Interrogarsi sul progetto architettonico e urbano durante la pandemia

Carlo Quintelli, Marco Maretto, Enrico Prandi, Carlo Gandolfi




Questa call ha l’obiettivo di sollecitare la riflessione critica e propositiva da parte della cultura architettonica, ed in particolare quella del progetto architettonico e urbano, sui fenomeni innescati dalla pandemia da Coronavirus la quale, mentre scriviamo questo testo (18 aprile 2020 in lockdown), ci vede ancora in una fase di emergenza ma rivolti ad un domani per il quale già da ora si sta sviluppando un variegato immaginario di scenari e prospettive. Un contributo che per altro vorrebbe compensare la marginalità non del tutto giustificata delle nostre competenze rispetto ad altre oggi assai più chiamate a dare risposte, non solo per l’immediato, tra settori bio-medici e farmacologici, nuove tecnologie di supporto, economia e comportamento sociale. Il problema Coronavirus quale fattore pandemico di Covid-19 che ne consegue, o meglio un quadro di fenomeni che sono effetto ma anche causa di quel problema, da affrontare sempre più nell’ottica globale senza dimenticare di trovare non minori risposte nella dimensione locale, sicuramente coinvolge aspetti collegati e fortemente incidenti sulle logiche insediative e dell’abitare lo spazio costruito così come di natura sociale, ambientale ed in particolare climatica. L’apporto delle forme architettoniche e urbane non sarà di poco conto quindi nel contribuire ad una efficace risposta al problema pandemico, da intendersi in un’accezione non solo circoscritta al dato della salute. E questo se sapremo proporre modelli nuovi o forse ritrovati, tra futuribile e tradizione storica, attraverso un processo di circostanziata critica alla dinamica neo-liberista di intendere la città e la sua architettura, in generale tutto il territorio, nel delicato rapporto tra antropizzazione e natura. Si tratta allora di comprendere, ricercare ed elaborare strategie insediative, modalità delle relazioni e quindi dei flussi, assetti e forme urbane, nuove tipologie dalla cellula abitativa agli spazi e alle strutture collettive, e così via secondo una logica multiscalare in grado di incentivare la sistematicità e l’aderenza critica alla realtà delle cose del progetto quali presupposti ad una sua efficacia, sia rispetto all’emergenza prossima ventura (che diamo per scontata) che ad un miglioramento complessivo della vita urbana a prescindere, all’interno di una riformata ʻnormalitàʼ.

Se si considera lo spazio quale materia prima del progetto architettonico e urbano, la cui definizione in forma più o meno compiuta ha in gran parte contraddistinto l’identità materiale e l’espressione civile dei processi sociali, ci possiamo da subito domandare se la pervasività e la forza dell’incidente storico della pandemia da Coronavirus possa, o forse meglio debba, aprire una nuova fase nella concezione dello spazio abitato a tutte le scale e in tutti i contesti della geografia globale. La questione può essere quindi riconosciuta in termini epocali, cioè secondo una prospettiva di significativo se non radicale cambiamento? Questo il primo interrogativo, non retorico, a cui dare risposta.
D’altra parte è fuori di dubbio che il fenomeno della pandemia, già ieri, ancora oggi non meno che domani, si inquadra all’interno di criticità planetarie evidenti e con pesanti ricadute negative per le realtà locali: sui piani sociale, economico, ambientale, climatico a cui fa da sfondo un trend di crescita demografica incontrollata in molte parti del pianeta. Non meno incontrollato è il rapporto tra antropizzazione e logiche insediative, secondo un uso dello spazio più corrispondente all’opportunismo dello sfruttamento, sotto le sue diverse forme, che al soddisfacimento dei bisogni primari dell’intera popolazione intesa nelle sue differenti articolazioni culturali e di identità civile.
La questione dello spazio prossimo venturo su cui vorremmo interrogarci si colloca quindi all’interno di un quadro fenomenologico molto vasto, le cui contraddizioni si evidenziano proprio attraverso l’emergere del virus, che da una parte ci rivela, se ce ne fosse bisogno, il corollario di condizioni critiche di cui la pandemia è soprattutto effetto piuttosto che causa, dall’altra ci porta su una dimensione così complessa e multifattoriale dove, bisogna ammetterlo, non è facile delineare e dare effetto all’agire del progetto sul piano di una rinnovata razionalità.
Appare altresì evidente, in questo frangente innanzitutto sanitario capace di coinvolgere il nostro stesso corpo e i luoghi in cui vive, ma anche di determinare reazioni e liberare energie, ormai possiamo dire da parte dell’intero genere umano, che la scienza architettonica e urbana, in quanto applicata alla progettazione dello spazio abitato, sia percepita come laterale e accessoria, non figurando nel paniere delle competenze scientifiche chiamate a dare risposte a breve e a lungo termine quali quelle, ovviamente, epidemiologiche e sanitarie in genere, ma anche economiche, statistiche anziché socio-politiche e delle forme istituzionali, psicologiche, della comunicazione e non di meno delle nuove tecnologie e delle scienze ambientali che si misurano con il concetto pur inflazionato di sostenibilità. D’altra parte ciò risulta evidente non da ora solo se, ad esempio, riscontriamo la totale assenza di ʻarchitecture and urban spacesʼ all’interno dei topics di ricerca caratterizzanti la missione dell’ERC (European Research Council).
In realtà la scienza architettonica e urbana, e la strumentazione del progetto che le è intrinseca e fondamentale componente, concorre significativamente alla determinazione delle modalità insediative concentrate, di natura urbana, o diffuse, con il coinvolgimento dello spazio territoriale, quindi all’organizzazione dei comportamenti e delle funzioni sociali, al rapporto tra spazio antropizzato e spazio naturale, in generale alle forme di vita e quindi al benessere della popolazione. Una scienza, come dimostra la sua tradizione storica che a partire dalle critiche all’urbanesimo ottocentesco attraverso i modelli della modernità industriale e i nuovi standard di igiene pubblica della città, arriva sino alle sperimentazioni dell’abitare collettivo, del disurbanesimo anziché della riscoperta della dimensione tipo-morfologica e di vita della città storica. Un laboratorio ricco di apporti critici non meno che propositivi sulle modalità di organizzazione e messa in forma dello spazio costruito che pare aver perso il proprio ruolo sulla scena della progettualità pubblica in un’accezione indistinta da quella privata. E su questo dovrebbero scaturire ulteriori interrogativi, e forse un’autocritica, sulle cause di questa lateralità scientifica coltivata, tra le altre cause, attraverso la banalizzazione del mestiere o una pseudo-scientificità costruita a livello massmediatico che ad esempio promuove presunte sostenibilità ambientali, tra forestazioni urbane e boschi verticali, in realtà solo idonee a raccogliere il consenso più ingenuo.
Il progetto architettonico e urbano non può in questo frangente essere chiamato solo a ribadire l’auspicio generalizzato del cosiddetto ritorno alla ʻnormalitàʼ anziché ad una generica ʻripartenzaʼ, parole d’ordine queste che certo non aiutano ad analizzare e a fare qualche passo in avanti, tra consapevolezza ed autentico approfondimento critico, sugli indirizzi e sui criteri più adeguati a fronteggiare lo stato di criticità attuale ma soprattutto futuro e non solo in termini di rischio pandemico. 
Partendo quindi da un punto di vista non immedesimato e piuttosto mirato a comprendere la natura strutturale delle questioni aperte, si delineano numerosi ordini, distinti ma complementari del problema, da affrontare a partire dalla contingenza ʻCovid-19ʼ.

