Vita est peregrinatio. Il Duomo di Neviges fra sacro e urbano

Alberto Calderoni, Luigiemanuele Amabile




«Una vita, che non può essere separata dalla sua forma, è una vita per la quale, nel suo vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere. Che cosa significa questa espressione? Essa definisce una vita – la vita umana – in cui i singoli modi, atti e processi del vivere non sono mai semplicemente fatti, ma sempre e innanzitutto possibilità di vita, sempre e innanzitutto potenza. E la potenza, in quanto non è altro che l’essenza o la natura di ciascun essere, può essere sospesa e contemplata, ma mai assolutamente divisa dall’atto. L’abito di una potenza è l’uso abituale di essa e la forma-di-vita è quest’uso» (Agamben, 2018).

Una piccola placca in rame con la figura della Vergine Maria, incisa verso la fine del diciassettesimo secolo, fu trasferita in una modesta chiesa parrocchiale a Neviges, un borgo di origine medioevale poco distante da Colonia. La notizia delle sue proprietà miracolose si diffuse fra le comunità locali, dando origine ad un culto che nel corso dei secoli ha visto un numero sempre crescente di fedeli, viaggiatori e religiosi, conformando così la vita del villaggio, storico baluardo della controriforma cattolica in Germania. Negli anni ’30, più di trecentomila pellegrini l’anno affollavano le strade di Neviges e alcune celebrazioni arrivarono ad ospitare fino a trentamila fedeli contemporaneamente, rendendo così inadeguata all’accoglienza la chiesa tardo-barocca, specialmente nei piovosi mesi invernali.

Fu quindi negli anni ‘50 che i frati Francescani cominciarono a immaginare la costruzione di una nuova chiesa. Il santuario di Neviges sarebbe dovuto diventare un importante edificio consacrato al culto dell’Arcidiocesi, secondo solo al Duomo di Colonia e capace di radunare al suo interno i circa ottomila osservanti che tornarono a celebrare la messa domenicale subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Dopo una serie di progetti sviluppati ma mai realizzati, nel 1962 fu organizzato un importante concorso a inviti ristretto a pochi architetti, in maggioranza tedeschi attivi nei dintorni di Colonia, a cui fu chiesto di disegnare uno spazio sacro che accogliesse novecento posti a sedere, una sacrestia, spazi per la preghiera, confessionali e la cappella dove ospitare l’immagine sacra della Vergine. Il progetto avrebbe inoltre dovuto prevedere spazi a servizio dei pellegrini, un asilo, una residenza per anziani e una sede permanente della missione religiosa. Gottfried Böhm, al tempo già professore ad Aquisgrana, figlio del già celebre costruttore di chiese Dominikus (1880-1955), fu tra gli architetti invitati.

Il contesto architettonico di quegli anni fu segnato dalla volontà di superare la distruzione operata dalla Seconda guerra mondiale spingendo per una rapida e spesso sconsiderata (Leick, Schreiber e Stoldt 2010) ricostruzione. L’enorme produzione di nuove abitazioni ammassate in quartieri standardizzati e inospitali1 – estrema conseguenza dei dettami dell’International Style – portò presto al comparire di una certa nostalgia verso i vecchi luoghi dove la comunità si riuniva e riconosceva; sentimento a cui Böhm non era indifferente e che segnò la sua pratica2. Interpretando il programma di concorso, egli propose una diversa posizione per la chiesa rispetto a quella prevista dal bando ritenendo più adeguato al luogo avvicinare l’edificio il più possibile all’interno del paese, invece di annetterlo fisicamente al monastero esistente sul fronte est, così come desiderato invece dai frati. Böhm sceglie di impostare la nuova costruzione verso il cuore del costruito esistente, più a sud rispetto al monastero, riuscendo così a generare un ensemble armonicamente equilibrato con il contesto. Fulcro della composizione urbana proposta un sistema di spazi aperti – definiti da una generosa gradonata cinta da piccoli edifici ai bordi – da attraversare per giungere all’aula sacra. Unico tra i progetti presentati a prevedere tale disponibilità di spazio pubblico, l’architettura di Böhm mette in opera una modalità dinamica d’esperire il rito del pellegrinaggio, della risalita, del graduale e lento avvicinamento all’immagine sacra. Questo atto di devozione al termine del lungo e faticoso viaggio dei pellegrini è spesso rallentato da scale, gradonate o risalite, caratteristica che ricorre nell’architettura dei santuari come nell’Abbazia di Mont-Saint-Michel in Francia – separata dalla riva da una lingua di terra regolarmente sommersa dalle maree – e il Santuario di Santiago di Compostela in
Spagna, meta di un lungo cammino dove l’edificio sacro è separato dalla vera e propria piazza del sagrato da due scalinate gemelle a doppio rampante. Nel progetto per il nuovo duomo, Böhm accoglie e reinterpreta questo tema alla luce delle specificità del luogo, tenendo insieme il preciso disegno delle necessarie tappe del rito con la fascinazione per le caratteristiche del paesaggio naturale della Bergisches Land – la sua orografia, il modificarsi del piano di calpestio, il contrasto tra solide masse di verde e grandi spazi aperti, prati e specchi d’acqua.

