Interrogarsi sul progetto architettonico e urbano
durante la pandemia
Carlo Quintelli, Marco
Maretto, Enrico Prandi, Carlo Gandolfi
Fig.
1 - Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474-1475.
National Gallery di Londra.
Questa call
ha
l’obiettivo di sollecitare la riflessione critica e
propositiva
da parte della cultura architettonica, ed in particolare quella del
progetto architettonico e urbano, sui fenomeni innescati dalla pandemia
da Coronavirus la quale, mentre scriviamo questo testo (18 aprile 2020
in lockdown),
ci vede ancora in una fase di emergenza ma rivolti ad un
domani per il quale già da ora si sta sviluppando un
variegato
immaginario di scenari e prospettive. Un contributo che per altro
vorrebbe compensare la marginalità non del tutto
giustificata
delle nostre competenze rispetto ad altre oggi assai più
chiamate a dare risposte, non solo per l’immediato, tra
settori
bio-medici e farmacologici, nuove tecnologie di supporto, economia e
comportamento sociale. Il problema Coronavirus quale fattore pandemico
di Covid-19 che ne consegue, o meglio un quadro di fenomeni che sono
effetto ma anche causa di quel problema, da affrontare sempre
più nell’ottica globale senza dimenticare di
trovare non
minori risposte nella dimensione locale, sicuramente coinvolge aspetti
collegati e fortemente incidenti sulle logiche insediative e
dell’abitare lo spazio costruito così come di
natura
sociale, ambientale ed in particolare climatica. L’apporto
delle
forme architettoniche e urbane non sarà di poco conto quindi
nel
contribuire ad una efficace risposta al problema pandemico, da
intendersi in un’accezione non solo circoscritta al dato
della
salute. E questo se sapremo proporre modelli nuovi o forse ritrovati,
tra futuribile e tradizione storica, attraverso un processo di
circostanziata critica alla dinamica neo-liberista di intendere la
città e la sua architettura, in generale tutto il
territorio,
nel delicato rapporto tra antropizzazione e natura. Si tratta allora di
comprendere, ricercare ed elaborare strategie insediative,
modalità delle relazioni e quindi dei flussi, assetti e
forme
urbane, nuove tipologie dalla cellula abitativa agli spazi e alle
strutture collettive, e così via secondo una logica
multiscalare
in grado di incentivare la sistematicità e
l’aderenza
critica alla realtà delle cose del progetto quali
presupposti ad
una sua efficacia, sia rispetto all’emergenza prossima
ventura
(che diamo per scontata) che ad un miglioramento complessivo della vita
urbana a prescindere, all’interno di una riformata
ʻnormalitàʼ.
Se si considera lo spazio quale materia prima del progetto
architettonico e urbano, la cui definizione in forma più o
meno
compiuta ha in gran parte contraddistinto
l’identità
materiale e l’espressione civile dei processi sociali, ci
possiamo da subito domandare se la pervasività e la forza
dell’incidente storico della pandemia da Coronavirus possa, o
forse meglio debba, aprire una nuova fase nella concezione dello spazio
abitato a tutte le scale e in tutti i contesti della geografia globale.
La questione può essere quindi riconosciuta in termini
epocali,
cioè secondo una prospettiva di significativo se non
radicale
cambiamento? Questo il primo interrogativo, non retorico, a cui dare
risposta.
D’altra parte è fuori di dubbio che il fenomeno
della
pandemia, già ieri, ancora oggi non meno che domani, si
inquadra
all’interno di criticità planetarie evidenti e con
pesanti
ricadute negative per le realtà locali: sui piani sociale,
economico, ambientale, climatico a cui fa da sfondo un trend di
crescita demografica incontrollata in molte parti del pianeta. Non meno
incontrollato è il rapporto tra antropizzazione e logiche
insediative, secondo un uso dello spazio più corrispondente
all’opportunismo dello sfruttamento, sotto le sue diverse
forme,
che al soddisfacimento dei bisogni primari dell’intera
popolazione intesa nelle sue differenti articolazioni culturali e di
identità civile.
La questione dello spazio prossimo venturo su cui vorremmo interrogarci
si colloca quindi all’interno di un quadro fenomenologico
molto
vasto, le cui contraddizioni si evidenziano proprio attraverso
l’emergere del virus, che da una parte ci rivela, se ce ne
fosse
bisogno, il corollario di condizioni critiche di cui la pandemia
è soprattutto effetto piuttosto che causa,
dall’altra ci
porta su una dimensione così complessa e multifattoriale
dove,
bisogna ammetterlo, non è facile delineare e dare effetto
all’agire del progetto sul piano di una rinnovata
razionalità.
Appare altresì evidente, in questo frangente innanzitutto
sanitario capace di coinvolgere il nostro stesso corpo e i luoghi in
cui vive, ma anche di determinare reazioni e liberare energie, ormai
possiamo dire da parte dell’intero genere umano, che la
scienza
architettonica e urbana, in quanto applicata alla progettazione dello
spazio abitato, sia percepita come laterale e accessoria, non figurando
nel paniere delle competenze scientifiche chiamate a dare risposte a
breve e a lungo termine quali quelle, ovviamente, epidemiologiche e
sanitarie in genere, ma anche economiche, statistiche
anziché
socio-politiche e delle forme istituzionali, psicologiche, della
comunicazione e non di meno delle nuove tecnologie e delle scienze
ambientali che si misurano con il concetto pur inflazionato di
sostenibilità. D’altra parte ciò
risulta evidente
non da ora solo se, ad esempio, riscontriamo la totale assenza di
ʻarchitecture and urban spacesʼ all’interno dei topics di
ricerca
caratterizzanti la missione dell’ERC (European Research
Council).
