Per una archeologia dello spazio sepolcrale

Fabio Guarrera




Lo Strutturalismo, il movimento critico-artistico che si è sviluppato a partire dagli anni sessanta del XX secolo, ha basato la propria costruzione teorica sul principio di “classificazione”. Tutto, secondo gli strutturalisti, può e deve essere classificato; ciò che non è classificato, semplicemente, non esiste.

Sulla base di questo assioma che trova in Michel Foucault e in Roland Barthes i riferimenti principali per la costruzione di una critica analitica contemporanea, diversi studiosi si sono cimentati nel tentativo di definire un nuovo “sistema generale della conoscenza delle arti”.

Nel campo dell’architettura, seppur in un periodo più recente rispetto agli anni in cui nasce e si diffonde il movimento strutturalista, Vittorio Ugo1 ha costruito una teoria finalizzata a individuare, per mezzo di un’argomentazione di tipo tassonomica, la consistenza e lo statuto particolari dell’architettura come disciplina. È all’interno di questa “classificazione” – intesa come principia individuationis – l’ambito in cui Ugo elabora un ragionamento sugli archetipi: «sistema di sistemi […] che tende a riunire e mettere in relazione in un campo teorico unitario ed articolato […] i principi fondativi dell’architettura» (Ugo 1991).

Non potendo per economia di spazio – e per le altre finalità di questo scritto – sviluppare un approfondimento sul complesso rapporto che si è venuto a stabilire tra l’analisi architettonica e il pensiero strutturalista2, si elabora in questa sede una sperimentale lettura critica degli archetipi fondamentali della Tomba Brion; una lettura basata per l’appunto sulle teorie di Vittorio Ugo. L’obiettivo è la definizione di una “archeo-logia” (letteralmente: un discorso sugli archetipi) del capolavoro scarpiano. Un’analisi del monumento che permetta di superare la superficiale descrizione dei dati fisici, metrici, cronologici e simbolici offerti dall’immagine del complesso di San Vito d’Altivole – peraltro già presente in una consistente letteratura –, a favore di una interpretazione oggettiva – ma anche soggettiva – delle sue strutture figurative più profonde. Un “dimensionamento”, direbbe Ugo, finalizzato a chiarire le «‘unità di misura’ […] degli elementi […] di messa-in forma materiale» (Ugo 1991) all’interno del campo degli archetipi.

Riprendendo dal professore siciliano la doppia classificazione di “archeologia della natura” e “archeologia dell’architettura”3 è possibile riconoscere nell’èidos della tomba Brion tre macro-famiglie di “forme originarie” che ne permettono di “misurare” lo spazio. Alla prima famiglia, “dell’archeologia della natura”, appartengono l’archetipo della “foresta”, della “radura” e del “giardino”. Alla seconda e alla terza famiglia, “dell’archeologia dell’architettura”, appartengono invece la varianti archetipali dello spazio statico: “recinto”, “capanna” e “teatro”; e quelle dello spazio dinamico: “labirinto”, “ponte” e “scala”. Nove polarità elementari4 e trans-tipologiche, allusivamente composte da Scarpa a chiarimento del massimo grado di consistenza strutturale dello spazio sepolcrale. Senza alterarne la posizione all’interno dell’archeo-famiglia, e senza tenere in stretta considerazione la loro logica aggregativa (vale a dire la loro sintassi compositiva), si riportano di seguito in “elenco”5 i nove archetipi individuati; descritti in funzione degli elementi fisici riconoscibili nel campo fenomenologico del monumento.

La foresta

In una conferenza tenuta a Madrid6 nel 1978, Carlo Scarpa ha affermato che come prima soluzione di progetto per la Tomba Brion, avrebbe voluto proporre di piantare “mille cipressi”. È una interessante testimonianza che permette di riconoscere, per l’appunto nella “foresta”, il primo archetipo ricercato per l’orchestrazione figurativa di questo straordinario capolavoro. «Avrei potuto – afferma Scarpa – […] ma come sempre avviene alla fine di un lavoro ho pensato: ‘Dio mio, ho sbagliato tutto’» (Scarpa 1978). La rinuncia alla piantumazione dei mille alberi a favore del progetto di un luogo intercluso, non impedisce tuttavia all’architetto di lasciare tracce di questo primo archetipo. Le si possono trovare ad esempio negli undici cipressi piantumati nello spazio rettangolare a ovest della tomba, oltre il muro di cinta, di fianco l’ingresso su strada; ma anche nel cedrus atlantica glauca pendula situato dinnanzi al “propileo” dalla parte dell’ingresso interno al cimitero.