Il primo è quello della predisposizione di criteri e strumenti che le forme dello spazio antropizzato possono assumere per affrontare e rendersi il più possibile resistenti o meglio resilienti rispetto a fenomeni di questa natura, senza dimenticare altre cause di determinazione del rischio alla scala globale, a cominciare dal cambiamento climatico. È la dimensione di una architettura e di una città predisposta alla difesa e quindi in grado, a complemento di altri fattori organizzativi e di predisposizione funzionale e materiale, di far fronte all’emergenza riducendone gli effetti negativi e i costi sociali conseguenti. Spazi ed attrezzature urbane collettive, predisposizione e polifunzionalità di luoghi e architetture nella città, configurazione previdente degli alloggi e dei luoghi di lavoro progettati in grado di realizzare in modo sistemico la migliore risposta possibile alle emergenze che verranno. Una riflessione che non può che essere multiscalare, dall’architettura alla città, ma potremmo anche dire dall’interno all’esterno della condizione spaziale: dall’architettura dell’abitare che interessa noi tutti come utenti di spazi domestici che in questa situazione sono stati messi alla prova duramente e dove emerge il tema di un “existenzminimum” idoneo anche in condizioni di segregazione/quarantena, fino agli spazi della città anch’essi investiti da esigenze tipologicamente non previste, a cominciare dagli ospedali, ma anche dal commercio, dalle scuole, dai luoghi di lavoro, e dove il tema della predisposizione alla rapida trasformabilità della città in condizioni di emergenza può essere inserito tra le strategie del progetto da mettere a punto. In termini architettonici e spaziali (e non solo concettuali) si tratterebbe di valutare una sovversione tra pieni e vuoti, di alterazione temporanea delle densità di usi e popolazione degli spazi stessi. Ecco che il quartiere residenziale e il singolo alloggio non saranno più solo luoghi dell’abitare, ma anche luoghi di lavoro e sarà necessario riflettere sul cambio di gradiente riguardante le dotazioni dell’immediato ambito comunitario abitato.

Altri aspetti richiamano le cause profonde che generano il rischio pandemico (e non solo) a cui anche le forme insediative e i luoghi abitati e comunque antropizzati di fatto contribuiscono, come dimostra la genesi del Coronavirus non a caso sortito dalla metropoli di Wuhan e in potenza dai tanti urban village che costituiscono il volto marginale e degradato della città cinese (ma ne potremmo aggiungere anche altri del contesto occidentale). Un tema questo che da una parte evidenzia il problema delle criticità produttive e socio-abitative dei grandi agglomerati urbani, capaci di forte attrazione sia dal contesto globale che dalle aree rurali locali, secondo una complementarietà tra povertà e ricchezza funzionale al regime metropolitano ma a rischio di cortocircuito sociale anziché sanitario, dall’altra di un’antropizzazione diffusa ed aggressiva dello spazio naturale sia in chiave di speculazione insediativa ma soprattutto di sfruttamento produttivo (tra agricoltura ed allevamento animale) in grado di alterare equilibri ambientali e socioculturali, con forti ripercussioni anche sul problema dell’inurbamento incontrollato, avviandosi così un perverso sistema circolare di causa effetto. Rispetto a questi fenomeni, dai risvolti fortemente distopici, la struttura spaziale, le forme costruite e i regimi funzionali della città e del territorio dovrebbero tornare al centro dell’attenzione scientifica secondo l’ottica di una cultura della pianificazione planetaria ma aperta e capace di interpretare le tante diverse realtà dei contesti locali.