In realtà la scienza architettonica e urbana, e la
strumentazione del progetto che le è intrinseca e
fondamentale
componente, concorre significativamente alla determinazione delle
modalità insediative concentrate, di natura urbana, o
diffuse,
con il coinvolgimento dello spazio territoriale, quindi
all’organizzazione dei comportamenti e delle funzioni
sociali, al
rapporto tra spazio antropizzato e spazio naturale, in generale alle
forme di vita e quindi al benessere della popolazione. Una scienza,
come dimostra la sua tradizione storica che a partire dalle critiche
all’urbanesimo ottocentesco attraverso i modelli della
modernità industriale e i nuovi standard di igiene pubblica
della città, arriva sino alle sperimentazioni
dell’abitare
collettivo, del disurbanesimo anziché della riscoperta della
dimensione tipo-morfologica e di vita della città storica.
Un
laboratorio ricco di apporti critici non meno che propositivi sulle
modalità di organizzazione e messa in forma dello spazio
costruito che pare aver perso il proprio ruolo sulla scena della
progettualità pubblica in un’accezione indistinta
da
quella privata. E su questo dovrebbero scaturire ulteriori
interrogativi, e forse un’autocritica, sulle cause di questa
lateralità scientifica coltivata, tra le altre cause,
attraverso
la banalizzazione del mestiere o una pseudo-scientificità
costruita a livello massmediatico che ad esempio promuove presunte
sostenibilità ambientali, tra forestazioni urbane e boschi
verticali, in realtà solo idonee a raccogliere il consenso
più ingenuo.
Il progetto architettonico e urbano non può in questo
frangente
essere chiamato solo a ribadire l’auspicio generalizzato del
cosiddetto ritorno alla ʻnormalitàʼ anziché ad
una
generica ʻripartenzaʼ, parole d’ordine queste che certo non
aiutano ad analizzare e a fare qualche passo in avanti, tra
consapevolezza ed autentico approfondimento critico, sugli indirizzi e
sui criteri più adeguati a fronteggiare lo stato di
criticità attuale ma soprattutto futuro e non solo in
termini di
rischio pandemico.
Partendo quindi da un punto di vista non immedesimato e piuttosto
mirato a comprendere la natura strutturale delle questioni aperte, si
delineano numerosi ordini, distinti ma complementari del problema, da
affrontare a partire dalla contingenza ʻCovid-19ʼ.
Il primo è quello della predisposizione di criteri e
strumenti
che le forme dello spazio antropizzato possono assumere per affrontare
e rendersi il più possibile resistenti o meglio resilienti
rispetto a fenomeni di questa natura, senza dimenticare altre cause di
determinazione del rischio alla scala globale, a cominciare dal
cambiamento climatico. È la dimensione di una architettura e
di
una città predisposta alla difesa e quindi in grado, a
complemento di altri fattori organizzativi e di predisposizione
funzionale e materiale, di far fronte all’emergenza
riducendone
gli effetti negativi e i costi sociali conseguenti. Spazi ed
attrezzature urbane collettive, predisposizione e
polifunzionalità di luoghi e architetture nella
città,
configurazione previdente degli alloggi e dei luoghi di lavoro
progettati in grado di realizzare in modo sistemico la migliore
risposta possibile alle emergenze che verranno. Una riflessione che non
può che essere multiscalare, dall’architettura
alla
città, ma potremmo anche dire dall’interno
all’esterno della condizione spaziale:
dall’architettura
dell’abitare che interessa noi tutti come utenti di spazi
domestici che in questa situazione sono stati messi alla prova
duramente e dove emerge il tema di un
“existenzminimum”
idoneo anche in condizioni di segregazione/quarantena, fino agli spazi
della città anch’essi investiti da esigenze
tipologicamente non previste, a cominciare dagli ospedali, ma anche dal
commercio, dalle scuole, dai luoghi di lavoro, e dove il tema della
predisposizione alla rapida trasformabilità della
città
in condizioni di emergenza può essere inserito tra le
strategie
del progetto da mettere a punto. In termini architettonici e spaziali
(e non solo concettuali) si tratterebbe di valutare una sovversione tra
pieni e vuoti, di alterazione temporanea delle densità di
usi e
popolazione degli spazi stessi. Ecco che il quartiere residenziale e il
singolo alloggio non saranno più solo luoghi
dell’abitare,
ma anche luoghi di lavoro e sarà necessario riflettere sul
cambio di gradiente riguardante le dotazioni dell’immediato
ambito comunitario abitato.
Altri aspetti richiamano le cause profonde che generano il rischio
pandemico (e non solo) a cui anche le forme insediative e i luoghi
abitati e comunque antropizzati di fatto contribuiscono, come dimostra
la genesi del Coronavirus non a caso sortito dalla metropoli di Wuhan e
in potenza dai tanti urban village che costituiscono il volto marginale
e degradato della città cinese (ma ne potremmo aggiungere
anche
altri del contesto occidentale). Un tema questo che da una parte
evidenzia il problema delle criticità produttive e
socio-abitative dei grandi agglomerati urbani, capaci di forte
attrazione sia dal contesto globale che dalle aree rurali locali,
secondo una complementarietà tra povertà e
ricchezza
funzionale al regime metropolitano ma a rischio di cortocircuito
sociale anziché sanitario, dall’altra di
un’antropizzazione diffusa ed aggressiva dello spazio
naturale
sia in chiave di speculazione insediativa ma soprattutto di
sfruttamento produttivo (tra agricoltura ed allevamento animale) in
grado di alterare equilibri ambientali e socioculturali, con forti
ripercussioni anche sul problema dell’inurbamento
incontrollato,
avviandosi così un perverso sistema circolare di causa
effetto.
