L’azzurro del cielo di Modena

Claudia Tinazzi




«A metà del 1971, in aprile, sulla strada di Istanbul tra Belgrado e Zagabria ho avuto un grave incidente d’auto. Forse da quell’incidente, come ho detto, nel piccolo ospedale di Slavonski Brod è nato il progetto per il cimitero di Modena e nel contempo si è conclusa la giovinezza» (Rossi 1990, p. 22).

Senza particolare evidenza – come nel più corretto processo progettuale di un architetto – ragione ed emozione, logica e autobiografia predispongono, in un dialogo serrato e a tratti disorientante, le prime riflessioni di Aldo Rossi – scritte e disegnate – attorno al tema della vita e della morte. Riflessioni che coincidono ai nostri occhi senza alcuna esitazione con uno dei progetti più importanti della poetica rossiana: il cimitero di San Cataldo a Modena progettato con Gianni Braghieri a partire dal concorso del 1971. La grande città dei morti – oggi ancora incompiuta – che nella chiara metafora urbana distilla il procedimento di disposizione e ricomposizione di volumi, frammenti di architetture o forme pure in un profondo ragionamento tipologico, già esercitato nei tanti progetti che annunciano quello emiliano e che si rivolge all’interpretazione del tema della morte e del rito della sepoltura all’interno della città moderna. Un metodo già consolidato e noto dalla critica nonostante le poche opere costruite fino a quel momento1, che a Modena segna oltre al dichiarato passaggio dalla giovinezza all’età più matura dell’autore anche lo scarto necessario ad un sempre più autonomo carattere della sua architettura resa evidente in particolare dall’introduzione del colore che sopraggiunge al bianco rigoroso e che da quel momento prende progressivamente consapevolezza del ruolo del colore e della materia poi decisivo nelle architetture successive2.

È chiaro, per chi affronta oggi l’opera di Rossi, come alcuni progetti più di altri costruiscano per l’architetto milanese l’evidenza di un forte nesso tra le occasioni puntuali, i temi di architettura specifici, i ragionamenti più disciplinari e le questioni più generali spesso personali, i significati più profondi, le domande esistenziali fino ad avvicinarsi a quel «nucleo emozionale di riferimento» canovaccio originale della sua Autobiografia Scientifica dove alcuni progetti “eletti”, iconici nel percorso rossiano – il cimitero di San Cataldo tra questi – diventano fil rouge di un pensiero che si fa quasi ossessione su cui tornare e ritornare per legare definitivamente vita e architettura.

Due anime parallele nella figura di Aldo Rossi, non quindi due periodi uno conseguente all’altro come spesso è stato proposto ma due anime, ogni volta in una convivenza pesata a rendere ragione di un’idea precisa che è anche l’immagine più originale di quell’architettura della città contesa tra monumenti e residenza, tra architettura e umanità. In ogni suo progetto è come se uno dei due termini prevalesse momentaneamente sull’altro seguendo le ragioni dell’interpretazione del tema, entrambi – tradotti in realtà e immaginazione – sono sempre presenti ma alternano ruoli e importanza nella ricerca di un’adeguatezza espressiva, di una chiarezza compositiva che disegna in maniera sempre diversa il modo di raccontare o meglio di interpretare il mondo.

Nei sempre più preziosi Quaderni azzurri il numero 9 riporta in copertina il titolo Architettura_il cimitero di Modena. 5 agosto 1971-10 ottobre 1971 e, appena più in alto, un numero appuntato “40” – l’età di Aldo Rossi – a confermarci, qualora ce ne fosse ancora bisogno, il continuo sovrapporsi di pensieri, vita e progetto in un unico “disegno” che è disegno della mente ancora prima che della mano. Le prime pagine del sottile libretto ci raccontano:

«L’insieme di questi edifici si configura come una città; nella città il rapporto privato con la morte torna ad essere il rapporto civile con l’istituzione. Il cimitero è così ancora un edificio pubblico con la sua necessaria chiarezza e razionalità dei percorsi con un giusto uso del suolo, estremamente chiuso da un muro con finestre. La malinconia del tema non lo stacca troppo dagli altri edifici pubblici» (Rossi 1999a).

Il progetto osteologico, costruito a partire dal 1976, è interpretato da Rossi e Braghieri come un frammento di città, unito ma separato dal contesto; un imponente grande scheletro disteso nel paesaggio come nell’immagine più astratta irrimediabilmente condizionata dal riferimento dell’autore a quell’incidente d’auto che, obbligandolo immobile in una stanza straniera d’ospedale a riflettere sulle fratture del suo corpo, ne diventa origine figurativa forse involontaria da ricomporre in una nuova unità.