La giuria ritenne l’intervento troppo radicale e poco adeguato alle dimensioni del villaggio. La proposta fu quindi respinta. Il Cardinale Josef Frings, al tempo Arcivescovo di Colonia, non fu però soddisfatto del lavoro della commissione e il concorso venne ribandito nel 1964. Böhm, fra gli altri, fu rinvitato a prendervi parte. La sua seconda versione confermò il concetto urbano già sviluppato in precedenza, con alcune differenze riguardo proprio il disegno degli spazi aperti: la gradonata d’accesso, ovvero una piazza su più quote, viene ad assumere un ruolo ancora più centrale nella composizione generale tanto da apparire quasi come una successione di stanze, capaci di orientare il pellegrino lungo il suo percorso. Gli edifici sul bordo ovest, elementi presenti nella prima versione del progetto, vengono sostituiti da una sequenza di scale capaci di rispondere ai diversi salti di quota, rendendo il progetto un equilibrato sistema in continuità con l’orografia del sito. Dopo le valutazioni della giuria, Frings approvò la nuova versione di Böhm, che in poco meno di due anni, dal 17 luglio 1966 al 22 maggio 1968 (Haung 2017, p.4) fu costruita.

Il rito tra urbano e sacro

I temi di progetto imbastiti da Gottfried Böhm riflettono la sua raffinata sensibilità critica nei confronti di un contesto sia fisico che culturale. Due i registri entro cui si intende discretizzare analiticamente l’opera di Neviges: il rapporto tra edificio e ambiente costruito e l’esplicitazione del rito come fondamento generatore dell’impianto architettonico.

La chiesa di Neviges è una enorme massa, paragonata all’edificato del villaggio fatto di piccole case tradizionali in legno con ripidi tetti a spiovente. I meccanismi compositivi sperimentati affinché questo imponente edificio possa armonicamente risuonare nel sistema urbano esistente vengono da lontano. La scelta strategica di Böhm è stata di affidarsi al riconoscimento di una modalità di insediarsi tipico delle chiese medievali. Basti osservare come, poco più a sud del monastero dei Francescani, la Chiesa evangelica di origine tardomedievale, si inserisca al centro di una corte ibrida, frutto della disposizione delle case in forma circolare: un cerchio (fisico) che racchiude un altro cerchio (simbolico). È ormai opinione consolidata di quanto il simbolo preceda la formulazione di una forma costruttiva (Hautecoeur 1954; Rykwert 1963) e proprio il cerchio, tra le forme pure, è quella deputata a ricoprire duplice valenza simbolica: il cerchio può essere destinato «a proteggere dai pericoli esterni» oppure a «racchiudere, imprigionare. I primi sono le cinte delle città, poi dei templi, e i secondi sono i cerchi funerari. Nei due casi essi costituiscono dei limiti sacri, degli ἄβατα che soltanto alcuni riti permettono di varcare» (Hautecoeur 1954, p. 31). Le case, quindi, il limite circolare a difesa del sacro, che è racchiuso appunto in un’altra stanza dalla vocazione circolare.