Rispetto a questi fenomeni, dai risvolti fortemente distopici, la
struttura spaziale, le forme costruite e i regimi funzionali della
città e del territorio dovrebbero tornare al centro
dell’attenzione scientifica secondo l’ottica di una
cultura
della pianificazione planetaria ma aperta e capace di interpretare le
tante diverse realtà dei contesti locali.
Dobbiamo per altro essere consapevoli che l’emergenza
pandemica
ha costretto il mondo a forzare situazioni tradizionalmente resistenti
al cambiamento, a crearne di nuove, a rompere tutta una serie di
assetti consuetudinari. Così sperimentando forme inedite,
almeno
in diversi contesti a partire da quello lavorativo, soprattutto
attraverso l’uso delle tecnologie digitali caratterizzanti
l’ICT (Information and Communications Technology). Grazie
alla
tecnologia è possibile lavorare a casa con i vantaggi delle
ore
guadagnate ai trasferimenti da poter destinare al tempo libero, allo
sport, alla famiglia, spesso a vantaggio dell’economia
domestica.
Non trascurabili poi i vantaggi per l’ambiente in termini di
emissioni inquinanti, o riguardo alla produttività aziendale
e
di servizio attraverso quello smart working che pare registrare, in
certi settori, significativi risultati. Una prospettiva questa sorretta
da un concetto di simultaneità, di compresenza, di
“ubiquità virtuale”, tanto da far
intravedere un
“ritorno” a quelle condizioni di
unitarietà, di
totalità non-specializzata, tipica delle società
pre-moderne. Condizioni di vita in cui i tempi e i luoghi delle
attività quotidiane, potrebbero essere meno separate,
ordinate,
per categorie funzionali ma bensì per “valori di
priorità” nella simultaneità della loro
esperienza.
Una scala del quotidiano secondo un’idea di
“villaggio”, anziché di vicinato, strada
o rione,
che prevale su tutte le altre, che vede il ridursi radicale dei raggi
quotidiani di spostamento a presupposto di un nuovo paradigma
socio-insediativo in alternativa ai fenomeni dei quartieri dormitorio
delle periferie urbane. Certamente limitando gli spostamenti, ma come
farlo senza per altri versi intaccare l’assurda retorica
dell’infinita libertà di spostamento? Quella che,
se
pensiamo, ha fatto proliferare un turismo low cost che da alcuni
decenni sta determinando l’aggressione letale a
città come
Venezia, il traffico aereo di milioni di voli riempiti di trolley e
persone e merci del qualsiasi e ovunque.
In questo scenario, alla scala architettonica emerge
l’esigenza
di ripensare gli spazi dell’abitare, tornando ad includervi
quegli “spazi del lavoro” che la cultura moderna
aveva
espulso per almeno un secolo dalla casa (la bottega, il laboratorio, lo
studio sono stati da sempre parte integrante
dell’abitazione).
Non a caso da tempo ormai tutte le strategie dell’e-commerce
vanno in questa direzione, attraverso il progressivo utilizzo dei
device, le consegne a domicilio (locker, delivering e pickup points,
hub ecc.) e dove il marketing si orienta verso strategie multi-tasking
e multi-purpose in cui lo spazio pubblico urbano è il luogo
dell’ibridazione dell’esperienza, tra shopping,
leisure,
tempo libero, servizi. Un sistema di comportamenti urbani, individuali
e collettivi, non privo tuttavia di risvolti contraddittori ed
inquietanti, legati all’idea di un cittadino innanzitutto
consumatore e di una, bio-politicamente intesa, ʻamazonizzazioneʼ delle
forme di vita in cui lo spazio domestico, in certe condizioni, assume
la dimensione coatta e alienante di una socializzazione solo virtuale e
regimata dai device tecnologici. E dove si prospetta una ridefinizione
del limen tra categorie semanticamente fraintese come necessario,
urgente, indispensabile, utile, superfluo, routinario, tutte drogate
nel loro portato concettuale, contenutistico e operativo dai modelli
dell’induzione consumistica di matrice neo-liberista.
Non meno coinvolti in questo immaginario gli spazi collettivi in cui
vivere ʻcollaborativamenteʼ l’esperienza della
città in
particolare sul piano abitativo e del lavoro, della
sostenibilità ambientale (contenimento e produzione
energetica,
raccolta dei rifiuti, gestione della risorsa dell’acqua ecc.
ecc.) ma anche di una morfologia urbana pensata per un nuovo senso di
comunità e di rivalutazione dello spazio-tempo nel presente.
In ogni caso, aldilà delle formule adottabili, non ci sono
più giustificazioni per la crescita incontrollata degli
insediamenti umani sul territorio, non c’è
più
spazio per la cosiddetta ‘città
informale’. Certo la
città, come la società,
dell’Information and
Communications Technology potrebbe essere la più libera, la
più adattabile, la più efficiente (e forse la
più
ricca) solo se rinuncerà, a priori, ad alcuni gradi di
(presunta) libertà incondizionata, quelli che le pratiche di
certo capitalismo hanno portato verso criticità
incontrollabili
in diversi ambiti e non meno in quello dello sviluppo insediativo.
Ma come poter ridefinire in termini di prossemica spaziale
un’idea di città animata da effetti comunitari e
al tempo
stesso capace di produrre individualità protette ma
partecipi?