Ma al di là di ogni immagine singolare e autobiografica, il progetto – vincitore di un concorso internazionale che vede contrapporsi senza soluzione di continuità da una parte visioni rivoluzionarie e dall’altra puri esercizi funzionalistici3 – si configura come un grande recinto dischiuso che, raddoppiando quasi esattamente le dimensioni del Cimitero Monumentale di Cesare Costa a cui si congiunge per mezzo di un ingranaggio posto al di sotto del cimitero ebraico, assomma volumi in linea e masse monumentali in una composizione che trascrive il rito dei luoghi della morte in un racconto che è un percorso urbano; lo spazio sacro del ricordo in una città.

Il paesaggio, qui limite fisico tra la città e quella periferia “ingenua”4 senza grande qualità – «poco caratterizzata»5 nelle parole di Rossi – è strumento indispensabile del progetto non tanto per il suo valore intrinseco ma piuttosto per il chiaro dialogo scelto criticamente come ben raccontato ai nostri occhi
dalla campagna fotografica che Luigi Ghirri elabora a più riprese6 nell’infinito cantiere modenese. Ancora in quei colori sbiaditi, opachi o assolati, propri della tecnica e della poetica del fotografo modenese, il grande recinto finestrato abitato da “architetture abbandonate” quasi metafisiche, si mostra con sicurezza quale sentinella solitaria del trascorrere del tempo, tra cantiere e rovina.

Come nelle stesse lucide parole di Rossi (1999a) «l’architettura spesso cacciata dai centri urbani, trovò nel cimitero un tema di alto impegno, presto superò il singolo monumento e lo rese sublime come la speranza ‘ultima dea’ che fugge dai sepolcri».

Il progetto non si allontana, nelle tante versioni successive, dall’idea originale di un’architettura familiare dalle dimensioni monumentali, una forma racchiusa docile e protetta, quasi una città di fondazione immaginata in un atto unico – città dell’ultimo riposo per i morti e città della memoria per i vivi – che stabilisce le relazioni urbane attraverso ingressi, percorsi, soste o lunghe prospettive che immaginano un’unità tra il cimitero cristiano, quello ebraico e il nuovo ampliamento; le analogie con gli spazi della città, di una città forse comunque ideale, sono tradotte in questo progetto nel disegno di un grande impianto che alterna case e monumenti, strade e piazze come linee e punti di una grande scena urbana per raccontare il legame stretto tra la vita e la morte perché «questa casa dei morti ha un tempo legato alla vita» (Rossi 1999a).

Le gallerie dei colombari, poste su più piani al perimetro del recinto, come strade dei morti o meglio come case a ballatoio, si definiscono nell’interpretazione onesta della forma tipologica necessaria ancor prima della forma geometrica; al centro la rappresentazione del rito della morte inanella invece in una sequenza serrata gli spazi per le cerimonie collettive: il sacrario dei morti di guerra – un cubo «che ha la struttura di una casa senza piani» (Rossi 1999a) e che è una casa abbandonata – i corpi in linea degli ossari – composti in una «successione regolare inscritta in un triangolo che degrada» (Rossi 1999a) – la fossa comune – un cono che nella sua forma antica è «tomba collettiva» (Rossi 1999a) – alla fine della cerimonia.

L’ombra, ultimo attore del progetto, esalta la geometria degli spazi, crea prospettive taglienti, misura i luoghi compressi o dilatati delle varie parti, dimostrando la forza di quell’“architettura” delle ombre ammirata qualche anno prima, nel 1967, nel lavoro di Etienne Louis Boullèe e trascritta con evidente trasporto di immedesimazione nell’introduzione al saggio Architettura. Saggio sull’arte: «L’Architettura delle ombre diventa così il legame e la ricerca dei principi dell’architettura nella natura che è la preoccupazione massima di B» (Rossi 1967). D’altronde è difficile, per chi scrive, immaginare il progetto di Modena senza il felice “incontro” tra Rossi e Boullèe7. Le ombre diventano allo stesso tempo una cifra stilistica del disegno di questo progetto tanto da scardinarne la relazione canonica nelle tante assonometrie aeree in cui le grandi sagome nere corrono verso di noi.

«Il materiale del cimitero è il cemento, l’intonaco delle case e delle fabbriche. Dove l’uso lo rende necessario viene impiegata la pietra, bianca e grigia»8.

L’azzurro del cielo motto del progetto di concorso – riferimento esplicito al romanzo di Georges Bataille (1969) – trova in realtà una specifica interpretazione nella definizione cromatica dei tetti triangolari del grande perimetro abitato a definire un ideale sfondo fisso, memoria di un possibile cielo azzurro di Modena.