Dobbiamo per altro essere consapevoli che l’emergenza pandemica ha costretto il mondo a forzare situazioni tradizionalmente resistenti al cambiamento, a crearne di nuove, a rompere tutta una serie di assetti consuetudinari. Così sperimentando forme inedite, almeno in diversi contesti a partire da quello lavorativo, soprattutto attraverso l’uso delle tecnologie digitali caratterizzanti l’ICT (Information and Communications Technology). Grazie alla tecnologia è possibile lavorare a casa con i vantaggi delle ore guadagnate ai trasferimenti da poter destinare al tempo libero, allo sport, alla famiglia, spesso a vantaggio dell’economia domestica. Non trascurabili poi i vantaggi per l’ambiente in termini di emissioni inquinanti, o riguardo alla produttività aziendale e di servizio attraverso quello smart working che pare registrare, in certi settori, significativi risultati. Una prospettiva questa sorretta da un concetto di simultaneità, di compresenza, di “ubiquità virtuale”, tanto da far intravedere un “ritorno” a quelle condizioni di unitarietà, di totalità non-specializzata, tipica delle società pre-moderne. Condizioni di vita in cui i tempi e i luoghi delle attività quotidiane, potrebbero essere meno separate, ordinate, per categorie funzionali ma bensì per “valori di priorità” nella simultaneità della loro esperienza. Una scala del quotidiano secondo un’idea di “villaggio”, anziché di vicinato, strada o rione, che prevale su tutte le altre, che vede il ridursi radicale dei raggi quotidiani di spostamento a presupposto di un nuovo paradigma socio-insediativo in alternativa ai fenomeni dei quartieri dormitorio delle periferie urbane. Certamente limitando gli spostamenti, ma come farlo senza per altri versi intaccare l’assurda retorica dell’infinita libertà di spostamento? Quella che, se pensiamo, ha fatto proliferare un turismo low cost che da alcuni decenni sta determinando l’aggressione letale a città come Venezia, il traffico aereo di milioni di voli riempiti di trolley e persone e merci del qualsiasi e ovunque.

In questo scenario, alla scala architettonica emerge l’esigenza di ripensare gli spazi dell’abitare, tornando ad includervi quegli “spazi del lavoro” che la cultura moderna aveva espulso per almeno un secolo dalla casa (la bottega, il laboratorio, lo studio sono stati da sempre parte integrante dell’abitazione). Non a caso da tempo ormai tutte le strategie dell’e-commerce vanno in questa direzione, attraverso il progressivo utilizzo dei device, le consegne a domicilio (locker, delivering e pickup points, hub ecc.) e dove il marketing si orienta verso strategie multi-tasking e multi-purpose in cui lo spazio pubblico urbano è il luogo dell’ibridazione dell’esperienza, tra shopping, leisure, tempo libero, servizi. Un sistema di comportamenti urbani, individuali e collettivi, non privo tuttavia di risvolti contraddittori ed inquietanti, legati all’idea di un cittadino innanzitutto consumatore e di una, bio-politicamente intesa, ʻamazonizzazioneʼ delle forme di vita in cui lo spazio domestico, in certe condizioni, assume la dimensione coatta e alienante di una socializzazione solo virtuale e regimata dai device tecnologici. E dove si prospetta una ridefinizione del limen tra categorie semanticamente fraintese come necessario, urgente, indispensabile, utile, superfluo, routinario, tutte drogate nel loro portato concettuale, contenutistico e operativo dai modelli dell’induzione consumistica di matrice neo-liberista.
Non meno coinvolti in questo immaginario gli spazi collettivi in cui vivere ʻcollaborativamenteʼ l’esperienza della città in particolare sul piano abitativo e del lavoro, della sostenibilità ambientale (contenimento e produzione energetica, raccolta dei rifiuti, gestione della risorsa dell’acqua ecc. ecc.) ma anche di una morfologia urbana pensata per un nuovo senso di comunità e di rivalutazione dello spazio-tempo nel presente.
In ogni caso, aldilà delle formule adottabili, non ci sono più giustificazioni per la crescita incontrollata degli insediamenti umani sul territorio, non c’è più spazio per la cosiddetta ‘città informale’. Certo la città, come la società, dell’Information and Communications Technology potrebbe essere la più libera, la più adattabile, la più efficiente (e forse la più ricca) solo se rinuncerà, a priori, ad alcuni gradi di (presunta) libertà incondizionata, quelli che le pratiche di certo capitalismo hanno portato verso criticità incontrollabili in diversi ambiti e non meno in quello dello sviluppo insediativo.

