misteriosa, dunque, è in
parte accidentale poiché, ci fa notare sempre il grande
cineasta, lo stile gotico californiano che caratterizza
quest’abitazione è diffuso in molte case isolate
del nord della California.
Ciò non toglie che pur essendo una tipologia usuale, la Casa
vicino alla ferrovia, di Hopper, è avvolta da
un’atmosfera di abbandono e isolamento tale, da suscitare
nell’osservatore una sensazione d’insicurezza,
quasi di timore. Nel quadro, infatti, il manufatto esprime una
condizione di mistero latente, evidenziata ancor di più dal
taglio netto della linea ferroviaria che, attraversando orizzontalmente
in basso l’intera superficie del dipinto, cela una parte del
volume dell’abitazione all’altezza del basamento.
Tuttavia, ciò che a noi interessa, naturalmente non
è la somiglianza tra le due case, poiché abbiamo
già appurato che essendo una tipologia molto diffusa si
tratterebbe solo di una fortuita coincidenza, mentre è
interessante l’analogia concettuale che sussiste tra la
composizione degli elementi sulla tela e quella delle architetture in
cui si risolve il film. Proprio quella che Hitchcock, parlando di
Psyco, chiama appunto la composizione del blocco verticale e del blocco
orizzontale, ossia l’ortogonalità tra le linee e
le figure che in qualche modo ritroviamo anche in Hopper.
Infatti, così come nel dipinto dell’artista
statunitense la verticalità della casa è
contrapposta all’orizzontalità della linea
ferroviaria, allo stesso modo la casa della madre di Norman si
contrappone al blocco orizzontale del motel.
E forse proprio questo “contrasto” tra geometrie,
nel secondo caso accentuato ancor di più
dall’antitesi che si crea tra lo scarno aspetto formale del
motel e lo stile austero dell’abitazione, in una certa misura
contribuisce a suscitare un leggero stato di tensione, riuscendo in
maniera subliminale ad evocare in noi una sorta di inquietudine
latente.
Slavoj Žižek, individua in questa contrapposizione tra le due
costruzioni addirittura la causa delle turbe psichiche che
caratterizzano il protagonista del film. Infatti, egli scrive:
«…si può anche considerare Norman come
il soggetto scisso tra due case, il motel moderno e orizzontale e la
casa materna, gotica e verticale. Egli si muove incessantemente tra le
due, senza mai trovare un posto proprio. In questo senso, il carattere
unheimlich del finale del film sta a significare che, identificandosi
pienamente con la madre, Norman ha finalmente trovato il suo heim, la
sua casa.» (Žižek 2011, pp. 45-46).
Poi Žižek si spinge oltre, e prendendo come esempio il punto
d’intersezione che nella famosa Casa Gehry a Santa Monica in
California5
(Fig. 4), segna l’unione tra la preesistenza e
l’ampliamento realizzato dall’architetto,
sottolinea come Fredric Jameson individui nella stanza
dell’intersezione tra i due spazi il luogo fondamentale della
costruzione, per aggiungere che è appunto questo il luogo in
cui si risolve l’antagonismo tra i due oggetti; vale a dire
che quella è la sede nella quale si verifica la mediazione
tra gli opposti.
Di conseguenza questo lo porta a una singolare conclusione.
Un’ipotesi tanto bizzarra quanto intrigante, secondo la quale
il filosofo sloveno arriva a stabilire che se il Motel Bates fosse
stato progettato da Gehry, Norman non avrebbe avuto bisogno di uccidere
le sue vittime «dato che sarebbe stato alleviato
dall’insostenibile tensione che lo obbliga a correre tra due
luoghi; avrebbe avuto un terzo luogo di mediazione tra i due
estremi.» (Žižek 2011, p. 47).
Ora, senza arrivare a sposare la teoria di Žižek, è tuttavia
innegabile il ruolo fondamentale che assumono questi due semplici
manufatti architettonici all’interno della struttura
narrativa del racconto. Tanto che tutta la storia può essere
sintetizzata in due sole immagini: la casa che sovrasta il motel degli
omicidi e la scena dell’assassinio sotto la doccia.
Truffaut, afferma che non esistono buone storie, ci sono solo buoni
film, tutti basati su un’idea profonda che deve sempre poter
essere riassunta in una sola parola.6
E la trama di Psyco, se proprio non si può riassumere in una
parola, sicuramente si risolve intorno a queste due immagini senza che
il concetto del grande critico e cineasta francese venga alterato.
Ma si sa che Truffaut adorava Hichcock e infatti lo annoverava tra i
più grandi registi se non il più grande.
