Vecchi e nuovi temi del progetto architettonico e urbano
Enrico Prandi
Immagini
tratte dagli articoli pubblicati
Con questo
numero doppio (il più corposo di sempre) FAM ha
voluto offrire alla comunità scientifica del progetto
architettonico e urbano un luogo di raccolta delle moltissime
riflessioni che la situazione eccezionale di lockdown ha
provocato in
molti (forse tutti) gli studiosi di architettura. Per nostra formazione
professionale, infatti, siamo soliti analizzare situazioni per proporre
soluzioni.
Come si è potuto constatare molti architetti si sono esposti
attraverso i diversi media disponibili e hanno rappresentato forse
un’alternativa al dibattito sul Covid-19 secondo solo a
quello
dei medici (virologi ed epidemiologi) e dei politici. In quel periodo
di concitata iniziativa si sono viste moltissime proposte (dalle
più visionarie alle più elementari) ma
soprattutto
esternate ai limiti dell’etica professionale e deontologica.
Dal canto nostro, nella convinzione che il corpus disciplinare del
progetto architettonico e urbano avesse molto da proporre, ci siamo
adoperati nella ideazione della call for papers internazionale, la
più ampia possibile in termini di accoglimento delle
proposte
fatta salva la centralità del punto di vista del progetto
architettonico e urbano.
Cosicché, le proposte giunte in redazione sono state
moltissime;
oltre centotrenta abstract da tutto il mondo. Un risultato notevole se
si considera la concomitanza di decine e decine di iniziative che le
riviste o le comunità scientifiche hanno offerto alla
riflessione degli architetti. Di tutti gli abstract, la stragrande
maggioranza di livello molto alto e di sicura qualità
scientifica.
La selezione degli articoli (nel frattempo aumentati da venti ad oltre
trenta per dare voce a più ricercatori) è stata
fatta
seguendo il criterio della maggior attinenza ai temi offerti dalla call
con una propensione a quelli che presentassero quesiti (e relative
soluzioni) utili all’interno della disciplina. Inoltre
è
stata seguita una suddivisione per blocchi tematici (o articolazione di
temi) che ha consentito l’ordinamento dei contributi (a tutto
vantaggio della restituzione critica).
La selezione è sempre una operazione difficile, a volte
spiacevole, ma necessaria anche ai fini della
trasmissibilità
dei contenuti e della coerenza con l’obiettivo culturale che
si
siamo dati.
Gli articoli selezionati sono stati sottoposti successivamente alla
procedura di double blind peer review mettendo in campo per la prima
volta un numero considerevole di revisori dell’albo a cui va
il
mio ringraziamento.
* * *
Sul finale del testo della call (precedentemente riportato) alcune
domande riassumevano il carattere operativo della chiamata a raccolta
degli studiosi rispetto alla situazione vissuta1.
Tutti gli articoli, infatti, hanno risposto direttamente o
indirettamente analizzando il problema e riflettendo sulle possibili
azioni correttive progettuali necessarie ad attenuarlo se non
risolverlo completamente o parzialmente.
Benché gli articoli siano ampi nella trattazione, ci
è
parso utile individuare dei caratteri di prevalenza dei contenuti al
fine di accompagnare il lettore nella diversità delle
soluzioni.
I trenta articoli selezionati, infatti sono stati ordinati e
raggruppati per blocchi tematici rispondenti ognuno ad un carattere.
1. Sull’abitare
Il primo blocco tematico racchiude gli articoli che hanno proposto
riflessioni/soluzioni sull’abitare ed in particolare
sull’ambiente domestico. Sono articoli che a partire dalla
condizione, spesso vissuta direttamente o vista e compresa, propongono
soluzioni legate allo spazio primario.
Il primo dei concetti che è emerso è quello della
flessibilità dello spazio della casa, ossia la
considerazione
che fosse possibile distributivamente garantire una certa autonomia
funzionale nell’utilizzabilità dello spazio senza
caratterizzarlo fortemente ed in maniera rigida. Massimo Zammerini
sviluppa una soluzione che a partire da alcuni esempi concreti
individua degli spazi adattabili sostanzialmente a diverse funzioni
quali il lavoro, lo sport, l’ospitalità, ma anche
alla
vita autonoma nel caso dei primi moti di indipendenza familiare dei
figli a cui corrispondono altrettante casistiche. Chiaramente il
discorso si complica mano a mano che l’idea della
stanza/spazio
flessibile interagisce con le diverse tipologie edilizie: dalla
più libera in termini di organizzazione nello spazio (la
casa
unifamiliare) alla più vincolata nel caso della casa
pluripiano
a schiera.