Ma come poter ridefinire in termini di prossemica spaziale un’idea di città animata da effetti comunitari e al tempo stesso capace di produrre individualità protette ma partecipi? Per esemplificare, come se il carattere aggregativo che troviamo insito nell’orizzontalità perimetrata degli spazi collettivi di matrice storica possa essere sovvertito da inspessimenti architettonici che vedano profonde logge abitabili contornare (e proteggere al tempo stesso) i perimetri dei volumi edificati, e il contatto visivo tra persone e nuclei famigliari che popolano questi spazi di transizione possa generare nuovi modi di relazione (solo abitando di giorno l’appartamento in una città si ha l’opportunità di vedere, ovvero conoscere visivamente e dialogare con la comunità che si affaccia sulla strada, sulla corte, sullo slargo, scambiando opinioni, consigli, impressioni, ascoltando da un lato il silenzio della città e, dall’altro, esperendo le nuove abitudini degli abitanti). Si prefigurano così nuove tipologie ma anche nuove figure dell’architettura e della scena urbana, nuovo paesaggio.

In questa multipla visione del problema, così come emerge dal fenomeno “Covid-19”, diventa però necessario superare i luoghi comuni concettuali che investono non da oggi l’architettura e la città per individuare a fondo i possibili temi su cui incentrare alternative reali e capaci di incidere su entrambi gli ordini e i tempi del problema, considerandoli come parte di un unico processo il più possibile coerente, di natura olistica, di costruzione paziente, attraverso una dialettica in cui conoscenza e progetto siano alla base di un avanzamento logico progettuale non modellistico.
L’obiettivo di questo invito, a partire da alcuni ragionamenti finalizzati solo a suscitare interesse in coloro a cui è rivolto, è quello di realizzare un primo corollario di analisi propositive che apra e solleciti la definizione di una prospettiva chiara e ineludibile del contributo della progettazione architettonica e urbana il più possibile trasmissibile e generalizzabile, pur nelle declinazioni che le condizioni locali del mondo globale potranno mettere positivamente in campo.
Cosa dobbiamo imparare da questa situazione di emergenza e da ciò che è sottinteso? Quali aspetti di inadeguatezza ha mostrato l’architettura e la città in questa situazione? Quali temi e obiettivi andranno individuati e che tipi di strategie del progetto dovranno essere sviluppate secondo prospettive di breve, medio e lungo termine?

Carlo Quintelli, Marco Maretto, Enrico Prandi, Carlo Gandolfi
Coordinamento ICAR 14 - UNIPR




Un resoconto critico
Enrico Prandi

Con questo numero doppio (il più corposo di sempre) FAM ha voluto offrire alla comunità scientifica del progetto architettonico e urbano un luogo di raccolta delle moltissime riflessioni che la situazione eccezionale di lockdown ha provocato in molti (forse tutti) gli studiosi di architettura. Per nostra formazione professionale, infatti, siamo soliti analizzare situazioni per proporre soluzioni.
Come si è potuto constatare molti architetti si sono esposti attraverso i diversi media disponibili e hanno rappresentato forse un’alternativa al dibattito sul Covid-19 secondo solo a quello dei medici (virologi ed epidemiologi) e dei politici. In quel periodo di concitata iniziativa si sono viste moltissime proposte (dalle più visionarie alle più elementari) ma soprattutto esternate ai limiti dell’etica professionale e deontologica.
Dal canto nostro, nella convinzione che il corpus disciplinare del progetto architettonico e urbano avesse molto da proporre, ci siamo adoperati nella ideazione della call for papers internazionale, la più ampia possibile in termini di accoglimento delle proposte fatta salva la centralità del punto di vista del progetto architettonico e urbano.
Cosicché, le proposte giunte in redazione sono state moltissime; oltre centotrenta abstract da tutto il mondo. Un risultato notevole se si considera la concomitanza di decine e decine di iniziative che le riviste o le comunità scientifiche hanno offerto alla riflessione degli architetti. Di tutti gli abstract, la stragrande maggioranza di livello molto alto e di sicura qualità scientifica.
La selezione degli articoli (nel frattempo aumentati da venti ad oltre trenta per dare voce a più ricercatori) è stata fatta seguendo il criterio della maggior attinenza ai temi offerti dalla call con una propensione a quelli che presentassero quesiti (e relative soluzioni) utili all’interno della disciplina. Inoltre è stata seguita una suddivisione per blocchi tematici (o articolazione di temi) che ha consentito l’ordinamento dei contributi (a tutto vantaggio della restituzione critica).
La selezione è sempre una operazione difficile, a volte spiacevole, ma necessaria anche ai fini della trasmissibilità dei contenuti e della coerenza con l’obiettivo culturale che si siamo dati.
Gli articoli selezionati sono stati sottoposti successivamente alla procedura di double blind peer review mettendo in campo per la prima volta un numero considerevole di revisori dell’albo a cui va il mio ringraziamento.

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Sul finale del testo della call (precedentemente riportato) alcune domande riassumevano il carattere operativo della chiamata a raccolta degli studiosi rispetto alla situazione vissuta1.
Tutti gli articoli, infatti, hanno risposto direttamente o indirettamente analizzando il problema e riflettendo sulle possibili azioni correttive progettuali necessarie ad attenuarlo se non risolverlo completamente o parzialmente.
Benché gli articoli siano ampi nella trattazione, ci è parso utile individuare dei caratteri di prevalenza dei contenuti al fine di accompagnare il lettore nella diversità delle soluzioni.
I trenta articoli selezionati, infatti sono stati ordinati e raggruppati per blocchi tematici rispondenti ognuno ad un carattere.