«Fin dall’inizio della sua carriera, Hitchcock ha
capito che se si è in grado di leggere un giornale con i
propri occhi e la propria testa si è in grado di leggere un
romanzo con i propri occhi e con il cuore in gola: un film deve allora
essere visto nello stesso modo in cui si legge un romanzo.»
(Truffaut 2010, p. 227).
Note 1
«Sono permessi tutti i colpi tranne i colpi bassi; in altri
termini, il tradimento della lettera o dello spirito è
tollerabile se il regista si interessa solo all’una o
all’altro e se è riuscito a fare: a) la stessa
cosa; b) la stessa cosa, meglio; c) un'altra cosa migliore. Sono
inaccettabili la banalizzazione, l’immiserimento,
l’edulcorazione.» (Truffaut, 2010). 2
Quasi tutti i film di Visconti sono ispirati a romanzi ma mai la
trasposizione cinematografica è rimasta fedele al testo
letterario. 3
«…Una sceneggiatura è per
così dire uno scheletro. Devi darle carne e sangue. E un
regista è un interprete. Traduce le immagini che riceve
dalla sceneggiatura. Questo vale per tutte le idee, che provengano da
una sceneggiatura o da un libro. L’idea non ti appartiene,
l’hai ricevuta, comprese le immagini, i suoni,
l’atmosfera che emana dal materiale. Poi ci sono le altre
variabili che entrano in gioco: i luoghi delle riprese, la scelta degli
attori, e così via…» (Lynch, 2012, pp.
331-332) 4
«La mia più grande soddisfazione è che
il film ha avuto un effetto sul pubblico, ed era la cosa alla quale
tenevo di più. In Psyco del soggetto mi importa poco, dei
personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio
dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto
ciò che è puramente tecnico possano far urlare il
pubblico. Credo sia una grande soddisfazione per noi utilizzare
l’arte cinematografica per creare un emozione di massa. E con
Psyco ci siamo riusciti. Non è un messaggio che ha
incuriosito il pubblico. Non è una grande interpretazione
che l’ha sconvolto. Non è un romanzo molto
apprezzato che l’ha avvinto. Quello che ha commosso il
pubblico, è stato il film puro.» (Truffaut, 2014,
p. 233). 5
«Nel 1977, Frank e Berta Gehry acquistano un bungalow rosa a
due piani con tetto a mansarda, costruito intorno al 1920 e situato in
un lotto d’angolo; l’edificio viene completamente
ristrutturato, con una spesa relativamente contenuta. Gehry sceglie
materiali già impiegati – metallo ondulato,
multistrato, rete metallica – per esplorarne le
possibilità e approfondire inoltre l’uso del
sistema costruttivo a telai di legno grezzo. Per i modelli attinge agli
‘schizzi in legno’ delle case Wagner, Familian e
Gunther, cercando di infondervi una vitalità espressiva pari
a quella dei disegni di studio. Giocando ancora una volta con la
prospettiva e il movimento, e grazie a numerosi disegni assonometrici,
arriva ad assemblare un collage di materiali consueti, ma dotati di
nuove connotazioni. Gehry voleva racchiudere l’edificio in un
involucro attraverso il quale fosse comunque possibile vedere la
vecchia casa; in questo modo il nuovo e l’antico avrebbero
potuto dialogare e arricchirsi a vicenda…». (Dal
Co, Forster, Arnold, 1998, p. 151). 6
«Non esistono buone storie, ci sono solo buoni film, tutti
basati su un idea profonda che deve sempre poter essere riassunta in
una sola parola: Lola Montès è un film sul
sovraffaticamento, Eliana e gli uomini sull’ambizione e sulla
carne, Un re a New York sulla delazione, L’infernale Quinlan
sulla nobiltà, Ordet sulla grazia Hiroshima, mon amour sul
peccato originale.» (Truffaut 2010, p. 97).
Bibliografia DAL CO F., Forster K.W. e Arnold H.S. (1998) – Frank O.Gehry Tutte le opere.
Electa, Milano.
GHOSH A. (2017) – La
grande cecità Il cambiamento climatico e
l’impensabile. Neri Pozza Editore, Vicenza.
LYNCH D. (2012) – Perdersi
è meraviglioso. Ed. minimum fax, Roma.
TRUFFAUT F. (2010) – L’adattamento
letterario al cinema, da La Revue des Lettres modernes,
estate 1958. In: Il
piacere degli occhi, a cura di Jean Narboni e Serge
Toubiana, Minimum fax, Roma.
TRUFFAUT F. (2014) – Il
cinema secondo Hitchcock. Il Saggiatore, Milano.
ŽIŽEK S. (2011) – Hitchcock:
È possibile girare il remake di un film?.
Mimesis, Milano.