Sullo stesso piano può essere considerato
l’articolo di
Giorgio Gasco e Giuseppe Resta che individuano il sofa quale spazio
interessante, di soglia dell’abitazione tradizionale turca,
da
introdurre nella casa contemporanea. Seguendo gli studi del dopoguerra
di Sedad Hakki Eldem riportano alcune loro sperimentazioni portate
avanti presso la Bilkent University di Ankara volte a dimostrare come
il sofa turco possa essere anche un venturiano “dispositivo
di
inflessione compositiva”.
Ottavio Amaro, riflettendo sulla possibilità prevalentemente
trasformativa dell’azione progettuale, considera la casa come
nuova centralità in cui espletare le diverse funzioni
necessarie
e ritrovare il valore primario della protezione. Un microcosmo
domestico che introiettando la città si propone come
officina.
Se nella visione di Amaro la casa è e rimane comunque fatto
tangibile, reale, che si riappropria della sua originaria funzione di
dar forma ai bisogni dell’uomo anche attraverso
l’immaginario archetipico, la prospettiva di M.G. Nicolosi,
all’opposto e in analogia ad una certa cultura cyborg, si
interroga sulla casa come spazio del non reale, del simulato:
ciò porta a considerare nuove forme architettoniche che
aderiscono meglio alla fisionomia dell’uomo (annullandone
ogni
possibilità di espressione artistica in nome
dell’espressione tecno-scientifica) come capsule, gusci o
case-corpo. L’articolo diviene un interessante rassegna sulle
sperimentazioni condotte attorno al concetto di architettura virtuale
che il Covid-19 ha contribuito a mettere in crisi esaltandone i limiti
rispetto all’uomo.
Mentre attorno al singolo uomo e alla costruzione del proprio spazio
abitativo minimo – One
Person House –, ruota la riflessione
di Alberto Bologna e Marco Trisciuoglio che trasformano la situazione
contestuale vissuta in una sollecitazione didattica attraverso la quale
gli studenti di architettura sperimentano quattro esercizi progettuali
di “research by design”. Essi sono sostanzialmente
basati
sull’analogia tra uomo e architettura dalla quale riprendono
gli
elementi da progettare.
Antonino Margagliotta e Paolo De Marco, auspicano una liberazione della
casa per riportarla allo spirito di necessità,
all’aspirazione etica ed estetica
dell’essenzialità.
Un tipo di casa che immaginano collocata nell’abitare
condiviso,
così come l’architettura moderna ci ha indicato
dall’Unité corbusieriana al Social Housing. Il
vero
principio al quale affidarsi nella progettazione, in analogia a quanto
accade per i disabili, è quello
dell’adattabilità:
una predisposizione alle diverse mansioni da svolgere nella casa
attuale inclusi lo studio e il lavoro.
2. Sul binomio
Abitare/lavorare
Proprio su questo aspetto, la configurazione dello spazio destinato
allo svolgimento del lavoro in casa, è dedicato il secondo
blocco tematico, che possiamo considerare un’estensione del
precedente. Non c’è dubbio che la condizione
pandemica
vissuta abbia interessato in diversi modi il rapporto tra abitazione e
luoghi del lavoro. Un aspetto in particolare riguarda la
possibilità, resa immaginabile dall’apertura nei
confronti
del lavoro a distanza, secondo l’accezione in remoto dello
smart
working, di coniugare le due categorie dell’abitare e del
lavorare in un unico spazio (quello domestico).
Nel primo articolo l’autore, Marianna Charitonidou, riprende
gli
studi dell’architetto greco Takis Zenetos, che negli anni
Settanta ha proiettato la rivoluzione informatica sulla casa e la
città del futuro, studiandone ed anticipandone le
ripercussioni.
In particolare viene ripresa l’idea di casa ottimizzata alle
condizioni del tele-lavoro (individual
living unit) all’interno
del quale Zenetos progetta un arredamento multifunzionale ed una
“sedia posturale”, intesa come estensione del corpo
umano.