1. Sull’abitare
Il primo blocco tematico racchiude gli articoli che hanno proposto riflessioni/soluzioni sull’abitare ed in particolare sull’ambiente domestico. Sono articoli che a partire dalla condizione, spesso vissuta direttamente o vista e compresa, propongono soluzioni legate allo spazio primario.
Il primo dei concetti che è emerso è quello della flessibilità dello spazio della casa, ossia la considerazione che fosse possibile distributivamente garantire una certa autonomia funzionale nell’utilizzabilità dello spazio senza caratterizzarlo fortemente ed in maniera rigida. Massimo Zammerini sviluppa una soluzione che a partire da alcuni esempi concreti individua degli spazi adattabili sostanzialmente a diverse funzioni quali il lavoro, lo sport, l’ospitalità, ma anche alla vita autonoma nel caso dei primi moti di indipendenza familiare dei figli a cui corrispondono altrettante casistiche. Chiaramente il discorso si complica mano a mano che l’idea della stanza/spazio flessibile interagisce con le diverse tipologie edilizie: dalla più libera in termini di organizzazione nello spazio (la casa unifamiliare) alla più vincolata nel caso della casa pluripiano a schiera.
Sullo stesso piano può essere considerato l’articolo di Giorgio Gasco e Ferruccio Resta che individuano il sofa quale spazio interessante, di soglia dell’abitazione tradizionale turca, da introdurre nella casa contemporanea. Seguendo gli studi del dopoguerra di Sedad Hakki Eldem riportano alcune loro sperimentazioni portate avanti presso la Bilkent University di Ankara volte a dimostrare come il sofa turco possa essere anche un venturiano “dispositivo di inflessione compositiva”.
Ottavio Amaro, riflettendo sulla possibilità prevalentemente trasformativa dell’azione progettuale, considera la casa come nuova centralità in cui espletare le diverse funzioni necessarie e ritrovare il valore primario della protezione. Un microcosmo domestico che introiettando la città si propone come officina.
Se nella visione di Amaro la casa è e rimane comunque fatto tangibile, reale, che si riappropria della sua originaria funzione di dar forma ai bisogni dell’uomo anche attraverso l’immaginario archetipico, la prospettiva di M.G. Nicolosi, all’opposto e in analogia ad una certa cultura cyborg, si interroga sulla casa come spazio del non reale, del simulato: ciò porta a considerare nuove forme architettoniche che aderiscono meglio alla fisionomia dell’uomo (annullandone ogni possibilità di espressione artistica in nome dell’espressione tecno-scientifica) come capsule, gusci o case-corpo. L’articolo diviene un interessante rassegna sulle sperimentazioni condotte attorno al concetto di architettura virtuale che il Covid-19 ha contribuito a mettere in crisi esaltandone i limiti rispetto all’uomo.  
Mentre attorno al singolo uomo e alla costruzione del proprio spazio abitativo minimo – One Person House –, ruota la riflessione di Alberto Bologna e Marco Trisciuoglio che trasformano la situazione contestuale vissuta in una sollecitazione didattica attraverso la quale gli studenti di architettura sperimentano quattro esercizi progettuali di “research by design”. Essi sono sostanzialmente basati sull’analogia tra uomo e architettura dalla quale riprendono gli elementi da progettare.
Antonino Margagliotta e Paolo De Marco, auspicano una liberazione della casa per riportarla allo spirito di necessità, all’aspirazione etica ed estetica dell’essenzialità. Un tipo di casa che immaginano collocata nell’abitare condiviso, così come l’architettura moderna ci ha indicato dall’Unité corbusieriana al Social Housing. Il vero principio al quale affidarsi nella progettazione, in analogia a quanto accade per i disabili, è quello dell’adattabilità: una predisposizione alle diverse mansioni da svolgere nella casa attuale inclusi lo studio e il lavoro.

2. Sul binomio Abitare/lavorare
Proprio su questo aspetto, la configurazione dello spazio destinato allo svolgimento del lavoro in casa, è dedicato il secondo blocco tematico, che possiamo considerare un’estensione del precedente. Non c’è dubbio che la condizione pandemica vissuta abbia interessato in diversi modi il rapporto tra abitazione e luoghi del lavoro. Un aspetto in particolare riguarda la possibilità, resa immaginabile dall’apertura nei confronti del lavoro a distanza, secondo l’accezione in remoto dello smart working, di coniugare le due categorie dell’abitare e del lavorare in un unico spazio (quello domestico).
Nel primo articolo l’autore, Marianna Charitonidou, riprende gli studi dell’architetto greco Takis Zenetos, che negli anni Settanta ha proiettato la rivoluzione informatica sulla casa e la città del futuro, studiandone ed anticipandone le ripercussioni. In particolare viene ripresa l’idea di casa ottimizzata alle condizioni del tele-lavoro (individual living unit) all’interno del quale Zenetos progetta un arredamento multifunzionale ed una “sedia posturale”, intesa come estensione del corpo umano.
Il secondo articolo a firma di Edoardo Marchese e Noemi Ciarniello, utilizza le categorie del produrre e del riprodurre all’interno delle quali si collocano metaforicamente la riflessione sullo spazio dell’abitare. Non vi è dubbio che la produzione (il lavoro) abbia subito durante la pandemia un processo di domesticizzazione: richiamando il concetto sennettiano di porosità i due autori, però, allargano la riflessione alla tipologia dell’abitare suggerendo la collettivizzazione e la condivisione di funzioni che ottimizzerebbero la vita umana tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo.
Roberta Gironi sposta la riflessione dall’abitazione al paesaggio degli spazi del lavoro, rilevando come già da tempo essi siano evoluti dal posto fisso compartimentato verso lo spazio aperto e multifunzionale. Inoltre, proseguendo l’evoluzione, l’autore arriva a concepire la sede degli uffici come un nuovo hub relazionale reso possibile dallo spostamento della produzione nelle case. Questo concetto, mutuato dalla flipped classroom, permette di ridefinire in analogia un nuovo flipped workspace formulato sul riconoscimento di differenti stili lavorativi (comunicazione, concentrazione, contemplazione, collaborazione) che conducono a proporre ambienti articolati secondo differenti finalità (brainstorming, presentation, focus, relax, socializing, etc).