Per esemplificare, come se il carattere aggregativo che troviamo insito
nell’orizzontalità perimetrata degli spazi
collettivi di
matrice storica possa essere sovvertito da inspessimenti architettonici
che vedano profonde logge abitabili contornare (e proteggere al tempo
stesso) i perimetri dei volumi edificati, e il contatto visivo tra
persone e nuclei famigliari che popolano questi spazi di transizione
possa generare nuovi modi di relazione (solo abitando di giorno
l’appartamento in una città si ha
l’opportunità di vedere, ovvero conoscere
visivamente e
dialogare con la comunità che si affaccia sulla strada,
sulla
corte, sullo slargo, scambiando opinioni, consigli, impressioni,
ascoltando da un lato il silenzio della città e,
dall’altro, esperendo le nuove abitudini degli abitanti). Si
prefigurano così nuove tipologie ma anche nuove figure
dell’architettura e della scena urbana, nuovo paesaggio.
In questa multipla visione del problema, così come emerge
dal
fenomeno “Covid-19”, diventa però
necessario
superare i luoghi comuni concettuali che investono non da oggi
l’architettura e la città per individuare a fondo
i
possibili temi su cui incentrare alternative reali e capaci di incidere
su entrambi gli ordini e i tempi del problema, considerandoli come
parte di un unico processo il più possibile coerente, di
natura
olistica, di costruzione paziente, attraverso una dialettica in cui
conoscenza e progetto siano alla base di un avanzamento logico
progettuale non modellistico.
L’obiettivo di questo invito, a partire da alcuni
ragionamenti
finalizzati solo a suscitare interesse in coloro a cui è
rivolto, è quello di realizzare un primo corollario di
analisi
propositive che apra e solleciti la definizione di una prospettiva
chiara e ineludibile del contributo della progettazione architettonica
e urbana il più possibile trasmissibile e generalizzabile,
pur
nelle declinazioni che le condizioni locali del mondo globale potranno
mettere positivamente in campo.
Cosa dobbiamo imparare da questa situazione di emergenza e da
ciò che è sottinteso? Quali aspetti di
inadeguatezza ha
mostrato l’architettura e la città in questa
situazione?
Quali temi e obiettivi andranno individuati e che tipi di strategie del
progetto dovranno essere sviluppate secondo prospettive di breve, medio
e lungo termine?
Carlo Quintelli, Marco Maretto, Enrico Prandi, Carlo Gandolfi
Coordinamento ICAR 14 - UNIPR
Un resoconto critico
Enrico Prandi
Con questo numero doppio (il più corposo di sempre) FAM ha
voluto offrire alla comunità scientifica del progetto
architettonico e urbano un luogo di raccolta delle moltissime
riflessioni che la situazione eccezionale di lockdown ha
provocato in
molti (forse tutti) gli studiosi di architettura. Per nostra formazione
professionale, infatti, siamo soliti analizzare situazioni per proporre
soluzioni.
Come si è potuto constatare molti architetti si sono esposti
attraverso i diversi media disponibili e hanno rappresentato forse
un’alternativa al dibattito sul Covid-19 secondo solo a
quello
dei medici (virologi ed epidemiologi) e dei politici. In quel periodo
di concitata iniziativa si sono viste moltissime proposte (dalle
più visionarie alle più elementari) ma
soprattutto
esternate ai limiti dell’etica professionale e deontologica.
Dal canto nostro, nella convinzione che il corpus disciplinare del
progetto architettonico e urbano avesse molto da proporre, ci siamo
adoperati nella ideazione della call for papers internazionale, la
più ampia possibile in termini di accoglimento delle
proposte
fatta salva la centralità del punto di vista del progetto
architettonico e urbano.
Cosicché, le proposte giunte in redazione sono state
moltissime;
oltre centotrenta abstract da tutto il mondo. Un risultato notevole se
si considera la concomitanza di decine e decine di iniziative che le
riviste o le comunità scientifiche hanno offerto alla
riflessione degli architetti. Di tutti gli abstract, la stragrande
maggioranza di livello molto alto e di sicura qualità
scientifica.
La selezione degli articoli (nel frattempo aumentati da venti ad oltre
trenta per dare voce a più ricercatori) è stata
fatta
seguendo il criterio della maggior attinenza ai temi offerti dalla call
con una propensione a quelli che presentassero quesiti (e relative
soluzioni) utili all’interno della disciplina. Inoltre
è
stata seguita una suddivisione per blocchi tematici (o articolazione di
temi) che ha consentito l’ordinamento dei contributi (a tutto
vantaggio della restituzione critica).
La selezione è sempre una operazione difficile, a volte
spiacevole, ma necessaria anche ai fini della
trasmissibilità
dei contenuti e della coerenza con l’obiettivo culturale che
si
siamo dati.
Gli articoli selezionati sono stati sottoposti successivamente alla
procedura di double blind peer review mettendo in campo per la prima
volta un numero considerevole di revisori dell’albo a cui va
il
mio ringraziamento.
* * *
Sul finale del testo della call (precedentemente riportato) alcune
domande riassumevano il carattere operativo della chiamata a raccolta
degli studiosi rispetto alla situazione vissuta1.
Tutti gli articoli, infatti, hanno risposto direttamente o
indirettamente analizzando il problema e riflettendo sulle possibili
azioni correttive progettuali necessarie ad attenuarlo se non
risolverlo completamente o parzialmente.
Benché gli articoli siano ampi nella trattazione, ci
è
parso utile individuare dei caratteri di prevalenza dei contenuti al
fine di accompagnare il lettore nella diversità delle
soluzioni.
