Il luogo del ritorno. Principi insediativi della tomba islamica

Claudia Sansò




«Non vivrete in sepolcri edificati dai morti per i vivi»
Gibran Kahlil Gibran

Nel Profeta di Kahlil Gibran, il migrante Almustafà dopo aver trascorso dodici anni nella terra d’Orfalese fa ritorno alla sua isola nativa, il Libano, allegoria della Vita Assoluta. Ad attenderlo al porto della città c’è una nave che non può aspettare troppo e un popolo supplicante la sua permanenza. Il racconto di Gibran è esemplificativo della concezione dell’esistenza dopo la morte per l’Islam. «Un attimo: e in una breve calma di vento un’altra donna mi partorirà» (1923). Con queste parole Almustafà ricorda agli uomini d’Orfalese che il momento della morte è sempre seguito, attraverso una brevissima pausa, da una risurrezione, spesso una vera e propria reincarnazione.

Il passaggio dal vivente all’inanimato si traduce in architettura attraverso la potenza edificatrice della forma che nelle tombe islamiche invece di delimitare lo spazio “sacro” ne puntualizza la centralità per indicare il “punto di partenza”, il luogo del ritorno. Esemplare è il caso del mausoleo di Isma‘il a Bukhara, la più antica tomba persiana: un padiglione quadrato, voltato a cupola, aperto su tutti e quattro i lati nell’intenzione di sottolineare l’assenza di un’assialità gerarchica in luogo di un’assoluta centralità.

La trasformazione del defunto in “antenato”, così come spiega Mircea Eliade (1969), corrisponde alla fusione dell’individuo in una categoria d’archetipo. Se quindi ciascun uomo, giunto al “fine vita” deve ritornare al punto d’origine ove lo attende la Vita vera, la Vita Assoluta, il rito che “accompagna” al luogo del ritorno, si fa anche rito che “tramanda”. Eppure, Maometto dichiara «La più bella tomba è quella che scompare dalla superficie della terra». Sia per la costruzione dello spazio dedicato
ad Allah che per quella della dimora delle anime, l’unica prescrizione coranica è infatti l’orientamento alla Mecca: durante la vita terrena il fedele deve pregare volgendo lo sguardo verso la città sacra e ancora, proprio come un ciclo eterno, nella vita dopo la morte, il corpo inanimato avvolto in un numero dispari di sudari (kafan), direttamente a contatto con la terra, deve essere disposto in modo che il corpo poggiato sul lato destro guardi verso la Kaaba.

Nella tomba l’anima viene interrogata dagli assistenti di ‘Izrā’īl, l’angelo della morte, circa le azioni compiute in vita. Tutte le anime abiteranno la tomba come luogo di “passaggio”, fino al giorno del Giudizio, (Yawm al-Dīn), ma a quelle che avranno dimostrato di aver appartenuto ad un uomo o una donna di profonda fede saranno mostrate le bellezze del Paradiso che le attenderà, all’opposto, alle anime che avranno confessato una vita terrena empia saranno preannunciate le pene dell’Inferno. Arriverà il Giudizio di Dio che peserà le anime disponendo sui due piatti di una bilancia escatologica (mīzān) i fogli sui quali gli angeli hanno trascritto tutte le opere buone e quelle cattive compiute in vita. Dopo il responso, le anime percorreranno un ponte che attraversa l’Inferno: le anime che contano più azioni indegne cadranno giù, quelle con un peso maggiore di azioni meritevoli proseguiranno il cammino che condurrà ad una fonte alla quale potranno dissetarsi prima di accedere al giardino del Paradiso.

L’edificazione della tomba islamica: principi insediativi del monumento al “luogo del ritorno”

Carlos Martí Arís sostiene che «Ogni rito rimanda a una forma: l’operazione attraverso la quale l’attività acquista una forma stabile costituisce l’architettura. Da qui il legame profondo che la unisce al rito, non solo nelle culture tradizionali, dove l’organizzazione dello spazio è un riflesso trasparente di un rituale riferito all’ordine cosmologico, ma anche nel mondo moderno in cui l’architettura ha perso la sua antica sacralità» (1990).