3. Tra edificio e città: lo spazio delle relazioni
Il terzo blocco tematico tratta nello specifico dello spazio delle relazioni, diversamente definito nella letteratura architettonica anche come spazio intermedio, neutro, soglia, in between, infra, ecc.
Giovanni Comi, incentra la propria riflessione attorno allo spazio vuoto tra edificio e città, lo spazio delle relazioni troppe volte sottovalutato (e negato) a favore del rendimento economico. L’incipit è la differenza tra abitabile ed inabitabile che porta l’autore a sottolineare l’importanza degli elementi architettonici intermedi (soglia, portico, coperto) a differenza di certi spazi della città contemporanea che sarebbero inabitabili per l’incapacità di saper abitare ancor prima di saper costruire.
Claudia Sansò e Roberta Esposito utilizzano il potenziale rappresentativo del montaggio per dimostrare attraverso visioni distopiche come durante la pandemia si sia verificata l’inversione tra il pieno della città divenuto vuoto e il vuoto dello spazio interno divenuto pieno. Tra il deserto urbano e il sogno domestico si impone lo spazio della soglia costituita dalla finestra d’autore (il fotogramma del film) da far reagire con quadri d’autore. 
Paola Scala e Grazia Pota, attraverso il concetto di luogo elastico (un luogo pensato per favorire la costruzione di reti sociali ma anche capace di reagire in caso di emergenza diventando spazi attrezzati) propongono una scala di progetto intermedio che parte dalle esperienze di Chermayeff e Alexander sulla relazione tra spazio pubblico e spazio privato.

4. Alla scala dell’insediamento: progettare la città contemporanea
Uscendo dal microcosmo abitativo, entrando nel macrocosmo urbano incontriamo il quarto blocco tematico che affronta la questione della progettazione della città contemporanea, della sua forma alla luce della recente esperienza vissuta. Inutile dire che gli articoli qui sotto analizzati contengono una aspra critica alla città così come si è venuta consolidando negli ultimi anni e che ha mostrato nel periodo della pandemia i propri limiti funzionali.
Una città senza forma e senza limiti, cresciuta nel tempo per aggiunte di nuclei che continuano a gravitare sul centro principale. Così che Antonello Russo nel suo articolo propone un’idea di espansione della città per nuclei in cui sia possibile simultaneamente l’atto del Densificare a livello architettonico e del Diradare a livello urbano. Ne deriva una composizione per arcipelaghi e isole, ossia insediamenti distinti ma tra loro interconnessi, che traggono origine dalla sperimentazione sul quartiere, dalla Città orizzontale alla Città in estensione fino alle più recenti riprese sperimentali.
René Soleti ripropone le teorie di Samonà – rilette attraverso i progetti del suo allievo Polesello su Venezia – individuando nella categoria del vuoto architettonico lo strumento per riprogettare la città post-Covid-19: il vuoto è infatti elemento organizzativo, strumento di misura e di equilibrio dinamico. Al di la dell’indiscusso valore “compositivo” di questa metodica, progettare con il vuoto diviene anche l’occasione per ri-strutturare i luoghi e le parti di città.
Pascal Federico Cassaro, Flavia Magliacani, pongono l’accento sulle potenzialità rigenerative del tessuto urbano e individuano nell’isolato europeo (e in tutti gli studi, per lo più francesi, volti a valorizzarlo ed attualizzarlo) l’entità spaziale con la quale perseguire la progettazione della città post-Covid-19. L’isolato o un suo multiplo, l’îlot o il macrolots, possibile l’abitare collettivo in condizioni di multifunzionalità (intendendo con ciò anche il soddisfacimento delle esigenze sportive, del benessere e del tempo libero) e sostenibilità energetica e ambientale. Una sorta di città nella città definita dal perimetro delle vie pubbliche che si rifà all’intervento in Schützenstraße a Berlino di Aldo Rossi.
Analogamente, nel suo articolo Giuseppe Verterame si rifà al macroisolato inteso come prototipo spaziale che, a partire dall’invariante tipo-morfologica dell’isolato, migliora la qualità dell’abitare per mezzo di operazioni compositive nella dialettica tra costruito e spazio aperto, nel contesto di nuove funzioni primarie, servizi di prossimità e di miglioramento degli standard di sostenibilità ambientale. In questi termini il macroisolato contribuisce a realizzare una struttura insediativa dove la continuità del tessuto è definita da parti autonome compiute che si relazionano reciprocamente secondo diversi gradi di complementarietà.
L’articolo di Li Bao e Die Hu, fa il punto sulle criticità che hanno interessato la città cinese durante la pandemia e propongono una serie di proposte che coinvolgono tre ambiti progettuali distinti (urbano, architettonico e comunitario) in grado di garantire in futuro una risposta ancora migliore alla situazione pandemica.
L’articolo di Ken Fallas ed Ekaterina Kochetkova indica la resilienza della città coreana come modello di intervento nei confronti del Covid-19. La situazione di isolamento dell’uomo moderno e la disuguaglianza sociale descritte nel recente film Parasite vengono sconfessate a favore di un approccio urbanistico globale definito K-urbanism basato sull’utilizzo della tecnologia ma incentrata sull’uomo. Si tratta di un tipo di approccio reso possibile da un’infrastrutturazione informatica capillare e da un modello urbano diverso da quello europeo.

