Da ‘Parasite’ alla pandemia. Come le città coreane possono aprire la via verso una urbanistica globale post-Covid

Ken Fallas, Ekaterina Kochetkova 




Il virus della verità
Nel corso dei secoli, la progettazione architettonica e la pianificazione urbanistica sono state considerate discipline dell’ambito igienico-sanitario, affrontando le malattie con approcci ambientali che hanno dato vita a nuovi movimenti come il modernismo con i suoi spazi funzionali, puliti e ben ventilati contro “l’aria cattiva” (Campbell 2005). Ma i progressi compiuti dalla ricerca scientifica in un mondo dominato dall’ipervelocità e dall’iperconnettività ci hanno permesso di agire in modo più rapido ed efficiente come mai prima, esentando il campo del design da questi compiti, ed influenzando così una “urbanistica globale” che affronta i problemi delle città capitaliste con soluzioni guidate dal mercato, attraverso sistemi intelligenti e pratiche standardizzate, indipendentemente dalle considerazioni di contesto, come città generiche e astratte (Greenfield 2013).
Tuttavia, vi sono specifiche caratteristiche nella progettazione architettonica e nella pianificazione urbanistica che fanno sì che solo alcune città riescano a contenere l’attuale pandemia mentre altre stentano a combattere.
Ad esempio, le città cinesi e russe hanno seguito percorsi simili attraverso l’impiego del monitoraggio assistito dalla tecnologia e del lockdown. Le città europee hanno stabilito misure speciali per la quarantena, ma con un uso più contenuto della tecnologia a causa di problemi relativi alla riservatezza dei dati e alla privacy. Le città americane, d’altro canto, si sono trovate inaspettatamente impreparate, così come molti altri centri urbani nei paesi in via di sviluppo. Ma solo un ristretto numero di città, specialmente nei paesi asiatici, ha mostrato di avere le capacità per controllare l’epidemia.
Tuttavia, anche dal punto di vista degli architetti, gran parte di questa discussione sulla risposta delle città al virus (cosí come accade con i cambiamenti climatici o le migrazioni) si è purtroppo ridotta ad un confronto politico sui risultati raggiunti entro i limiti dettati dall’ideologia: democrazie liberali contro autoritarie, capitalismo contro comunismo o, in ultima analisi, un clash culturale tra est e ovest (Harari, 2020; Carrion 2020; Agamben 2020; Zizek 2020).
Questo approccio ha ridotto la nostra capacità di comprendere che, indipendentemente dalle ideologie, il Covid-19 ha agito come “virus della verità”, scuotendo le strutture di potere e portando alla luce le vulnerabilità di ciascun contesto. L’impatto maggiore della pandemia non si è manifestato solo in un improvviso e significativo problema sanitario, ma in un senso di un’angoscia collettiva, paralisi e isolamento dovuti a una quarantena estesa impiegata spesso come unico strumento disponibile (al momento) per combattere il virus. Tuttavia, questo effetto del confinamento è amplificato poiché la qualità degli spazi in cui viviamo ci ha fatto vivere questa esperienza in modi molto diversi, riportando alla luce un antico e persistente problema che da sempre affligge le aree urbane: la disuguaglianza.