Dopo il progetto per il cimitero di San Cataldo, Aldo Rossi continua, per episodi distinti, a confrontare la sua architettura e il suo pensiero con il tema della morte anche nel più domestico territorio lombardo. Nel continuo parallelo tra “casa dei vivi” e “casa dei morti” – tra città e la sua memoria – a Ponte Sesto (Rozzano) l’architetto milanese immagina di dare forma a quel senso civile della fine della vita che, nell’adesione realista al carattere lombardo, si fa luogo della città o di una parte di essa, di cui riproporre la natura più profonda.

«Sul cimitero di Rozzano, che è un’opera piccola potrei scrivere molte cose anche paragonandole a quanto fatto a Modena. Purtroppo, esso è vicino ad un cimitero orribile degli anni’60 e non ha certamente vicino il cimitero del Costa e quello degli ebrei di Modena» (Rossi 1999b).

Alla complessa ma muta “macchina della morte” di calcestruzzo – che forse cerca, senza riuscirci, di lavorare sull’utopia immaginata proprio a Rozzano nel 1959 da Nanda Vigo per un prototipo avveniristico di cimitero verticale9, Rossi oppone un nuovo frammento di città, silenzioso, modesto, civile e profondamente collettivo, frutto di quei “viaggi pastorali”10 interpretati come concreta possibilità di ascolto profondo della memoria dei luoghi a lui più familiari. Un piccolo progetto urbano che sembra voler riportare con pochi gesti la dimensione più umana, del silenzio e del ricordo, anche in questo lembo di territorio schiacciato dalle trasformazioni più recenti, un dialogo educato con la tradizione popolare tanto da confondere forse il visitatore contemporaneo sulla esatta consequenzialità cronologia dei due edifici cimiteriali. La relazione di progetto, che come spesso per Rossi travalica la semplice descrizione dell’architettura immaginata aprendo
in questo caso nuove riflessioni sulle diverse possibilità riferite al “tema del cimitero”, dichiara nuovamente il “credo” rossiano: «così questo è il carattere autenticamente civile del cimitero, una parte della città dove non è fuggita la speranza – come diceva il nostro poeta – ma dove la speranza si è sublimata in quel sentimento incomprensibile che abbiamo verso i morti»11.

Alla luce di questo, l’ampliamento del cimitero, costruito tra il 1989 e il 1999, si definisce prima di tutto come la costruzione di una strada, un viale disegnato in ogni elemento urbano, fino ai lampioni e alle panchine, che collega l’ingresso del cimitero alla piccola cappella collocata al suo fondo. Anche in questo piccolo progetto alla periferia sud di Milano al confine con Pavia, la regola civile dell’architettura diventa metafora da cui trarre il significato più generale del progetto.

Pochissimi segni compongono l’ampliamento, che raddoppia senza rumore la superficie del cimitero esistente, cercando di mimetizzarsi con il territorio circostante: un percorso, definito da una sequenza di edifici porticati in linea che ospitano i colombari e degradano, da due ad un piano, avvicinandosi allo spazio sacro centrale, per accentuare la forza prospettica e la percezione del percorso rituale. I due edifici collettivi chiudono la composizione ordinata, assecondando il disegno generale e disponendosi a segnarne i fuochi di un piano regolato da una precisa geometria sottesa. Cappella e crematorio si distinguono dai volumi per la sepoltura rappresentando il rito della morte nel racconto dello spazio condiviso da una collettività, ancora una volta nella consolazione del ricordo.

Nessuna pretesa sacralità sembra essere ricercata in questo progetto, al contrario un carattere domestico, intimo e popolare definisce la cifra della composizione generale fatta eccezione per la definizione di quei luoghi centrali che assumono necessariamente, come già sottolineato, un valore collettivo. Il viale, quasi perfettamente simmetrico, si conclude con il luogo della celebrazione del rito e, nell’interruzione mediana, si modifica per accogliere il crematorio, spazio di filtro tra il viale stesso, dal carattere quasi cittadino, e il luogo per le sepolture a terra, legato più tradizionalmente al paesaggio rurale. Questo spazio, racchiuso da un vecchio muro di mattoni lombardi, è il luogo dove nei primi schizzi di progetto si pensava potessero essere accolte anche alcune cappelle gentilizie, Rossi lo rappresenta in molti disegni preparatori riprendendo e anticipando qui gli studi per le cappelle di famiglia di Giussano (1980), Lambrate (1995) e per la quasi sconosciuta cappella per l’ospedale di Bergamo12.

Lo studio delle forme geometriche pure, unite all’iconica idea di casa, definiscono a distanza di quindici anni i diversi progetti per tombe di famiglia, diversi ma accomunati come sempre tra loro nell’idea di un possibile carattere singolare anche nell’idea di abitare “dei morti”; così se a Giussano la sezione interna esprime il racconto teatrale reso espressivo dalla ricostruzione lignea di una porta romana, al contrario la spogliazione di ogni intento decorativo scolpisce la piccola casa-tomba di Lambrate nella sua forma perentoria di parallelepipedo con tetto a piramide. Mattoni, pietra, ferro, ovvero il campionario materiale così caro a Rossi nella definizione del carattere delle sue architetture è qui sempre ciò che segna più fedelmente l’appartenenza fisica al territorio lombardo.