I trenta articoli selezionati, infatti sono stati ordinati e
raggruppati per blocchi tematici rispondenti ognuno ad un carattere.
1. Sull’abitare
Il primo blocco tematico racchiude gli articoli che hanno proposto
riflessioni/soluzioni sull’abitare ed in particolare
sull’ambiente domestico. Sono articoli che a partire dalla
condizione, spesso vissuta direttamente o vista e compresa, propongono
soluzioni legate allo spazio primario.
Il primo dei concetti che è emerso è quello della
flessibilità dello spazio della casa, ossia la
considerazione
che fosse possibile distributivamente garantire una certa autonomia
funzionale nell’utilizzabilità dello spazio senza
caratterizzarlo fortemente ed in maniera rigida. Massimo Zammerini
sviluppa una soluzione che a partire da alcuni esempi concreti
individua degli spazi adattabili sostanzialmente a diverse funzioni
quali il lavoro, lo sport, l’ospitalità, ma anche
alla
vita autonoma nel caso dei primi moti di indipendenza familiare dei
figli a cui corrispondono altrettante casistiche. Chiaramente il
discorso si complica mano a mano che l’idea della
stanza/spazio
flessibile interagisce con le diverse tipologie edilizie: dalla
più libera in termini di organizzazione nello spazio (la
casa
unifamiliare) alla più vincolata nel caso della casa
pluripiano
a schiera.
Sullo stesso piano può essere considerato
l’articolo di
Giorgio Gasco e Ferruccio Resta che individuano il sofa quale spazio
interessante, di soglia dell’abitazione tradizionale turca,
da
introdurre nella casa contemporanea. Seguendo gli studi del dopoguerra
di Sedad Hakki Eldem riportano alcune loro sperimentazioni portate
avanti presso la Bilkent University di Ankara volte a dimostrare come
il sofa turco possa essere anche un venturiano “dispositivo
di
inflessione compositiva”.
Ottavio Amaro, riflettendo sulla possibilità prevalentemente
trasformativa dell’azione progettuale, considera la casa come
nuova centralità in cui espletare le diverse funzioni
necessarie
e ritrovare il valore primario della protezione. Un microcosmo
domestico che introiettando la città si propone come
officina.
Se nella visione di Amaro la casa è e rimane comunque fatto
tangibile, reale, che si riappropria della sua originaria funzione di
dar forma ai bisogni dell’uomo anche attraverso
l’immaginario archetipico, la prospettiva di M.G. Nicolosi,
all’opposto e in analogia ad una certa cultura cyborg, si
interroga sulla casa come spazio del non reale, del simulato:
ciò porta a considerare nuove forme architettoniche che
aderiscono meglio alla fisionomia dell’uomo (annullandone
ogni
possibilità di espressione artistica in nome
dell’espressione tecno-scientifica) come capsule, gusci o
case-corpo. L’articolo diviene un interessante rassegna sulle
sperimentazioni condotte attorno al concetto di architettura virtuale
che il Covid-19 ha contribuito a mettere in crisi esaltandone i limiti
rispetto all’uomo.
Mentre attorno al singolo uomo e alla costruzione del proprio spazio
abitativo minimo – One
Person House –, ruota la riflessione
di Alberto Bologna e Marco Trisciuoglio che trasformano la situazione
contestuale vissuta in una sollecitazione didattica attraverso la quale
gli studenti di architettura sperimentano quattro esercizi progettuali
di “research by design”. Essi sono sostanzialmente
basati
sull’analogia tra uomo e architettura dalla quale riprendono
gli
elementi da progettare.
Antonino Margagliotta e Paolo De Marco, auspicano una liberazione della
casa per riportarla allo spirito di necessità,
all’aspirazione etica ed estetica
dell’essenzialità.
Un tipo di casa che immaginano collocata nell’abitare
condiviso,
così come l’architettura moderna ci ha indicato
dall’Unité corbusieriana al Social Housing. Il
vero
principio al quale affidarsi nella progettazione, in analogia a quanto
accade per i disabili, è quello
dell’adattabilità:
una predisposizione alle diverse mansioni da svolgere nella casa
attuale inclusi lo studio e il lavoro.
2. Sul binomio
Abitare/lavorare
Proprio su questo aspetto, la configurazione dello spazio destinato
allo svolgimento del lavoro in casa, è dedicato il secondo
blocco tematico, che possiamo considerare un’estensione del
precedente. Non c’è dubbio che la condizione
pandemica
vissuta abbia interessato in diversi modi il rapporto tra abitazione e
luoghi del lavoro. Un aspetto in particolare riguarda la
possibilità, resa immaginabile dall’apertura nei
confronti
del lavoro a distanza, secondo l’accezione in remoto dello
smart
working, di coniugare le due categorie dell’abitare e del
lavorare in un unico spazio (quello domestico).
Nel primo articolo l’autore, Marianna Charitonidou, riprende
gli
studi dell’architetto greco Takis Zenetos, che negli anni
Settanta ha proiettato la rivoluzione informatica sulla casa e la
città del futuro, studiandone ed anticipandone le
ripercussioni.
In particolare viene ripresa l’idea di casa ottimizzata alle
condizioni del tele-lavoro (individual
living unit) all’interno
del quale Zenetos progetta un arredamento multifunzionale ed una
“sedia posturale”, intesa come estensione del corpo
umano.
Il secondo articolo a firma di Edoardo Marchese e Noemi Ciarniello,
utilizza le categorie del produrre e del riprodurre
all’interno
delle quali si collocano metaforicamente la riflessione sullo spazio
dell’abitare. Non vi è dubbio che la produzione
(il
lavoro) abbia subito durante la pandemia un processo di
domesticizzazione: richiamando il concetto sennettiano di
porosità i due autori, però, allargano la
riflessione
alla tipologia dell’abitare suggerendo la collettivizzazione
e la
condivisione di funzioni che ottimizzerebbero la vita umana tra lavoro
produttivo e lavoro riproduttivo.