Da Parasite a pandemia
In tempi pre-pandemici, il film coreano Parasite descriveva satiricamante l’interazione tra una famiglia modesta che vive in un piccolo e inospitale seminterrato con poche speranze di lasciare il “fondo della piramide”, e una famiglia privilegiata che gode di una vita quasi perfetta vivendo in una lussuosa villa collinare. Un divario divenuto normale tra i gruppi socioeconomici che convivono nella stessa città, ma che per il suo regista Bong Joon-ho, non rappresenta una condizione esclusivamente coreana, ma un elemento comune della società tardo-capitalista in cui viviamo a livello globale (Hagen 2019). I ricchi possono lavorare, vivere, intrattenersi e studiare da casa senza preoccuparsi della loro situazione finanziaria, della disponibilità di cibo o dell’accesso alle cure mediche: il sistema provvede. Il film sembra cosí suggerire che per i meno abbienti non vi sia apparente via di fuga dalla povertà e dalla distribuzione ineguale del reddito e delle opportunità: indipendentemente da quanto si lavori, la meritocrazia è ormai un mito.
Negli ultimi decenni, il successo dell’economia coreana ha spinto le sue città verso una rapida crescita e un’elevata competitività, innescando una corsa per l’accesso agli alloggi, alla mobilità e ai servizi, ma anche spingendo i cittadini a credere che questo sistema basato sulla performance sia la chiave per accedere alle risorse e alla felicità. Questo, secondo il filosofo corenao Byung-Chul Han, ha trasformato la Corea del Sud in una società basata sul successo, lasciando molti indietro con un effetto burnout caratterizzato da orari di lavoro eccessivi, elevata disuguaglianza del reddito, segregazione dei privilegi sociali, auto-sfruttamento, elevata disoccupazione giovanile e proliferazione di disturbi psico-fisici legati allo stress (Han 2015). Questa tendenza è ampiamente diffusa anche nelle società occidentali, che si sono evolute verso uno stato di esaurimento generale e isolamento, soprattutto nelle città. È ormai risaputo che gli architetti detengano una quota importante della responsabilità, poiché hanno plasmato queste città che a loro volta ora plasmano noi.
Tuttavia, per i sudcoreani non c’è stato tempo per celebrare il formidabile successo internazionale del film Parasite, né per analizzare adeguatamente o affrontare quelle stesse sfide urbane e sociali esposte dal film. Il 18 febbraio 2020 è stato segnalato il trentunesimo caso Covid-19 nel paese, e solo successivamente si è scoperto che lo stesso paziente ha contribuito enormemente alla diffusione del virus portando la Corea in cima alle classifiche come territorio maggiormente colpito dall’epidemia al di fuori della Cina (Hernandez et alii 2020).

Oltre al test-track-treat
La strategia coreana era chiara; applicare tutte le lezioni apprese dalle passate pandemie (SARS nel 2003 e MERS nel 2015) attraverso politiche che consentano una rapida distribuzione della diagnostica, ma, ancora più importante, identificare il percorso dei portatori del virus prima che il contagio si diffondesse (Lee & Jung 2019). Per questo, i funzionari hanno approfittato degli investimenti in infrastrutture digitali urbane degli ultimi 20 anni, consentendo loro di tracciare tutti coloro che sono risultati positivi incrociando dati provenienti da interviste, registrazioni di telecamere a circuito chiuso, dati GPS dei cellulari, transazioni delle carte di credito o qualsiasi altra fonte in grado di fornire una geolocalizzazione in tempo reale del percorso del virus. Gran parte di questi dati era pubblicamente disponibile attraverso i media, i siti web e il sistema nazionale di allarme che, attraverso SMS automatici sui cellulari dei cittadini, avvisava i residenti con messaggi personalizzati qualora venissero rilevati nuovi casi nelle loro vicinanze. In collaborazione con il settore privato, sono state sviluppate anche diverse app per aiutare gli utenti a trovare cliniche vicine o tende da campo allestite per i test, fornitori di mascherine e aree sicure. Questo approccio ICT e la partnership tra pubblico e privato è stato ampiamente trattato dai report preliminari volti a guidare altre nazioni sulla base dell’esperienza coreana.1 Tuttavia, nonostante l’innegabile ruolo principale della tecnologia nel contenere la diffusione del virus, gran parte di questa storia di successo è stata descritta come “capacità iper-tecnologica”, “eccezionalità culturale” per il rispetto delle regole, o anche come “moda asiática” nell’indossare le mascherine, facendo scivolare in secondo piano l’influenza della resilienza urbana costruita e pianificata, che ha aiutato le città coreane a ridurre al minimo l’interruzione della vita quotidiana, senza ricorrere a lockdown prolungati, paura o depressione economica.
L’approccio alla disuguaglianza urbana degli architetti e pianificatori coreani si è evoluto nell’ultimo decennio – nonostante si abbia ancora a che fare con tentativi falliti causati da modelli che hanno portato al diffondersi di nuove città con alloggi generici e speculativi, zone con limitato accesso ai servizi di base e la conseguente dipendenza dall’auto (Lee 2019) – per riconsiderare strategie di rigenerazione urbana e sistemi multi-nucleari come ritorno alla comunità. Ciò ha notevolmente aumentato i livelli di partecipazione pubblica e gli interventi locali, non solo nelle megalopoli come Seoul, ma anche nei centri urbani di piccole e medie dimensioni in tutto il paese. Le Happy Living Zones e gli strumenti sviluppati dal Better Life Index hanno guidato una pianificazione efficace per garantire una decentralizzazione multiscala fisica e digitale dei servizi essenziali, welfare, istruzione, cultura, assistenza sanitaria e spazi verdi pubblici (Kim 2013). Città compatte all’interno di città, che forniscono pari accesso alla diversità urbana e ai suoi vantaggi, entro una distanza percorribile a piedi in 15 minuti; in altre parole città a misura d’uomo (Gehl 2010). Ciò è stato rafforzato dalla trasparenza del governo e dalla fiducia del cittadino, che è la chiave per la condivisione dei dati digitali, rivelando un’urbanistica emergente basata sulla tecnologia ma incentrata sull’uomo, che forma il nucleo del New Deal digitale e verde della Corea lanciato recentemente (Economic Policies, H2 2020).