La stessa matrice simbolica viene perfettamente assorbita dall’opera di Böhm, che, mantenendo sotto traccia una sequenza di circonferenze – plasmandole plasticamente – disegna, strato per strato, soglie affinché il pellegrino si senta protetto e autorizzato a valicare i limiti del sacro.

L’idea generatrice lega indissolubilmente la lezione ereditata dalla storia con la strategia espressa nella costruzione del Duomo. Proprio dal contesto, dalle sue geometrie, dalla sua grana percepibile, prende forma l’imponente volume, modellato nell’argilla (materia di cui sono state fatte numerose maquette in scala dall’architetto) in cui scoprire un oggetto minerale – un cristallo, memore dell’influenza dell’esperienza dell’espressionismo di Paul Scheerbart e Bruno Taut della Glasarchitektur3 degli anni Venti – e della formazione di Böhm come scultore all’Accademia di Belle Arti di Monaco negli stessi anni in cui affrontava gli studi di architettura. Quanto gli strumenti prevalentemente utilizzati guidino l’attività progettuale e influenzino le scelte è ancora un campo di ricerca fertile, pur tuttavia appare evidente come lo scalfire la massa del nuovo edificio da parte di Böhm sia il risultato di un attento studio del contesto. Le falde dei tetti delle piccole case che circondano la nuova fabbrica sono state guida e riferimento per la modulazione delle pieghe e delle facce che caratterizzano il grande tetto in cemento. La volontà di agire in maniera specifica e ancorata a una precisa realtà storica e fisica fa sì che Böhm affondi le scelte compositive in un doppio livello di significazione: sul piano orizzontale l’inserimento planimetrico è indispensabile per la ricerca di una rinnovata centralità urbana mentre, sull’asse verticale, un lento lavorio di sottrazione di materia è funzionale alla costruzione di una volumetria fatta di mediazioni, apparentemente generata mimando le trame dei tetti delle case circostanti ma al contrario frutto di una calibrata capacità di vedere e sintetizzare la realtà dell’ambiente costruito. Il Duomo di Neviges è progetto urbano, fatto per essere centro di una nuova composizione e contemporaneamente in tensione con esistenti riferimenti. La struttura del tessuto in cui si inserisce diventa regola propulsiva per la morfologia del nuovo, amplificando la vocazione scultorea dell’opera di Böhm.

È determinante, al fine di restituire una lettura dell’evoluzione progettuale del complesso religioso, quanto la consapevolezza dell’importanza del rito del pellegrinaggio sia un riferimento generatore dell’impianto architettonico nella sua interezza. In uno dei primi schizzi di progetto, emerge con forza quanto lo scorrere della vita, le sue dinamiche e la costruzione formale definita appunto dalle azioni dell’uomo, sia centrale nel modo di intendere il progettare per Böhm (1986). «Un edificio è uno spazio umano, sfondo e rappresentazione della sua dignità, l’architettura […] deve adeguarsi naturalmente al suo contesto fisico, sia formalmente che storicamente, senza negare o fantasticare sulle necessità del nostro tempo». Il suolo artificiale, sagrato laico esteso fino ad assumere le dimensioni di una vera e propria piazza per il santuario, è parte fondamentale della composizione dell’intero complesso religioso. Non c’è distinzione di tratto in quello schizzo tra gli spazi coperti e quelli aperti: l’architettura sembra definire uno scavo rispetto al suolo del villaggio (sempre generato dalla forma geometrica del cerchio) in cui possano trovare luogo i diversi modi di abitare il rito del pellegrinaggio, le diverse possibilità di fruire lo spazio, sempre con l’obiettivo di fare comunità. Quattro “placche”, nel primo schizzo, trasformatesi poi in una lenta cordonata limitata a ovest da un filare alberato e a est dall’edificio per l’accoglienza. Il senso immutato. La piazza diventa per Böhm l’opportunità di esplicitare l’indispensabile necessarietà di spazio “vuoto” pronto ad accogliere i pellegrini, ponendoli in prima battuta a una giusta distanza dall’accesso della chiesa (favorendone così una percezione differente da quella possibile invece camminando tra le vie del villaggio) e generando, nel percorrerla, una lenta ascesa, tanto fisica quanto emotiva. L’architettura del complesso religioso è quindi forma costruita capace di esplicitare la volontà di essere a servizio della comunità e dei suoi riti, mantenendo però forte il ruolo – tipico dell’architettura di qualità – di guidare lo sguardo, scandire i gesti e le azioni, in sintesi orientare la vita dell’uomo rendendola migliore.