Tre scale differenti riassumono così l’esperienza di Rossi con il tema della morte attraverso il progetto, riportandoci a quell’idea di architettura della città che accoglie e riassume le possibili interpretazioni. Città di fondazione, progetto urbano e spazio domestico declinano con misure e pesi differenti il valore civile di un tema sospeso per Rossi tra vita e memoria, tra la ragione e la sua celebrazione.

Note

1 Si rimanda alle letture critiche su questo argomento che da quel momento costituiscono un punto di riferimento anche per lo stesso Aldo Rossi: Bonfanti E. (1970) - “Elementi e costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi”, in: Controspazio 10; e Savi V. (1985), L’Architettura di Aldo Rossi. Franco Angeli Editore, Milano.

Come osservato da Alberto Ferlenga nell’ambito della conferenza “Spazi Sacri: Il cimitero San Cataldo di Aldo Rossi e Gianni Braghieri”, 27 settembre 2019, Cersaie, Bologna.

3 Gli esiti del concorso e alcuni progetti sono raccolti in Casabella 372 dicembre 1972.

Il termine fa riferimento al “funzionalismo ingenuo” affrontato da Aldo Rossi all’interno de L’Architettura della città.

5 Rossi A., (1999a), op.cit. Il quaderno inizia con il primo sopralluogo al cimitero di Modena in occasione del ritiro dei documenti del Bando di Concorso.

6 Le prime foto di Luigi Ghirri al Cimitero di Modena sono contenute in Lotus International 38, 1983.

7 In particolare nella definizione del “Razionalismo Esaltato di B.” nella quale Rossi chiarisce il suo interesse del rapporto tra logica e arte, razionalismo e autobiografia.

8 Rossi A., “relazione di progetto per l’ampliamento del Cimitero di Modena”. In: A. Ferlenga (1999b), Aldo Rossi. Tutte le opere. Electa, Milano.

9 Il progetto è pubblicato in: Domus, 423, febbraio 1965.

10 Il termine “viaggi pastorali” fa riferimento a quanto raccontato da Rossi in merito ai progetti nel territorio lombardo che rimangono un costante impegno anche quando impegnato in progetti in tutto il mondo. In: Rossi A., “Q/A”. In: Id., I Quaderni Azzurri 1968-1992, op. cit. 38, 20 ottobre 1988-27 febbraio 1989 op.cit.

11 Rossi A (1999b), “relazione di progetto per l’ampliamento del Cimitero di Ponte Sesto a Rozzano”. In: A. Ferlenga, Aldo Rossi. Tutte le opere. Electa, Milano.

12 Il modello e alcuni disegni pressoché inediti sono esposti alla mostra “Aldo Rossi. L’Architetto e la città”, a cura di Alberto Ferlenga, MAXXI Roma 10 marzo 2021 > 17 ottobre 2021.

Bibliografia

BATAILLE G. (1969) – L’azzurro del cielo. Giulio Einaudi Editore, Milano.
BONFANTI E. (1981) – Elementi e Costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi. In: Ezio Bonfanti, Scritti di Architettura, (a cura di) L. Scacchetti. Clup, Milano.
BOULLEE E. L.(1967) – Architettura Saggio sull’arte. Marsilio Editori, Venezia.
LOTUS INTERNATIONAL, 38, 1983 (numero monografico dedicato all’architettura funeraria).
MONEO R.(2004) – L’idea di architettura in Rossi e il Cimitero di Modena, in R. Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti. Sugli architetti e il loro lavoro, (a cura di) A. Casiraghi e D. Vitale. Umberto Allemandi & C,, Torino.
RAGGI, F. (1972) – “Alternative per un concetto di monumentalità”. Casabella, 372 (dicembre).
ROSSI A. (1967) – “Introduzione a Boullèe”. In E.L. Boullèe (1967), Architettura Saggio sull’arte. Marsilio Editori, Venezia.
ROSSI A.(1975) – Scritti scelti sull’architettura e la città, (a cura di) R. Bonicalzi. Clup, Milano.
ROSSI A. (1990) – Autobiografia scientifica. Nuova Pratiche Editrice, Milano.
ROSSI A. (1999a) – I Quaderni Azzurri 1968-1992, (a cura di) F. Dal Co. Electa/The Getty Research Istitute, Milano.
ROSSI A (1999b) – Opera Completa, (a cura di) A. Ferlenga. Electa, Milano.
SAVI V. (1985) – L’Architettura di Aldo Rossi. FrancoAngeli Editore, Milano.