Il secondo articolo a firma di Edoardo Marchese e Noemi Ciarniello,
utilizza le categorie del produrre e del riprodurre
all’interno
delle quali si collocano metaforicamente la riflessione sullo spazio
dell’abitare. Non vi è dubbio che la produzione
(il
lavoro) abbia subito durante la pandemia un processo di
domesticizzazione: richiamando il concetto sennettiano di
porosità i due autori, però, allargano la
riflessione
alla tipologia dell’abitare suggerendo la collettivizzazione
e la
condivisione di funzioni che ottimizzerebbero la vita umana tra lavoro
produttivo e lavoro riproduttivo.
Roberta Gironi sposta la riflessione dall’abitazione al
paesaggio
degli spazi del lavoro, rilevando come già da tempo essi
siano
evoluti dal posto fisso compartimentato verso lo spazio aperto e
multifunzionale. Inoltre, proseguendo l’evoluzione,
l’autore arriva a concepire la sede degli uffici come un
nuovo
hub relazionale reso possibile dallo spostamento della produzione nelle
case. Questo concetto, mutuato dalla flipped classroom,
permette di
ridefinire in analogia un nuovo flipped
workspace formulato sul
riconoscimento di differenti stili lavorativi (comunicazione,
concentrazione, contemplazione, collaborazione) che conducono a
proporre ambienti articolati secondo differenti finalità
(brainstorming,
presentation, focus, relax, socializing, etc).
3. Tra edificio e
città: lo spazio delle relazioni
Il terzo blocco tematico tratta nello specifico dello spazio delle
relazioni, diversamente definito nella letteratura architettonica anche
come spazio intermedio, neutro, soglia, in between, infra, ecc.
Giovanni Comi, incentra la propria riflessione attorno allo spazio
vuoto tra edificio e città, lo spazio delle relazioni troppe
volte sottovalutato (e negato) a favore del rendimento economico.
L’incipit
è la differenza tra abitabile ed inabitabile che
porta l’autore a sottolineare l’importanza degli
elementi
architettonici intermedi (soglia, portico, coperto) a differenza di
certi spazi della città contemporanea che sarebbero
inabitabili
per l’incapacità di saper abitare ancor prima di
saper
costruire.
Claudia Sansò e Roberta Esposito utilizzano il potenziale
rappresentativo del montaggio per dimostrare attraverso visioni
distopiche come durante la pandemia si sia verificata
l’inversione tra il pieno della città divenuto
vuoto e il
vuoto dello spazio interno divenuto pieno. Tra il deserto urbano e il
sogno domestico si impone lo spazio della soglia costituita dalla
finestra d’autore (il fotogramma del film) da far reagire con
quadri d’autore.
Paola Scala e Grazia Pota, attraverso il concetto di luogo elastico (un
luogo pensato per favorire la costruzione di reti sociali ma anche
capace di reagire in caso di emergenza diventando spazi attrezzati)
propongono una scala di progetto intermedio che parte dalle esperienze
di Chermayeff e Alexander sulla relazione tra spazio pubblico e spazio
privato.
4. Alla scala
dell’insediamento: progettare la città
contemporanea
Uscendo dal microcosmo abitativo, entrando nel macrocosmo urbano
incontriamo il quarto blocco tematico che affronta la questione della
progettazione della città contemporanea, della sua forma
alla
luce della recente esperienza vissuta. Inutile dire che gli articoli
qui sotto analizzati contengono una aspra critica alla città
così come si è venuta consolidando negli ultimi
anni e
che ha mostrato nel periodo della pandemia i propri limiti funzionali.
Una città senza forma e senza limiti, cresciuta nel tempo
per
aggiunte di nuclei che continuano a gravitare sul centro principale.
Così che Antonello Russo nel suo articolo propone
un’idea
di espansione della città per nuclei in cui sia possibile
simultaneamente l’atto del Densificare a livello
architettonico e
del Diradare a livello urbano. Ne deriva una composizione per
arcipelaghi e isole, ossia insediamenti distinti ma tra loro
interconnessi, che traggono origine dalla sperimentazione sul
quartiere, dalla Città orizzontale alla Città in
estensione fino alle più recenti riprese sperimentali.