K-urbanism e le sfide future
Non dovrebbe sorprendere che i concetti urbanistici sopra descritti sembrino riassumere gran parte delle già note strategie di progettazione progressista globale che molte altre città stanno attualmente perseguendo. Le città coreane hanno incluso lo sviluppo di questi concetti nelle proprie agende, ma restano grandi sfide, soprattutto in termini di accesso ad alloggi di qualità, il rafforzamento della vita pubblica attraverso spazi pubblici dinamici e accoglienti, con una transizione verso ambienti di lavoro più sani e l’assimilazione responsabile dei sistemi digitali nella vita urbana quotidiana. Questa pandemia ha rivelato che le quarantene e l’isolamento non sono un fenomeno nuovo poiché il nostro attuale paradigma di vita urbana ha prodotto un isolamento sistematico.
Tuttavia, il K-urbanism, ovvero l’approccio urbanista coreano, lungi dall’essere perfetto, arriva a dimostrare che è possibile co-creare un modello per il miglioramento della qualità della vita urbana declinandola secondo le esigenze locali, puntando alla competitività, sostenibilità e uguaglianza.
Ciò si è dimostrato efficace durante la pandemia fornendo zone abitative completamente attrezzate con servizi fisici e digitali per far fronte alla sicurezza sociale, riducendo l’esposizione al virus senza interrompere la routine quotidiana dei lavoratori, degli studenti, degli anziani, etc.
Il filosofo Byong Chul-han suggerisce che la crisi attuale sarà superata solo quando la vita attiva incorporerà nuovamente la vita contemplativa (Han 2017). In altre parole, è fondamentale riutilizzare il nostro tempo per un’analisi critica delle circostanze attuali, identificando come le nostre città possano integrare questi cambiamenti per far fronte non solo alla pandemia Covid-19, ma anche ad altre importanti questioni ambientali e sociali che non possono essere rimandate. Le sfide future richiederanno azioni decisive basate su una profonda revisione di ciò che consideriamo veramente prezioso come specie urbana, ma soprattutto, richiederanno che l’architettura e la pianificazione urbanistica superino il limite della polarizzazione politica che distoglie l’attenzione dagli obiettivi principali, e che si assumino nuovamente la responsabilità per la sicurezza delle persone e il loro benessere.


Bibliografia
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