La “foresta”, ovvero ciò che ne rimane, rappresenta in tomba Brion la memoria dello “stato originario” dello spazio della natura, prima delle modificazioni apportate dall’uomo e dalla storia.

Per usare le parole di Vittorio Ugo la foresta raffigura «‘l’anti-casa’ per eccellenza, il non-abitabile-dagli-uomini» (Ugo 1991); il contesto rispetto al quale l’abitare – e il seppellire – non può che istituirsi come attività modificatrice che muta la “selva” in “giardino”.

La radura

È l’archetipo che afferma la «preminente qualità di un ‘luogo’» (Ugo 1991). Il principio insediativo e topologico basato sul lavoro di disboscamento e dissodamento: l’aprirsi della “foresta”, sede geometrica del “recinto”, solco primigenio prodotto dall’aratro che accoglie le mura e sacralizza l’area interclusa. Quello della radura è il “vuoto” denso e consistente che Scarpa predilige al “pieno” denso e primordiale della “foresta”. Spazio “delimitato” all’interno del quale è possibile collocare, sulla base di una precisa composizione, gli altri archetipi “rappresentativi”.

Il giardino

È l’archetipo dello spazio naturale addomesticato: l’apollineo culturale che si sostituisce al dionisiaco della “selva”. È il modello analogico del kosmos che si avvicenda al caos. Eden, «luogo del dia-logo e della conciliazione per eccellenza» (Ugo 1991). Nel complesso Brion il “giardino” è riconoscibile nell’organizzazione geometrica, formale e strutturale dell’insieme; nella sua natura interamente controllata e controllabile. Nella definizione dell’immagine di uno spazio pacificatore e sacro.

Il recinto

È universalmente risaputo che l’azione del recintare segna l’atto ufficiale di sacralizzazione di uno spazio. Il recinto separa il dentro dal fuori, il sé dall’altro, l’ordine dal disordine. Attraverso la costruzione del recinto si crea un mondo consacrato che rispecchia, per analogia, quello del kosmos. L’archetipo del recinto è costruito dall’uomo religioso che cerca un contatto col divino. È temenos: spazio sacro “separato” all’interno del quale è possibile entrare solo oltrepassando la “soglia”.

A San Vito d’Altivole il recinto si fa muro inclinato sul lato esterno e continuo sul lato interno: dispositivo ottico che permette «a coloro che si trovano all’interno di guardare fuori […e a] chi si trova all’esterno [di] non vedere dentro» (Scarpa 1978)7.

La capanna

Archetipo fondamentale dell’idea di “abitare”, la capanna è all’origine dell’eidos dell’architettura. Nella sua evoluzione “schematica” essa è prima “caverna” stereotomica – che comunica la legge del “riparo” – e poi capanna tettonica, che esprime la comprensione e la rielaborazione culturale della stessa legge. In tomba Brion è presente la metafora di entrambe le versioni. La prima rappresentazione è quella della “caverna-tempio” che custodisce l’altare; uno spazio illuminato da fori e da uno squarcio dalla configurazione piramidale. All’archetipo della “caverna” fa riferimento l’edicola per la sepoltura dei familiari, caratterizzata anch’essa da una luce proveniente dall’alto grazie a un taglio stereotomico praticato sulla copertura inclinata.

Riconducibile alla struttura tettonica della “capanna” è invece il “padiglione della meditazione”, con la sua copertura lignea sorretta da esili pilastri in metallo; uno spazio che Scarpa immagina “abitato”, così come emerge dai moltissimi disegni che l’architetto dedica a questo spazio, da corpi di giovani donne.