Roberta Gironi sposta la riflessione dall’abitazione al
paesaggio
degli spazi del lavoro, rilevando come già da tempo essi
siano
evoluti dal posto fisso compartimentato verso lo spazio aperto e
multifunzionale. Inoltre, proseguendo l’evoluzione,
l’autore arriva a concepire la sede degli uffici come un
nuovo
hub relazionale reso possibile dallo spostamento della produzione nelle
case. Questo concetto, mutuato dalla flipped classroom,
permette di
ridefinire in analogia un nuovo flipped
workspace formulato sul
riconoscimento di differenti stili lavorativi (comunicazione,
concentrazione, contemplazione, collaborazione) che conducono a
proporre ambienti articolati secondo differenti finalità
(brainstorming,
presentation, focus, relax, socializing, etc).
3. Tra edificio e
città: lo spazio delle relazioni
Il terzo blocco tematico tratta nello specifico dello spazio delle
relazioni, diversamente definito nella letteratura architettonica anche
come spazio intermedio, neutro, soglia, in between, infra, ecc.
Giovanni Comi, incentra la propria riflessione attorno allo spazio
vuoto tra edificio e città, lo spazio delle relazioni troppe
volte sottovalutato (e negato) a favore del rendimento economico.
L’incipit
è la differenza tra abitabile ed inabitabile che
porta l’autore a sottolineare l’importanza degli
elementi
architettonici intermedi (soglia, portico, coperto) a differenza di
certi spazi della città contemporanea che sarebbero
inabitabili
per l’incapacità di saper abitare ancor prima di
saper
costruire.
Claudia Sansò e Roberta Esposito utilizzano il potenziale
rappresentativo del montaggio per dimostrare attraverso visioni
distopiche come durante la pandemia si sia verificata
l’inversione tra il pieno della città divenuto
vuoto e il
vuoto dello spazio interno divenuto pieno. Tra il deserto urbano e il
sogno domestico si impone lo spazio della soglia costituita dalla
finestra d’autore (il fotogramma del film) da far reagire con
quadri d’autore.
Paola Scala e Grazia Pota, attraverso il concetto di luogo elastico (un
luogo pensato per favorire la costruzione di reti sociali ma anche
capace di reagire in caso di emergenza diventando spazi attrezzati)
propongono una scala di progetto intermedio che parte dalle esperienze
di Chermayeff e Alexander sulla relazione tra spazio pubblico e spazio
privato.
4. Alla scala
dell’insediamento: progettare la città
contemporanea
Uscendo dal microcosmo abitativo, entrando nel macrocosmo urbano
incontriamo il quarto blocco tematico che affronta la questione della
progettazione della città contemporanea, della sua forma
alla
luce della recente esperienza vissuta. Inutile dire che gli articoli
qui sotto analizzati contengono una aspra critica alla città
così come si è venuta consolidando negli ultimi
anni e
che ha mostrato nel periodo della pandemia i propri limiti funzionali.
Una città senza forma e senza limiti, cresciuta nel tempo
per
aggiunte di nuclei che continuano a gravitare sul centro principale.
Così che Antonello Russo nel suo articolo propone
un’idea
di espansione della città per nuclei in cui sia possibile
simultaneamente l’atto del Densificare a livello
architettonico e
del Diradare a livello urbano. Ne deriva una composizione per
arcipelaghi e isole, ossia insediamenti distinti ma tra loro
interconnessi, che traggono origine dalla sperimentazione sul
quartiere, dalla Città orizzontale alla Città in
estensione fino alle più recenti riprese sperimentali.
René Soleti ripropone le teorie di Samonà
– rilette
attraverso i progetti del suo allievo Polesello su Venezia –
individuando nella categoria del vuoto architettonico lo strumento per
riprogettare la città post-Covid-19: il vuoto è
infatti
elemento organizzativo, strumento di misura e di equilibrio dinamico.
Al di la dell’indiscusso valore
“compositivo” di
questa metodica, progettare con il vuoto diviene anche
l’occasione per ri-strutturare i luoghi e le parti di
città.
Pascal Federico Cassaro, Flavia Magliacani, pongono l’accento
sulle potenzialità rigenerative del tessuto urbano e
individuano
nell’isolato europeo (e in tutti gli studi, per lo
più
francesi, volti a valorizzarlo ed attualizzarlo)
l’entità
spaziale con la quale perseguire la progettazione della
città
post-Covid-19. L’isolato o un suo multiplo, l’îlot o
il macrolots,
possibile l’abitare collettivo in condizioni di
multifunzionalità (intendendo con ciò anche il
soddisfacimento delle esigenze sportive, del benessere e del tempo
libero) e sostenibilità energetica e ambientale. Una sorta
di
città nella città definita dal perimetro delle
vie
pubbliche che si rifà all’intervento in
Schützenstraße
a Berlino di Aldo Rossi.
Analogamente, nel suo articolo Giuseppe Verterame si rifà al
macroisolato
inteso come prototipo spaziale che, a partire
dall’invariante tipo-morfologica dell’isolato,
migliora la
qualità dell’abitare per mezzo di operazioni
compositive
nella dialettica tra costruito e spazio aperto, nel contesto di nuove
funzioni primarie, servizi di prossimità e di miglioramento
degli standard di sostenibilità ambientale. In questi
termini il
macroisolato
contribuisce a realizzare una struttura insediativa dove
la continuità del tessuto è definita da parti
autonome
compiute che si relazionano reciprocamente secondo diversi gradi di
complementarietà.
