Sacralità della natura e interiorità delle forme. Interpretazioni contemporanee della cappella nel bosco

Francesca Addario




In questo momento storico così singolare l’uomo è tornato a cercare le ragioni del proprio operare, a domandarsi qual è il significato e il ruolo del proprio essere nel mondo, a discernere e a dare il giusto peso alle cose che accadono e che lo mettono alla prova. L’esperienza pandemica che, nostro malgrado, il mondo ha dovuto inaspettatamente fronteggiare nell’ultimo periodo, ci ha destati da una condizione di dormienza nella quale più o meno inconsapevolmente eravamo, da quel loop meccanico di gesti, azioni e ritualità quotidiane che ogni giorno ci assorbono e ci distraggono dal fatto che il tempo delle nostre vite è un tempo limitato. La messa in discussione del concetto di relazione e la negazione di ogni contatto fisico con l’altro, per la paura di accelerare il contagio, ci hanno riportati in una dimensione più intimista e riflessiva rivelando la necessità dell’uomo di relazionarsi e mettersi in contatto con l’esterno, forse perché lo spazio della natura rimanda a una dimensione originaria e ancestrale che riguarda l’esistenza e il senso profondo del proprio vivere. La natura, come emblema della vita che ciclicamente si trasforma, richiama alla mente una visione cosmogonica e universale nella quale è rintracciabile un ordine superiore che la eleva agli occhi umani: ecco spiegato il motivo per cui, sin dall’antichità, presso numerosi popoli, dalle più diverse culture e tradizioni, la natura è stata costantemente divinizzata e sacralizzata.

Nelle fattezze di un bosco, di un deserto, di una distesa d’acqua, di una montagna o addirittura di una palude la dimensione naturalistica di uno spazio incontaminato può essere l’evocazione del metafisico. Difatti quando l’uomo è innanzi alla natura, e in essa avverte una forza invisibile che quasi travalica la sua finitezza umana, l’animo inconsciamente si predispone a cercare una qualche relazione con essa: è in questa costante
tensione dell’uomo verso la natura che si manifesta l’indissolubilità del loro legame. È allora quel mistero, che nella natura intrinsecamente si nasconde, a determinare la condizione estatica dell’uomo nei suoi confronti, una condizione che, appunto in chi la attraversa e ne fa diretta esperienza col corpo e con la mente, può oscillare tra un cauto timore o una profonda devozione. Detto in altro modo, lo stato d’animo che l’uomo attiva nei confronti della natura, può variare tra il riconoscimento della sua immensità e irraggiungibilità, che ne presuppone un autorevole rispetto (ehrfurcht), ad uno stato di simbiotica empatia (einfühlung).

Oggetto di un forte simbolismo, nella letteratura, nella filosofia e nell’arte figurativa, l’ambivalenza con la quale la natura è stata interpretata nel tempo, come benigna o matrigna, è l’esito delle diverse epoche storico-culturali che l’uomo ha attraversato e che, inevitabilmente, ne hanno condizionato il modo di guardare e di decifrare il mondo. Tra le tante forme in cui la natura si manifesta, il bosco è tra le immagini forse più radicate nella memoria primitiva dell’uomo. Nella mitologia classica esso è stato considerato la dimora delle Muse, un luogo dalla forte carica spirituale nel quale pare risiedesse il divino. La sua doppia accezione come silva (ὕλη) – luogo in cui la natura è libera, incontaminata e inaccessibile – e come lucus (ἄλσος) – luogo sacro nel quale risiedono sconosciute forze primigenie e divine – ha influenzato non a caso l’immaginario di moltissimi autori e artisti che hanno scelto il bosco per l’ambientazione di racconti e figurazioni. Se quindi da un lato esso è un luogo impervio e oscuro che suscita nell’uomo le sue più profonde paure – un luogo misterico, allegoria dello smarrimento interiore, dell’insondabile, dello straniamento, dell’interiore – dall’altro – poiché lucus, oltre che da locus, luogo, deriva anche da lux, luce – figurativamente nel bosco sacro c’è un richiamo anche all’immagine della radura dove la luce appunto può irradiarsi. Nel bosco convivono quindi due opposti, così come nel deserto: anche in quest’ultimo caso vi è una doppia concezione della figura desertica che da cangiante distesa di sabbia sotto il sole rovente del giorno si trasforma, di notte, nella più pura, limpida e oscura manifestazione della volta celeste, spettacolo assoluto della grandezza della natura.