Il teatro

Tomba Brion è il luogo della “rappresentazione” del binomio morte/vita. È thèatron, termine che deriva dall’arcaico thèasthai, che significa letteralmente: luogo in cui “guardare con stupore e meraviglia”. Per questo progetto Scarpa scrive la “sceneggiatura” per uno spazio “aperto” e dal forte orientamento catartico. «Volevo dimostrare – afferma il maestro in una dichiarazione riportata da Philippe Duboy – come bisogna procedere nel sociale, locale, urbano, per far capire alla gente quale potrebbe essere il senso della morte, dell’eternità e del transitorio»8. La tomba è il «luogo pubblico della civitas […] predisposto per l’‘attesa’» (Dal Co 1984); lo spazio in cui «tutti vanno con molto affetto [e dove] i bambini giocano e i cani corrono» (Scarpa 1978).

La Tomba Brion rappresenta “teatralmente” la morte come “complemento della vita” e non come “mistero”.

Monumento e simbolo culturale eretto intorno al defunto; «culla primigenia delle significazioni» (Dal Co 1984). Ma se il suo spazio è globalmente e concettualmente un “teatro”, fisicamente allusive del koilon sono solo le sedute a semicerchio disposte attorno l’incavo dell’arcosolio: luogo della preghiera e della estatica contemplazione della morte.

Il labirinto

Complementare allo spazio statico della capanna è lo spazio dinamico del labirinto. Nell’analizzare questo archetipo Vittorio Ugo afferma che il labirinto è una struttura fisica e concettuale «che esalta la nozione di luogo come qualità geometrica intrinseca di un dato spazio e come risultato del coesistere delle parti» (Ugo 1991); in tal senso Tomba Brion può essere definita come una “narrazione in forma di labirinto”.

Labirintica è infatti la successione processionale dei percorsi che lega i vari archetipi imponendo un particolare approccio a ciascun elemento architettonico. Labirintica è l’ambiguità dell’ingresso alla tomba, raggiungibile sia superando la soglia/foresta dal lato del cimitero, sia superando la soglia/porta sulla strada (ingresso privato). Labirintico è infine il percorso allegorico dell’acqua «che fonde insieme le immagini dell’inizio e della fine, rappresentando la coincidenza del ‘primo e ultimo’» (Dal Co 1984): elemento liquido di raccordo figurativo e di mediazione simbolica tra tutti gli altri archetipi9.

Il ponte

È l’archetipo che “unisce”. Dimensione topologica assiale della continuità/discontinuità. Il ponte rappresenta la metafora del rito del passaggio, del collegamento. È l’archetipo riconoscibile nell’arcosolio della Tomba, a superamento e copertura dei due sarcofagi coniugali. «Io porrò il mio arco nelle nubi, e sarà come segno dell’alleanza fra me e la terra» (Genesi, IX, 12-17) afferma il passo della Bibbia che potrebbe avere suggerito il programma figurativo a Scarpa. Nell’arcosolio Brion il ponte è in realtà un “arcobaleno”, così come suggerisce la colorazione del mosaico del suo intradosso.

Luogo dinamico affidato a Iride, messaggera degli Dei e intermediaria tra la Terra e il Cielo.

Ponti sono anche i passaggi a pelo d’acqua del percorso-labirinto che consentono di raggiungere la “foresta” di cipressi e la “capanna della meditazione”.

La scala

Rappresenta l’archetipo dell’ascensione: “ponte verticale” per l’iniziazione al rito. In Tomba Brion la scala è usata per segnare il leggero scarto altimetrico tra la quota del cimitero esistente e quella artificiale dell’intervento scarpiano. Cinque gradini leggermente disassati permettono infatti lo “stacco” dal cimitero esistente. Allusioni all’archetipo della scala sono anche riconoscibili nel tema della “cornice a gradini” diffusamente adoperata come elemento decorativo. In questo caso la cornice/scala si fa «guida ottica [che] si insinua tra i volumi […] per ripresentarsi con la massima evidenza ove più urgente è il bisogno di definizione formale e più necessario un segno d’ordine nell’assimetria della composizione» (Dal Co 1984).

Ecco dunque in sintesi l’elenco dei nove archetipi individuati. Principi fondativi primordiali che permettono di risalire all’intuizione globale da cui muove la genesi del progetto: alla sua “struttura” più profonda. In chiave strutturalista l’esegesi fin qui condotta – metodologicamente sperimentabile su qualsiasi architettura intimamente radicata al tema degli archetipi – permette di sviluppare una attività concreta di conoscenza sulla “forma concettuale” dell’opera. In tal senso, la struttura formale analizzata, non è quella fisicamente intrinseca all’opera costruita10, ma l’espressione di un lavoro di interpretazione e misurazione: prodotto, direbbe Vittorio Ugo, di un “dimensionamento critico” finalizzato, in questo specifico caso, alla rappresentazione del “campo archeologico” di uno spazio sepolcrale.