L’articolo di Li Bao e Die Hu, fa il punto sulle
criticità
che hanno interessato la città cinese durante la pandemia e
propongono una serie di proposte che coinvolgono tre ambiti progettuali
distinti (urbano, architettonico e comunitario) in grado di garantire
in futuro una risposta ancora migliore alla situazione pandemica.
L’articolo di Ken Fallas ed Ekaterina Kochetkova indica la
resilienza della città coreana come modello di intervento
nei
confronti del Covid-19. La situazione di isolamento dell’uomo
moderno e la disuguaglianza sociale descritte nel recente film Parasite
vengono sconfessate a favore di un approccio urbanistico globale
definito K-urbanism
basato sull’utilizzo della tecnologia ma
incentrata sull’uomo. Si tratta di un tipo di approccio reso
possibile da un’infrastrutturazione informatica capillare e
da un
modello urbano diverso da quello europeo.
5. Il ruolo dello spazio
pubblico
Il quinto blocco tematico riguarda la relazione ed il ruolo svolto
dallo spazio pubblico nel funzionamento della città. In
generale, le riflessioni e l’approccio progettuale qui
raccolti
sono di ambito più gestionale-amministrativo e legato spesso
a
metodologie di progettazione partecipata, condivisa e cooperativa che
include anche la rivendicazione e il conseguente riuso anche temporaneo
degli spazi abbandonati. È interessante notare come i tre
approcci presentati abbiano una genesi differente, la Progettazione
urbana, l’Architettura cooperativa e l’Urbanistica
tattica,
nonostante convergano sugli obiettivi e sulle soluzioni.
Proprio su riuso temporaneo degli spazi abbandonati insiste
l’articolo di Nicola Marzot, che presenta dopo
un’articolata spiegazione analitica, l’esperienza
dell’Ex Scalo Ravone a Bologna, un luogo simbolo della
rivendicazione degli spazi in disuso, oggetto di una specifica
esplorazione verso soluzioni di utilizzo inedite da inserire nella
pianificazione attuativa regionale. Uno spazio pubblico che si
ripropone attraverso i molteplici usi possibili e compatibili anche
come luogo di ricostruzione del senso di comunità.
Similmente al precedente articolo anche Riccarda Cappeller propone di
utilizzare in maniera nuova secondo usi non originariamente previsti
luoghi di un passato storico importante della città al fine
di
coinvolgere la cittadinanza in processi di partecipazione e
riappropriazione attiva. Non solo il riutilizzo ma il considerare gli
spazi e le architetture come “aperti al cambiamento
continuo” aperti alla modernizzazione. Alla base degli
interventi
proposti ci sta l’idea dell’Architettura
cooperativa intesa
come co-creazione di luoghi, spazi e opportunità
d’uso.
Fabrizia Berlingieri e Manuela Triggianese, propongono una strategia di
riappropriazione di aree pubbliche residuali finalizzate ad una
migliore capacità di adattamento al rischio tramite
metodiche
tipiche della cosiddetta Urbanistica tattica. Si tratta di interventi a
basso costo effettuati mediante e con il coinvolgimento della
cittadinanza attiva (creazioni di piste ciclabili, riqualificazione di
piazze e riappropriazione di spazi residuali). Vengono portati come
esempio diversi interventi sulle città di Milano e Rotterdam.
6. La cultura progettuale
in relazione alla Pandemia
Il sesto blocco tematico racchiude articoli che affrontano la questione
della cultura progettuale in relazione alla Pandemia. In particolare
due articoli sottolineano un rinnovato interesse nei confronti della
prossemica, una disciplina che potrebbe aiutare la progettazione
architettonica e gli architetti – lo stesso Eco nella
prefazione
alla pubblicazione del libro di Hall in Italia si rivolge soprattutto a
loro – affrontando specificatamente il rapporto dello spazio
e
del corpo. Si delinea così una città flessibile,
elastica, che possa avere anziché un unico centro sul quale
gravitano le parti esterne, molti centri autonomi.
Luca Reale, nel suo articolo propone di ripartire dai ‘corpi
nello spazio’ piuttosto che dalla ‘città
come
corpo’ (malato e bisognoso di rigenerazione). Oltre le
considerazioni generali sullo spazio domestico l’autore
immagina
un nuovo equilibrio tra città e salute pubblica che
confuterebbe
la tendenza alla densificazione, a favore di una rinascita del
quartiere (magari rivalutando l’esperienza INA-Casa) e al suo
utilizzo pedonale.
Nell’articolo di Anna Veronese la prossemica viene proposta
come
specifico strumento di progetto utile a ripensare gli spazi
“a
scala umana”. Vengono così ricordate le quattro
sfere di
distanziamento (intima, personale, sociale e pubblica) attraverso le
quali immaginare rispettive scale di strutturazione della
città.
Un concetto quello della misura della distanza che nel caso
dell’uso è alla base del progetto de La ville du quart
d’heure studiata da Carlos Moreno –
l’esperto di
Smart City della Sorbona – nell’ambito del
programma per la
rielezione del sindaco di Parigi Anne Hidalgo.