All’interno di questa relazione così intensa e scambievole tra sacro e natura anche l’architettura fa la sua parte nella rivelazione e nello svelamento dello spirituale.

Gli spazi costruiti sulla base di questo rapporto emanano una forte carica introspettiva in chi li attraversa, quasi come se essi avessero già una sorta di predisposizione naturale all’introversione. Renato Rizzi ha parlato, a tal proposito, del concetto di interiorità della forma 1 attribuendo un carattere che tipicamente appartiene alla sfera della persona – l’interiore – all’architettura, alla città e anche al paesaggio: un carattere di seria commozione e di trasporto verso una dimensione intimistica dell’animo che la forma induce nell’uomo. L’interiorità della forma può essere il carattere architettonico attraverso il quale possono essere letti alcuni recenti esempi che si sono fatti carico di decifrare il sacro.

Senz’altro la cappella nel bosco ha suggestionato l’immaginario di molte interpretazioni contemporanee sul tema, la più recente delle quali è ascrivibile all’esperienza vaticana delle dieci cappelle, nel bosco dell’isola di S. Giorgio Maggiore, per la Biennale di Venezia 2018. La mostra, dal titolo Vatican Chapels, è stata immaginata come un padiglione diffuso nel bosco – da scoprire adagio – un catalogo di traduzioni contemporanee della sacralità. Nella costruzione e nella concezione di questi piccoli padiglioni che, per espressa richiesta del Vaticano, sarebbero dovuti essere trasportabili, nell’ipotesi di una loro potenziale ricollocazione, i progettisti coinvolti nella prestigiosa iniziativa 2 hanno per lo più cercato di esprimere e rappresentare la tradizione costruttiva e materica del loro paese di origine.

La cappella è un luogo di dimensioni contenute che può avere diversi scopi e destinazioni: può essere luogo di culto o di approdo, di sosta o di meditazione. Poiché essa non è necessariamente associabile ad uno specifico culto religioso il simbolo della croce non era stato espressamente richiesto dalla Santa Sede che quindi ha aperto anche all’ipotesi di immaginare degli spazi laici.

Come sempre il progetto è (o almeno dovrebbe esserlo) la trasposizione di un’idea in cui si crede e che con l’architettura si cerca di trasmettere, un’idea che viene mediata attraverso la costruzione di uno spazio che aspiri, nella sua essenza, a diventare luogo. Da una lettura comparata le spazialità delle dieci cappelle sono diverse tra loro pur avendo alcuni attributi ricorrenti. Volendo trovare delle categorie descrittive – anche per capire in che modo ciascuna di essa manifesti l’interiorità della forma sacra – si potrebbe osservare come alcune abbiano lavorato sull’oppositivo contrasto tra esterno e interno; altre sulla ricercata combinazione di matericità tra spazio e luce; altre ancora sul rimando ad evocativo simbolismo; altre sull’essenziale archetipicità del muro.

Rispetto all’idea di contrasto, dal punto di vista costruttivo e formale, le cappelle di Berman e Fujimori – sebbene entrambe utilizzino cromie inverse per l’esterno e l’interno – sono anche, tra gli altri, i progetti che più si avvicinano alla cappella di Asplund: la prima, di pianta triangolare, la ricorda nel preludio d’ingresso che rivela un interno molto buio nel quale penetra solo una fioca luce naturale dall’alto; la seconda, di pianta regolare, la ricorda invece nel tetto a capanna parzialmente sorretto da sostegni lignei tra i quali si apre uno stretto varco che consente l’ingresso di una sola persona per volta.

In riferimento ad una particolare attenzione per l’aspetto materico dello spazio interno, Radic ha realizzato una cappella tronco conica, dal tetto trasparente, con gusci di cemento texturizzati da una trama di pluriball, inserito nelle casseformi prima del getto.