René Soleti ripropone le teorie di Samonà
– rilette
attraverso i progetti del suo allievo Polesello su Venezia –
individuando nella categoria del vuoto architettonico lo strumento per
riprogettare la città post-Covid-19: il vuoto è
infatti
elemento organizzativo, strumento di misura e di equilibrio dinamico.
Al di la dell’indiscusso valore
“compositivo” di
questa metodica, progettare con il vuoto diviene anche
l’occasione per ri-strutturare i luoghi e le parti di
città.
Pascal Federico Cassaro, Flavia Magliacani, pongono l’accento
sulle potenzialità rigenerative del tessuto urbano e
individuano
nell’isolato europeo (e in tutti gli studi, per lo
più
francesi, volti a valorizzarlo ed attualizzarlo)
l’entità
spaziale con la quale perseguire la progettazione della
città
post-Covid-19. L’isolato o un suo multiplo, l’îlot o
il macrolots,
possibile l’abitare collettivo in condizioni di
multifunzionalità (intendendo con ciò anche il
soddisfacimento delle esigenze sportive, del benessere e del tempo
libero) e sostenibilità energetica e ambientale. Una sorta
di
città nella città definita dal perimetro delle
vie
pubbliche che si rifà all’intervento in
Schützenstraße
a Berlino di Aldo Rossi.
Analogamente, nel suo articolo Giuseppe Verterame si rifà al
macroisolato
inteso come prototipo spaziale che, a partire
dall’invariante tipo-morfologica dell’isolato,
migliora la
qualità dell’abitare per mezzo di operazioni
compositive
nella dialettica tra costruito e spazio aperto, nel contesto di nuove
funzioni primarie, servizi di prossimità e di miglioramento
degli standard di sostenibilità ambientale. In questi
termini il
macroisolato
contribuisce a realizzare una struttura insediativa dove
la continuità del tessuto è definita da parti
autonome
compiute che si relazionano reciprocamente secondo diversi gradi di
complementarietà.
L’articolo di Li Bao e Die Hu, fa il punto sulle
criticità
che hanno interessato la città cinese durante la pandemia e
propongono una serie di proposte che coinvolgono tre ambiti progettuali
distinti (urbano, architettonico e comunitario) in grado di garantire
in futuro una risposta ancora migliore alla situazione pandemica.
L’articolo di Ken Fallas ed Ekaterina Kochetkova indica la
resilienza della città coreana come modello di intervento
nei
confronti del Covid-19. La situazione di isolamento dell’uomo
moderno e la disuguaglianza sociale descritte nel recente film Parasite
vengono sconfessate a favore di un approccio urbanistico globale
definito K-urbanism
basato sull’utilizzo della tecnologia ma
incentrata sull’uomo. Si tratta di un tipo di approccio reso
possibile da un’infrastrutturazione informatica capillare e
da un
modello urbano diverso da quello europeo.
5. Il ruolo dello spazio
pubblico
Il quinto blocco tematico riguarda la relazione ed il ruolo svolto
dallo spazio pubblico nel funzionamento della città. In
generale, le riflessioni e l’approccio progettuale qui
raccolti
sono di ambito più gestionale-amministrativo e legato spesso
a
metodologie di progettazione partecipata, condivisa e cooperativa che
include anche la rivendicazione e il conseguente riuso anche temporaneo
degli spazi abbandonati. È interessante notare come i tre
approcci presentati abbiano una genesi differente, la Progettazione
urbana, l’Architettura cooperativa e l’Urbanistica
tattica,
nonostante convergano sugli obiettivi e sulle soluzioni.
Proprio su riuso temporaneo degli spazi abbandonati insiste
l’articolo di Nicola Marzot, che presenta dopo
un’articolata spiegazione analitica, l’esperienza
dell’Ex Scalo Ravone a Bologna, un luogo simbolo della
rivendicazione degli spazi in disuso, oggetto di una specifica
esplorazione verso soluzioni di utilizzo inedite da inserire nella
pianificazione attuativa regionale. Uno spazio pubblico che si
ripropone attraverso i molteplici usi possibili e compatibili anche
come luogo di ricostruzione del senso di comunità.