5. Il ruolo dello spazio pubblico
Il quinto blocco tematico riguarda la relazione ed il ruolo svolto dallo spazio pubblico nel funzionamento della città. In generale, le riflessioni e l’approccio progettuale qui raccolti sono di ambito più gestionale-amministrativo e legato spesso a metodologie di progettazione partecipata, condivisa e cooperativa che include anche la rivendicazione e il conseguente riuso anche temporaneo degli spazi abbandonati. È interessante notare come i tre approcci presentati abbiano una genesi differente, la Progettazione urbana, l’Architettura cooperativa e l’Urbanistica tattica, nonostante convergano sugli obiettivi e sulle soluzioni.
Proprio su riuso temporaneo degli spazi abbandonati insiste l’articolo di Nicola Marzot, che presenta dopo un’articolata spiegazione analitica, l’esperienza dell’Ex Scalo Ravone a Bologna, un luogo simbolo della rivendicazione degli spazi in disuso, oggetto di una specifica esplorazione verso soluzioni di utilizzo inedite da inserire nella pianificazione attuativa regionale. Uno spazio pubblico che si ripropone attraverso i molteplici usi possibili e compatibili anche come luogo di ricostruzione del senso di comunità.
Similmente al precedente articolo anche Riccarda Cappeller propone di utilizzare in maniera nuova secondo usi non originariamente previsti luoghi di un passato storico importante della città al fine di coinvolgere la cittadinanza in processi di partecipazione e riappropriazione attiva. Non solo il riutilizzo ma il considerare gli spazi e le architetture come “aperti al cambiamento continuo” aperti alla modernizzazione. Alla base degli interventi proposti ci sta l’idea dell’Architettura cooperativa intesa come co-creazione di luoghi, spazi e opportunità d’uso.
Fabrizia Berlingieri e Manuela Triggianese, propongono una strategia di riappropriazione di aree pubbliche residuali finalizzate ad una migliore capacità di adattamento al rischio tramite metodiche tipiche della cosiddetta Urbanistica tattica. Si tratta di interventi a basso costo effettuati mediante e con il coinvolgimento della cittadinanza attiva (creazioni di piste ciclabili, riqualificazione di piazze e riappropriazione di spazi residuali). Vengono portati come esempio diversi interventi sulle città di Milano e Rotterdam.

6. La cultura progettuale in relazione alla Pandemia
Il sesto blocco tematico racchiude articoli che affrontano la questione della cultura progettuale in relazione alla Pandemia. In particolare due articoli sottolineano un rinnovato interesse nei confronti della prossemica, una disciplina che potrebbe aiutare la progettazione architettonica e gli architetti – lo stesso Eco nella prefazione alla pubblicazione del libro di Hall in Italia si rivolge soprattutto a loro – affrontando specificatamente il rapporto dello spazio e del corpo. Si delinea così una città flessibile, elastica, che possa avere anziché un unico centro sul quale gravitano le parti esterne, molti centri autonomi.
Luca Reale, nel suo articolo propone di ripartire dai ‘corpi nello spazio’ piuttosto che dalla ‘città come corpo’ (malato e bisognoso di rigenerazione). Oltre le considerazioni generali sullo spazio domestico l’autore immagina un nuovo equilibrio tra città e salute pubblica che confuterebbe la tendenza alla densificazione, a favore di una rinascita del quartiere (magari rivalutando l’esperienza INA-Casa) e al suo utilizzo pedonale.
Nell’articolo di Anna Veronese la prossemica viene proposta come specifico strumento di progetto utile a ripensare gli spazi “a scala umana”. Vengono così ricordate le quattro sfere di distanziamento (intima, personale, sociale e pubblica) attraverso le quali immaginare rispettive scale di strutturazione della città. Un concetto quello della misura della distanza che nel caso dell’uso è alla base del progetto de La ville du quart d’heure studiata da Carlos Moreno – l’esperto di Smart City della Sorbona – nell’ambito del programma per la rielezione del sindaco di Parigi Anne Hidalgo.
Attraverso il paradigma della zattera tramite la quale l’umanità dovrebbe salvarsi, secondo il pensiero di Richard Neutra in Progettare per sopravvivere, Elisabetta Canepa e Valeria Guerrisi propongono una rassegna delle principali riviste italiane di architettura durante le grandi crisi sanitarie del XX e XXI secolo alla ricerca di come la cultura progettuale ha reagito nell’occasione delle precedenti pandemie (Spagnola, Asiatica, febbre di Hong Kong, Suina). L’esito rileva come indipendentemente dall’ampiezza dei contagi è l’amplificazione mediatica che crea le basi per l’intervento sulle riviste che la maggior parte delle volte affronta il problema urbano in termini di vivibilità e della conseguente accessibilità, nonché del pericolo dell’alta densità.