Per quanto riguarda l’aspetto luministico come parte imprescindibile dell’esperienza dello spazio, la cappella di Foster – una tensostruttura con rivestimento ligneo rivolta verso la laguna – è tra i progetti che più hanno lavorato in questa direzione: qui infatti l’esperienza della natura circostante attraversa l’intero spazio della cappella in un caleidoscopico gioco di luci ed ombre che cambia nelle diverse ore del giorno. Infine, il padiglione sospeso di Corvalán rimanda all’immagine di una bricola veneziana ma d’acciaio – sicuramente è la proposta meno temporanea –; anche qui la luce è la vera protagonista poiché definisce sulla terra, tra l’ombra delle alberature che lo circondano,
un grande oculo di luce nel quale, in determinati momenti della giornata, viene proiettata l’ombra di una croce tridimensionale.

Le proposte di Cellini e di Godsell richiamano invece, in modi diversi, la simbologia della croce: mentre l’architetto romano ha optato per un incrocio volumetrico di due parallelepipedi con due dei sei lati aperti – anche in questo caso vi è l’utilizzo di colori opposti – l’architetto australiano ha realizzato un prisma a base quadrata con struttura a pali di legno e acciaio la cui parte basamentale si apre in modo da richiamare, da una vista planimetrica, l’immagine di una croce. Anche il progetto di Juaçaba rientra in questo gruppo: con pochi ma calibrati segni – quattro travi in acciaio inossidabile a specchio poggiate su sette plinti che fungono da panche – si determina uno spazio totalmente aperto alla natura nel quale essa stessa viene riflessa.

Flores e Prats hanno invece realizzato la loro cappella nello spessore variabile di un muro: tale muro, dal lato di minor spessore, presenta la fenditura d’ingresso attraversata la quale il visitatore si trova dinanzi uno squarcio naturale che lo accoglie; sul lato di maggior spessore è stato invece ricavato lo spazio di una nicchia aperta verso la natura e la laguna, dove è collocato il leggio. Anche Souto de Moura costruisce la sua cappella mediante un muro in pietra di Vicenza, un recinto di uno spazio trapezoidale con i lati obliqui, che inviluppa uno spazio interno raccolto e ombreggiato da un tetto in corrispondenza dell’altare.

Ma è sicuramente nel rapporto con la natura circostante del bosco che ogni cappella ha reso “concreta” la percezione del sacro: pur nella diversità concettuale, formale e materica, ognuna delle cappelle ha ricercato un rapporto unico con la natura del suggestivo sito che, a seconda dei casi qui tratteggiati, è stata interpretata dai progettisti o come una copertura naturale (nei progetti di Corvalán, Juaçaba, Radic, Souto de Moura), o come un fronte scenico (nei progetti di Cellini, Flores e Prats, Godsell), o come un traguardo visivo (nei progetti di Foster e Fujimori), o ancora come un fondale incontaminato (nel caso di Berman): così si compie l’esperienza dell’interiorità di questi spazi.

Il carattere dell’interiore è indubbiamente presente anche in altri esempi.

Tra le tantissime opere di Paolo Zermani, per affinità tematica con quanto si sta trattando, la Cappella nel bosco 3 è significativa perché si carica del significato di luogo attraverso la presenza di soli tre elementi – una croce, un muro e una seduta – che in pianta restituiscono un punto e due linee ortogonali. Il bosco Parmense impregna la scena nella quale si colloca la discreta cappella che, attraverso l’essenzialità incisiva di pochi segni, costruisce un luogo elementare, uno spazio metafisico che si mette in sintonia con la natura circostante. Il sole che illumina la croce ne proietta sul muro e sulla terra l’ombra e completa la profondità espressiva del progetto: così si compie la suggestione di un’esperienza pervasiva che attraverso la natura racconta dello scorrere del tempo.

Anche la Cappella San Bernardo di Nicolás Campodonico, situata nei pressi di un piccolo bosco vicino Cordoba, è nata da un rapporto di forte dipendenza con la luce: l’orientamento della cappella è stato infatti studiato in modo tale che due travi proiettino nella calotta interna della cappella un’ombra che, nelle ore del tramonto, disegna progressivamente una croce. Lo spazio che si viene a determinare racconta al visitatore del trascorrere del tempo e rende l’esperienza del sacro attraverso la natura, la luce e l’architettura, coinvolgente e ogni volta unica.