Similmente al precedente articolo anche Riccarda Cappeller propone di
utilizzare in maniera nuova secondo usi non originariamente previsti
luoghi di un passato storico importante della città al fine
di
coinvolgere la cittadinanza in processi di partecipazione e
riappropriazione attiva. Non solo il riutilizzo ma il considerare gli
spazi e le architetture come “aperti al cambiamento
continuo” aperti alla modernizzazione. Alla base degli
interventi
proposti ci sta l’idea dell’Architettura
cooperativa intesa
come co-creazione di luoghi, spazi e opportunità
d’uso.
Fabrizia Berlingieri e Manuela Triggianese, propongono una strategia di
riappropriazione di aree pubbliche residuali finalizzate ad una
migliore capacità di adattamento al rischio tramite
metodiche
tipiche della cosiddetta Urbanistica tattica. Si tratta di interventi a
basso costo effettuati mediante e con il coinvolgimento della
cittadinanza attiva (creazioni di piste ciclabili, riqualificazione di
piazze e riappropriazione di spazi residuali). Vengono portati come
esempio diversi interventi sulle città di Milano e Rotterdam.
6. La cultura progettuale
in relazione alla Pandemia
Il sesto blocco tematico racchiude articoli che affrontano la questione
della cultura progettuale in relazione alla Pandemia. In particolare
due articoli sottolineano un rinnovato interesse nei confronti della
prossemica, una disciplina che potrebbe aiutare la progettazione
architettonica e gli architetti – lo stesso Eco nella
prefazione
alla pubblicazione del libro di Hall in Italia si rivolge soprattutto a
loro – affrontando specificatamente il rapporto dello spazio
e
del corpo. Si delinea così una città flessibile,
elastica, che possa avere anziché un unico centro sul quale
gravitano le parti esterne, molti centri autonomi.
Luca Reale, nel suo articolo propone di ripartire dai ‘corpi
nello spazio’ piuttosto che dalla ‘città
come
corpo’ (malato e bisognoso di rigenerazione). Oltre le
considerazioni generali sullo spazio domestico l’autore
immagina
un nuovo equilibrio tra città e salute pubblica che
confuterebbe
la tendenza alla densificazione, a favore di una rinascita del
quartiere (magari rivalutando l’esperienza INA-Casa) e al suo
utilizzo pedonale.
Nell’articolo di Anna Veronese la prossemica viene proposta
come
specifico strumento di progetto utile a ripensare gli spazi
“a
scala umana”. Vengono così ricordate le quattro
sfere di
distanziamento (intima, personale, sociale e pubblica) attraverso le
quali immaginare rispettive scale di strutturazione della
città.
Un concetto quello della misura della distanza che nel caso
dell’uso è alla base del progetto de La ville du quart
d’heure studiata da Carlos Moreno –
l’esperto di
Smart City della Sorbona – nell’ambito del
programma per la
rielezione del sindaco di Parigi Anne Hidalgo.
Attraverso il paradigma della zattera tramite la quale
l’umanità dovrebbe salvarsi, secondo il pensiero
di
Richard Neutra in Progettare
per sopravvivere, Elisabetta Canepa e
Valeria Guerrisi propongono una rassegna delle principali riviste
italiane di architettura durante le grandi crisi sanitarie del XX e XXI
secolo alla ricerca di come la cultura progettuale ha reagito
nell’occasione delle precedenti pandemie (Spagnola, Asiatica,
febbre di Hong Kong, Suina). L’esito rileva come
indipendentemente dall’ampiezza dei contagi è
l’amplificazione mediatica che crea le basi per
l’intervento sulle riviste che la maggior parte delle volte
affronta il problema urbano in termini di vivibilità e della
conseguente accessibilità, nonché del pericolo
dell’alta densità.
7. Il paradigma della
cura della città
Il settimo blocco tematico racchiude articoli che ricorrono al
paradigma geddesiano della cura. La città è vista
come
organismo malato e come tale bisognoso di cure: è superfluo
sottolineare come in questo caso la condizione che ha generato le
problematiche anche urbane, ossia il problema medico sanitario, ha
finito per trasferirsi in un anomalo salto di specie anche alla
città e all’architettura mutuando dalla prassi
medica lo
schema della diagnosi/cura. In particolare l’articolo di
Alessandro Oltremarini insiste sulle caratteristiche della cura
intersecandole con quelle della misura: se la cura è attenta
alle relazioni plurali tra parti diverse e il loro continuo mutamento
di significato, essa riconosce il carattere di
necessità
che appartiene alla misura, sia delle “cose” che
delle
relazioni tra esse.