Il Duomo. Un’architettura urbana

Tre, in estrema sintesi, gli elementi che costituiscono il cluster del Duomo di Neviges: il grande spazio pubblico su più quote, l’edificio – dalla struttura cellulare e ricorsiva – di servizi e accoglienza al pellegrino e, infine, la grande chiesa. La lenta ascesa verso la massa apparentemente impenetrabile in cemento, modulata dal suolo delle stanze a cielo aperto, si compie nell’accesso all’aula sacra, grande spazio dalla potenza urbana racchiuso sotto un grande tetto. La conformazione planimetrica rafforza la comprensione del rapporto di continuità che sussiste con lo spazio esterno, anche se, in sezione, le soglie scavate nel corpo di questa architettura, come antri cavernosi, fanno fisicamente percepire un passaggio di stato, variandone le condizioni: da uno spazio civicamente urbano si viene proiettati in una dimensione metafisica, trascendente e fortemente sacralizzata.

La chiesa di Neviges è una continua sequenza spaziale dalla forte potenza emozionale che rivela, dopo l’accesso a un basso nartece, luogo della decompressione fisica dove gli occhi possono abituarsi alla penombra
e il corpo a una diversa temperatura, la complessa potenza dell’aula liturgica. Uno spazio racchiuso sotto un tetto fatto di pieghe – concave e convesse – calibrate affinché la luce a volte riverberi e altre venga assorbita. Lo spazio dell’aula è definito dall’altare maggiore, centro e fulcro della celebrazione, tra i pochi fissi elementi della liturgia, baricentrico ma lievemente ruotato rispetto all’ingresso per permettere al celebrante di osservare tutta la congregazione e da cui gli altri spazi sembrano essere generati. Due scale interne guidano a tre ordini di balconate che si affacciano sulla congregazione, assicurando che nessun pellegrino sia troppo lontano dal celebrante. Il tetto raggiunge il suo punto più alto fra lo spazio dell’altare e l’assemblea dei fedeli, mettendo in stretta relazione il rito della Comunione e la comunità che partecipa all’azione sacra «consapevolmente, piamente e attivamente»4. Intorno, cavità più piccole, come scavate nelle parete della chiesa, ospitano la cappella dei Sacramenti e quella dell’icona della Vergine, meta finale del rito del pellegrinaggio, situata a sinistra dell’ingresso: esplicita azione tesa a sottolineare attraverso la composizione dello spazio architettonico come il vero obiettivo della peregrinatio sia l’atto collettivo della celebrazione – più che quello intimo e personale della venerazione.

Le innovazioni riguardo l’organizzazione dello spazio del rito già assorbite e messe in opera da Rudolf Schwarz, Emil Steffan e Dominikus Böhm nei primi decenni del XX secolo – e successivamente promulgate dal Concilio Vaticano II nel Sacrosanctum Concilium (coevo al concorso per il santuario di Neviges) – ebbero notevole influenza sulla forma dello spazio sacro per il nuovo Duomo. Dal motu proprio del 1903 di papa Pio X Tra le sollecitudini, la disposizione tradizionale degli spazi interni delle chiese fu infatti messa in discussione da alcune figure del Movimento Liturgico, una corrente teologica tesa a ristabilire la partecipazione attiva dei fedeli al rito, che trovò in Germania un campo fertile di sperimentazione. L’incontro tra Rudolf Schwarz e Romano Guardini – teologo e guida spirituale del movimento giovanile tedesco Quickborn – aprì la strada alla generazione di architetti tedeschi che nel primo dopoguerra sperimentarono possibili disposizioni dell’aula sacra che corrispondessero ad un rinnovato modo di celebrare il culto, autentico e sentito, che raccogliesse i fedeli in preghiera in un rito condotto in una dimensione fortemente partecipativa. «Un dio, una comunità, uno spazio! […] fondere tutti gli elementi spaziali in un’unica aula che li tenga insieme tra loro, formando un grande tetto sopra l’altare»5.