Note

1 Vittorio Ugo (Palermo, 1938-2005), Professore Ordinario di Teoria e Storia delle Forme di Rappresentazione presso il Politecnico di Milano, ha insegnato a Palermo, Bari, Grenoble, Tokyo. Tra i suoi principali lavori in volume si segnalano: Ugo V. (1976), Forma Progetto Architettura. Documenti didattici 05. Istituto di Elementi di Architettura, Facoltà di Architettura di Palermo, Libreria Dante, Palermo; I.D. (1982), Dimensioni dell’architettura. Cogras, Palermo; I.D. (1990), Lauger e la dimensione teorica dell’architettura. Dedalo, Bari; I.D. (1991), I luoghi di Dedalo. Elementi teorici dell’architettura. Edizioni Dedalo, Bari.

2 Per un approfondimento sul rapporto tra architettura e Strutturalismo si vedano: Brandi C. (1967), Struttura e Architettura, Einaudi; e il recente saggio di Ballesteros J. (2010), “MANUAL ESTRUCTURALISTA para arquitectos”. Madrid [online] Disponibile a: <http://www.addgenova.org/DSA/wp-content/uploads/2015/11/manual-estructuralista_-Italiano.pdf>

3 Classificazione che Ugo riprende a sua volta dall’Archeologia del sapere di M. Foucault.

4 Nella sua classificazione in “archeologia della natura” e “archeologia dell’architettura” Vittorio Ugo fa riferimento in realtà solo alla “foresta”, al “giardino” e alla “radura”, per quanto riguarda la famiglia dell’“archeologia della natura”; al “labirinto”, alla “capanna”, al “ponte” per quanto riguarda la famiglia dell’“archeologia dell’architettura”. Vengono dunque in questa sede aggiunti alla classificazione proposta dal professore siciliano altri tre archetipi: il “recinto”, la “scala” e il “teatro”.

5 L’elenco è uno dei principali strumenti utilizzati dall’analisi strutturalista.

6 Cfr. Scarpa C., “Mille cipressi”. Conferenza tenuta a Madrid nell’estate del 1978, in Dal Co F., Mazzariol G. (1984). Carlo Scarpa 1906-1978. Electa, Milano, pp. 286-287.

7 La quota del terreno dell’area Brion è rialzata di +71,5 cm dal piano di campagna e l’altezza del muro di cinta è di + 160 cm dallo stesso piano. L’area sepolcrale interna è dunque a +231,5 cm dalla quota esterna, così da garantire la possibilità di traguardare l’orizzonte dallo spazio interno.

8 Cfr. Duboy P., “Scarpa/Matisse: cruciverba”, in Dal Co F., Mazzariol G. (1984). op. cit., pp. 170-171.

9 Secondo Guido Pietropoli, assistente e collaboratore di Scarpa, durante l’iter progettuale il maestro non cerca un effetto labirintico inteso come spazio in cui perdersi. «Qui non ci dobbiamo perdere», afferma Scarpa secondo le parole riportate da Pietropoli, in quanto «siamo già arrivati». Cfr. Pietropoli G., Carlo Scarpa 1968-78. Quasi un racconto, s.l.

10 Sul concetto di “struttura” come interpretazione soggettiva di una forma è interessante riportare le parole di Gilles G. Granger citate da Cesare Brandi. «Una struttura è una astrazione per mezzo della quale un’attività concreta di conoscenza definisce, a uno stadio determinato dalla pratica, una forma d’oggettività: la struttura non è dunque, in questo senso, nelle cose; non è neppure nel pensiero, come un modello dell’essere o come un riflesso; risulta da un lavoro del soggetto applicato ad un’esperienza, ed è così che contribuisce a sezionare con precisione la cosa in questa esperienza, conferendole lo statuto di oggetto» (corsivi nel testo originale n.d.a.). Cfr. Brandi C., op. cit,, pp. 22-23.

Bibliografia

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