La cura della città, – ma anche il prendersene
cura
secondo il termine inglese ʻcareʼ
– nel punto di vista
dell’Architettura del Paesaggio è il contenuto
dell’articolo di Sara Protasoni all’interno del
quale
è necessario individuare un nuovo equilibrio tra
Architettura e
Natura. Ad esempio di un approccio progettuale di questo tipo,
l‘autore porta, descrivendola, l’opera di tre
architetti:
Mitte, Figini e Porcinai.
Silvana Segapeli rilegge ed applica all’attualità
gran
parte della lezione geddesiana delineando in quattro punti specifici il
concetto di cura applicato alla progettazione. è
l’articolo che maggiormente riprende le teorie di Geddes al
quale
rimandiamo per una trattazione esaustiva
Non mancano alcuni articoli che si pongono a difesa della
città
e al contrario a difesa della vita suburbana soprattutto nei borghi
abbandonati/sottoabitati. Di quest’ultima tendenza
è
l’articolo di Enrico Bascherini il quale, aderendo al
movimento
più ampio e generale che da alcuni anni tende a valorizzare
e
riabitare le aree interne, individua i problemi (o i rischi)
più
grandi come quello del garantire a quei luoghi una rifondazione in
termini comunitari che inneschi un ciclo temporale medio lungo.
Condivido con l’autore quando sostiene che in questa
riscoperta
collettiva di essere comunità, può e deve nascere
un
sentimento in cui il sistema borgo può essere una scelta di
vita
sia sociale che economica ma non certo sostitutivo alla
città.
In effetti, non solo della necessarietà della
città,
impossibile da sostituire, è convinto Costantino Patestos ma
anche che la stessa non abbia mostrato grossi difetti nei confronti
della pandemia. Essa dev’essere (a proposito del paradigma
della
cura) certamente curata, sostiene l’autore, ma non
ricoverata.
Contro gli speculatori della situazione, colpevoli di utilizzare la
pandemia per rinfrescare soluzioni già superate, egli
propone
alcuni punti fermi disciplinari tra cui: difendere la città
storica; contrastare le disuguaglianze; ridisegnare le periferie
interne della città e promuovere un nuovo policentrismo
territoriale; rivendicare la qualità dello spazio pubblico.
In finale, alcuni contributi su tematiche funzionali esterne
all’ambito primario del vivere come quello di Laura Anna
Pezzetti
ed Helen Khanamiryan che si occupa dello spazio delle scuole oppure
indagini sul cambiamento dei comportamenti urbani in Svezia analizzati
da Ann Legeby e Daniel Koch.
Nel primo articolo le due autrici si soffermano
sull’importanza
dello spazio dell’apprendimendo e della sua attualizzazione
sia
rispetto a criteri funzionali avanzati (lo spazio come ʽterzo
educatoreʼ) sia rispetto ad un utilizzo in condizioni di emergenza
pandemica come si sta verificando tutt’ora2.
Ann Legeby e Daniel Koch, invece, attraverso questionari spediti alla
popolazione di tre città svedesi (Stoccolma, Uppsala e
Göteborg) durante la pandemia registrano le variazioni di
comportamento consistenti in una maggior frequentazione dei servizi
limitrofi ai luoghi di residenza nonchè parchi e spazi
pubblici
caratterizzati da ampi spazi aperti.
Note 1
Bisogna dire che a fronte di una
tregua verificatasi nella stagione estiva, nel momento in cui
scriviamo, 31 ottobre 2020 stiamo vivendo una situazione di pandemia di
ritorno che crea almeno in Europa allarme (alcuni giorni fa la Francia
è andata di nuovo in lockdown
e la Gran Bretagna resiste pur avendo una situazione peggiore):
verosimilmente ci si attende, dopo il primo provvedimento di chiusura
parziale, un nuovo lockdown
forse totale o quantomeno geograficamente circoscritto alle aree
maggiormente colpite.. 2
Nell’estate 2020 si è
cercato di garantire la continuità didattica e la ripresa
delle
lezioni in presenza introducendo misure specifiche di
distanziamento nelle scuole. Attualmente sono svolte in presenza le
lezioni delle Scuole Primarie e Secondarie. Le Scuole secondarie
superiori, invece, svolgono lezioni in DAD.