Anche gli elementi dello spazio liturgico della chiesa di Neviges concorrono alla costruzione del carattere urbano dell’opera, prova della continua ricerca di Böhm di una rinnovata urbanità tanto necessaria al costruire comunità. L’aula sembra essere una grande piazza cinta da facciate fatte di case – le balconate – abitate dai fedeli. Il suo suolo “arredato” da elementi leggeri (sedie mobili e non scranni ancorati al pavimento), proprio come uno spazio pubblico di un villaggio. La chiesa, dal crepuscolo, è interamente illuminata da elementi fatti come lampioni da esterno capaci di far riverberare la tessitura in mattoni della pavimentazione disposti a coda di pavone proseguendo quella esterna. La luce è utilizzata per potenziare il carattere evocativo dello spazio. Delle tre alte finestre, quella esposta a sud-ovest illumina l’altare a mezzogiorno, mentre al mattino il sole immerge la cappella sacramentale di una luce scarlatta, dovuta al colore delle ampie vetrate su cui è dipinta la Hardenberger Rose, su disegno dello stesso Böhm. Altre più piccole invece, selezionando quasi singoli raggi taglienti come lame, permettono alla luce di penetrare nel cuore dell’aula.

In una dimensione continua e fluida tipica di un unicum urbano, il Duomo di Neviges si staglia come una importante macchina per vivere il sacro. Böhm è riuscito attraverso la traduzione in forma costruita del rito a tenere insieme una comunità viva e sfaccettata, materializzando in un’espressione architettonica un pensiero progettante che vede nell’esperienza collettiva un atto profondamente naturale, da preservare e tenere sempre vivo. Atmosfera urbana e realtà materica del luogo si fondono grazie a questo imponente edificio che, forte della sua potenza fisica, riesce ad essere condensatore di caratteri e permanenze, esplicitando i valori condivisi dalla comunità attraverso un evidente uso di modalità compositive tutte contemporanee ma che affondano profondamente le radici nella storia. Il complesso rapporto tra suolo, grana del tessuto urbano esistente e indispensabile monumentalità fanno del Duomo di Neviges una emblematica messa in opera di intenzioni e azioni tese alla costruzione di una architettura sacra dall’evidente carattere civile.

Note

1 Cfr. Mitscherlich A. (1965) – Die Unwirtlichkeit unserer Staedte: Anstiftung zum Unfrieden, 10th ed. (Frankfurt/Main: Suhrkamp, 1971) trad. It (1968) – Il feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di discordia. Einaudi, Torino.

2 «We find these uniform estates and characterless cities everywhere, full of blocks of buildings with no sense of scale, featureless, with no depth or sculptural form. Resistance to this makes it easy to understand our interest in the formal richness of old things and the delight we take in the great formal variety offered by the new architecture». BÖhm G. (1963) “Uber St. Engelbert in Koln-Riehl” In: Hoster, J. e Mann A. (a cura di), Vom Bauen, Bilden und Bewahren. Festschrift fur Willy Weyres zur Vollendung seines 60. Lebensjahres. Greven & Bechtold, Colonia, 377.

3 Cfr. Scheerbart, P. (1918) – Glarsarchitektur, Verglag der Sturm, Berlin, trad. It. (1982) – Architettura di vetro. Adelphi, Milano.

4 Sacrosanctum Concilium. Costituzione Sulla Sacra Liturgia (1963), 48.

5 Cfr. Acken, J. v. (1922) – Christozentrische Kirchenkunst. Ein Entwurf zum liturg. Gesamtkunstwerk. Theben, Gladbeck.

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