Attraverso il paradigma della zattera tramite la quale
l’umanità dovrebbe salvarsi, secondo il pensiero
di
Richard Neutra in Progettare
per sopravvivere, Elisabetta Canepa e
Valeria Guerrisi propongono una rassegna delle principali riviste
italiane di architettura durante le grandi crisi sanitarie del XX e XXI
secolo alla ricerca di come la cultura progettuale ha reagito
nell’occasione delle precedenti pandemie (Spagnola, Asiatica,
febbre di Hong Kong, Suina). L’esito rileva come
indipendentemente dall’ampiezza dei contagi è
l’amplificazione mediatica che crea le basi per
l’intervento sulle riviste che la maggior parte delle volte
affronta il problema urbano in termini di vivibilità e della
conseguente accessibilità, nonché del pericolo
dell’alta densità.
7. Il paradigma della
cura della città
Il settimo blocco tematico racchiude articoli che ricorrono al
paradigma geddesiano della cura. La città è vista
come
organismo malato e come tale bisognoso di cure: è superfluo
sottolineare come in questo caso la condizione che ha generato le
problematiche anche urbane, ossia il problema medico sanitario, ha
finito per trasferirsi in un anomalo salto di specie anche alla
città e all’architettura mutuando dalla prassi
medica lo
schema della diagnosi/cura. In particolare l’articolo di
Alessandro Oltremarini insiste sulle caratteristiche della cura
intersecandole con quelle della misura: se la cura è attenta
alle relazioni plurali tra parti diverse e il loro continuo mutamento
di significato, essa riconosce il carattere di
necessità
che appartiene alla misura, sia delle “cose” che
delle
relazioni tra esse.
La cura della città, – ma anche il prendersene
cura
secondo il termine inglese ʻcareʼ
– nel punto di vista
dell’Architettura del Paesaggio è il contenuto
dell’articolo di Sara Protasoni all’interno del
quale
è necessario individuare un nuovo equilibrio tra
Architettura e
Natura. Ad esempio di un approccio progettuale di questo tipo,
l‘autore porta, descrivendola, l’opera di tre
architetti:
Mitte, Figini e Porcinai.
Silvana Segapeli rilegge ed applica all’attualità
gran
parte della lezione geddesiana delineando in quattro punti specifici il
concetto di cura applicato alla progettazione. è
l’articolo che maggiormente riprende le teorie di Geddes al
quale
rimandiamo per una trattazione esaustiva
Non mancano alcuni articoli che si pongono a difesa della
città
e al contrario a difesa della vita suburbana soprattutto nei borghi
abbandonati/sottoabitati. Di quest’ultima tendenza
è
l’articolo di Enrico Bascherini il quale, aderendo al
movimento
più ampio e generale che da alcuni anni tende a valorizzare
e
riabitare le aree interne, individua i problemi (o i rischi)
più
grandi come quello del garantire a quei luoghi una rifondazione in
termini comunitari che inneschi un ciclo temporale medio lungo.
Condivido con l’autore quando sostiene che in questa
riscoperta
collettiva di essere comunità, può e deve nascere
un
sentimento in cui il sistema borgo può essere una scelta di
vita
sia sociale che economica ma non certo sostitutivo alla
città.
In effetti, non solo della necessarietà della
città,
impossibile da sostituire, è convinto Costantino Patestos ma
anche che la stessa non abbia mostrato grossi difetti nei confronti
della pandemia. Essa dev’essere (a proposito del paradigma
della
cura) certamente curata, sostiene l’autore, ma non
ricoverata.
Contro gli speculatori della situazione, colpevoli di utilizzare la
pandemia per rinfrescare soluzioni già superate, egli
propone
alcuni punti fermi disciplinari tra cui: difendere la città
storica; contrastare le disuguaglianze; ridisegnare le periferie
interne della città e promuovere un nuovo policentrismo
territoriale; rivendicare la qualità dello spazio pubblico.
In finale, alcuni contributi su tematiche funzionali esterne
all’ambito primario del vivere come quello di Laura Anna
Pezzetti
ed Helen Khanamiryan che si occupa dello spazio delle scuole oppure
indagini sul cambiamento dei comportamenti urbani in Svezia analizzati
da Ann Legeby e Daniel Koch.
Nel primo articolo le due autrici si soffermano
sull’importanza
dello spazio dell’apprendimendo e della sua attualizzazione
sia
rispetto a criteri funzionali avanzati (lo spazio come ʽterzo
educatoreʼ) sia rispetto ad un utilizzo in condizioni di emergenza
pandemica come si sta verificando tutt’ora2.
Ann Legeby e Daniel Koch, invece, attraverso questionari spediti alla
popolazione di tre città svedesi (Stoccolma, Uppsala e
Göteborg) durante la pandemia registrano le variazioni di
comportamento consistenti in una maggior frequentazione dei servizi
limitrofi ai luoghi di residenza nonchè parchi e spazi
pubblici
caratterizzati da ampi spazi aperti.
Note 1
Bisogna dire che a fronte di una
tregua verificatasi nella stagione estiva, nel momento in cui
scriviamo, 31 ottobre 2020 stiamo vivendo una situazione di pandemia di
ritorno che crea almeno in Europa allarme (alcuni giorni fa la Francia
è andata di nuovo in lockdown
e la Gran Bretagna resiste pur avendo una situazione peggiore):
verosimilmente ci si attende, dopo il primo provvedimento di chiusura
parziale, un nuovo lockdown
forse totale o quantomeno geograficamente circoscritto alle aree
maggiormente colpite.. 2
Nell’estate 2020 si è
cercato di garantire la continuità didattica e la ripresa
delle
lezioni in presenza introducendo misure specifiche di
distanziamento nelle scuole. Attualmente sono svolte in presenza le
lezioni delle Scuole Primarie e Secondarie. Le Scuole secondarie
superiori, invece, svolgono lezioni in DAD.