7. Il paradigma della cura della città
Il settimo blocco tematico racchiude articoli che ricorrono al paradigma geddesiano della cura. La città è vista come organismo malato e come tale bisognoso di cure: è superfluo sottolineare come in questo caso la condizione che ha generato le problematiche anche urbane, ossia il problema medico sanitario, ha finito per trasferirsi in un anomalo salto di specie anche alla città e all’architettura mutuando dalla prassi medica lo schema della diagnosi/cura. In particolare l’articolo di Alessandro Oltremarini insiste sulle caratteristiche della cura intersecandole con quelle della misura: se la cura è attenta alle relazioni plurali tra parti diverse e il loro continuo mutamento di significato, essa riconosce  il carattere di necessità che appartiene alla misura, sia delle “cose” che delle relazioni tra esse.
La cura della città, – ma anche il prendersene cura secondo il termine inglese ʻcareʼ – nel punto di vista dell’Architettura del Paesaggio è il contenuto dell’articolo di Sara Protasoni all’interno del quale è necessario individuare un nuovo equilibrio tra Architettura e Natura. Ad esempio di un approccio progettuale di questo tipo, l‘autore porta, descrivendola, l’opera di tre architetti: Mitte, Figini e Porcinai.
Silvana Segapeli rilegge ed applica all’attualità gran parte della lezione geddesiana delineando in quattro punti specifici il concetto di cura applicato alla progettazione. è l’articolo che maggiormente riprende le teorie di Geddes al quale rimandiamo per una trattazione esaustiva

Non mancano alcuni articoli che si pongono a difesa della città e al contrario a difesa della vita suburbana soprattutto nei borghi abbandonati/sottoabitati. Di quest’ultima tendenza è l’articolo di Enrico Bascherini il quale, aderendo al movimento più ampio e generale che da alcuni anni tende a valorizzare e riabitare le aree interne, individua i problemi (o i rischi) più grandi come quello del garantire a quei luoghi una rifondazione in termini comunitari che inneschi un ciclo temporale medio lungo. Condivido con l’autore quando sostiene che in questa riscoperta collettiva di essere comunità, può e deve nascere un sentimento in cui il sistema borgo può essere una scelta di vita sia sociale che economica ma non certo sostitutivo alla città.
In effetti, non solo della necessarietà della città, impossibile da sostituire, è convinto Costantino Patestos ma anche che la stessa non abbia mostrato grossi difetti nei confronti della pandemia. Essa dev’essere (a proposito del paradigma della cura) certamente curata, sostiene l’autore, ma non ricoverata. Contro gli speculatori della situazione, colpevoli di utilizzare la pandemia per rinfrescare soluzioni già superate, egli propone alcuni punti fermi disciplinari tra cui: difendere la città storica; contrastare le disuguaglianze; ridisegnare le periferie interne della città e promuovere un nuovo policentrismo territoriale; rivendicare la qualità dello spazio pubblico.

In finale, alcuni contributi su tematiche funzionali esterne all’ambito primario del vivere come quello di Laura Anna Pezzetti ed Helen Khanamiryan che si occupa dello spazio delle scuole oppure indagini sul cambiamento dei comportamenti urbani in Svezia analizzati da Ann Legeby e Daniel Koch.
Nel primo articolo le due autrici si soffermano sull’importanza dello spazio dell’apprendimendo e della sua attualizzazione sia rispetto a criteri funzionali avanzati (lo spazio come ʽterzo educatoreʼ) sia rispetto ad un utilizzo in condizioni di emergenza pandemica come si sta verificando tutt’ora2.
Ann Legeby e Daniel Koch, invece, attraverso questionari spediti alla popolazione di tre città svedesi (Stoccolma, Uppsala e Göteborg) durante la pandemia registrano le variazioni di comportamento consistenti in una maggior frequentazione dei servizi limitrofi ai luoghi di residenza nonchè parchi e spazi pubblici caratterizzati da ampi spazi aperti.

Note
1 Bisogna dire che a fronte di una tregua verificatasi nella stagione estiva, nel momento in cui scriviamo, 31 ottobre 2020 stiamo vivendo una situazione di pandemia di ritorno che crea almeno in Europa allarme (alcuni giorni fa la Francia è andata di nuovo in lockdown e la Gran Bretagna resiste pur avendo una situazione peggiore): verosimilmente ci si attende, dopo il primo provvedimento di chiusura parziale, un nuovo lockdown forse totale o quantomeno geograficamente circoscritto alle aree maggiormente colpite..
2 Nell’estate 2020 si è cercato di garantire la continuità didattica e la ripresa delle lezioni in presenza introducendo  misure specifiche di distanziamento nelle scuole. Attualmente sono svolte in presenza le lezioni delle Scuole Primarie e Secondarie. Le Scuole secondarie superiori, invece, svolgono lezioni in DAD.