Non ultima la Cappella di Bruder Klaus di Peter Zumthor, nelle vicinanze di Colonia, è l’emblema di una sorprendente esperienza dove luce e materia vanno a definire un ambiente mistico e ascetico in uno spazio interno totalmente inaspettato: qui contrasto materico ed esperienza spaziale sono stati poeticamente connessi: la cappella esternamente ha la forma di un prisma a base pentagonale con una sola grande apertura di accesso; internamente lo spazio, illuminato unicamente da un occhio di luce naturale, è il risultato di una gettata di calcestruzzo su una cassaforma costituita da pali in legno a diametro variabile, in seguito arsi per la loro rimozione. L’ambientazione scura della cappella, dovuta proprio dalla scelta di questo procedimento tradizionale del luogo, presenta nell’interno una matericità rugosa, quasi come se si fosse nell’interno del guscio corteccioso di un albero; in più in corrispondenza dei fori rimasti nel calcestruzzo Zumthor ha localizzato delle perle di cristallo che, quando la luce esterna si irradia nell’interno, diventano quasi come delle gocce d’acqua cristallizzate, incastonate nella superficie delle pareti.

L’esperienza della natura e la rivelazione della sua sacralità sono ovviamente evidenti anche in molte altre architetture legate al culto, alla memoria e al ricordo: dai memoriali ai cimiteri, dai crematori ai mausolei fino ai santuari. Si pensi ai numerosissimi eremi e santuari italiani che dalle loro posizioni acropoliche guardano a paesaggi lontani e silenziosi che regalano la quiete in chi li osserva amplificando l’esperienza della natura; o all’opera di Dani Karavan in memoria di Walter Benjamin o al Monumento alla partigiana veneta di Carlo Scarpa o ancora al suggestivo cimitero del mare a Fisterra di Cesar Portela che si interpone tra la terra e il mare.

Tutti i luoghi dominati dalla natura sono luoghi che per propria vocazione, come si è cercato di affermare, predispongono all’interiorità. La singolarità della natura che, come si è visto, diventa orizzonte o fondale scenico di alcuni fortunati progetti, come quelli descritti, è certamente una condizione che in un certo qual modo aiuta l’architettura a definire, attraverso la relazione e il vicendevole scambio con l’esterno, una dimensione sacrale con il luogo. Ciò non esclude che anche l’architettura, attraverso l’attenzione, la sapienza costruttiva e la consistenza materica di chi la immagina e la realizza, contribuisce a costituire – con la natura – i luoghi dell’alterità: luoghi che nutrono lo spirito e l’interiore, luoghi nei quali vagare e fermarsi, riflettere e perdersi tra la solitudine e la nostalgia di un malinconico ricordo, tra la meditazione e la contemplazione della natura e della vita.

Note

1 «Nessuno può negare la nostra interiorità. Anche se poi l’impatto della parola nella nostra mente ha molto spesso un effetto indefinibile. Sfuma rapidamente nelle nebulose dei sentimenti o dei pensieri. Figuriamoci invece se qualcuno ci chiedesse di spiegare cos’è l’interiorità della città, del paesaggio, della periferia, degli edifici»; estratto disponibile su https://divisare.com/projects/286717-renato-rizzi-parma-inattesa-lo-spazio-del-pudore o anche in Rizzi R. (2013), Parma inattesa. Lo spazio del pudore. Monte Univeristà Parma, Parma.

2 L’iniziativa ha previsto il coinvolgimento di A. Berman, F. Cellini, J. Corvalán, R. Flores e E. Prats, N. Foster, T. Fujimori, S. Godsell, C. Juaçaba, S. Radic ed E. Souto de Moura. A F. Magnani e T. Pelzel è stato invece affidato l’allestimento del padiglione zero incentrato sul progetto ispiratore della mostra: la cappella nel bosco di Gunnar Asplund nello Skogskyrkogården di Stoccolma.

3 Paolo Zermani ha lavorato molto sul tema della cappella tra le quali si ricordano la cappella sul mare a Marsascala, la cappella Noceto a Parma e la cappella-museo della Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi.

Bibliografia

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