La primitiva dottrina musulmana vietava qualsiasi glorificazione architettonica delle tombe perché fatte derivare da usanze cristiane o ebraiche improprie. Come ricorda Oleg Grabar (1989), la taswiyah al-qubur, “equalizzazione delle tombe (con il terreno circostante)”, era considerata l’espressione più appropriata dell’uguaglianza di tutti gli uomini nella morte. Se a questo si aggiunge che il Profeta aveva detto: «Un edificio è la più vana delle imprese che possano divorare le ricchezze di un credente» sembra quasi inspiegabile il gran numero di edifici che hanno a che vedere con il concetto di “sacro”, realizzati nelle terre del Dar al Islam, tra questi innumerevoli tombe e mausolei.

Titus Burckhardt (1989) ci segnala però che tale generosa edificazione nelle città musulmane è da rintracciare nella venerazione dei wali, i santi, considerati nel Corano non come morti ma come «viventi senza che voi li sentiate», e dalla volontà di califfi e sultani di “tramandare” il proprio nome. Ciò che viene edificato dunque non è un’architettura che possa “contenere” la tomba ma è un’opera che sia in grado di “segnare” il luogo del ritorno, tanto meritato da chi lì giace. L’uomo che è sepolto a non più di un metro sotto quel pezzo di terra ha compiuto nella vita terrena gesta tanto esemplari da guadagnare in ricompensa al momento della sua morte o meglio per il passaggio alla vita Assoluta, un monumento.

Alcune tombe infatti sono dei padiglioni decoratissimi, altri veri e propri edifici, talvolta annessi ad ulteriori servizi, con particolari modalità insediative, differenti a seconda della cultura urbana appartenente alle città nelle quali si inseriscono.

Due straordinari esempi, sintetici di tali distinte grammatiche, sono il complesso Qala‘un, al Cairo, e la Yldrim kullyye di Bursa, il primo aderente ad una composizione “sintattica” in cui prevale un ordinamento spaziale “chiuso”, il secondo predilige un modello “paratattico” che costruisce prospettive “aperte”.

La tomba è un elemento/figura di queste composizioni.

Nell’edificio del Cairo, in un grande impianto si concentrano gli spazi della madrasa (scuola coranica), del maristan (ospedale) e della tomba. La madrasa e la tomba ruotano come un corpo unico all’interno del grande complesso, per assecondare il corretto orientamento verso la Mecca. Un lungo corridoio che separa i luoghi dell’insegnamento dallo spazio funebre, dedicato alle spoglie del sultano Qala‘un, conduce all’ospedale cruciforme con tipo ad iwan, non più esistente. L’edificio della tomba si costruisce specchiando lo spazio – analogo ma non identico, per forma e dimensione – della corte e dell’iwan della madrasa. Un piccolo atrio annuncia lo spazio dell’aula quasi quadrata della turbah (tomba in arabo) da cui deriva il termine turco türbe e che vuol dire “terra”.

Nella cultura musulmana, sia araba che ottomana, i sovrani dotavano la città di edifici pubblici e completavano l’opera edificando per sé stessi un monumento all’aldilà come luogo di ricompensa.

Se nella città islamica araba la concentrazione di più spazi in un’unica sintassi è tipica di un tessuto urbano che affida al recinto sia la costruzione delle case che degli edifici pubblici e collettivi, la configurazione della città ottomana è assegnata ad una modalità dispositiva che definisce un sistema topologico fondato su oggetti architettonici “aggregati” in tensione dallo stesso spazio che li separa. Le kullyye di Istanbul che rappresentano dei complessi architettonici seguono ancora una logica spaziale dell’internità. Qui infatti le tombe sono collocate in un sistema di grandi recinti che si dispongono in successione: lo shan, la moschea, il piccolo giardino/cimitero, come avviene ad esempio nella kullyye di Fatih.

A Bursa invece questi complessi di edifici rispondono ad una sintassi urbana che aderisce ad una logica spaziale dell’esternità, ove gli elementi non sono tenuti insieme da un sistema di recinti ma da una “congiunzione” affidata allo spazio non costruito che si interpone. Il sistema formale di moschea, madrasa e turbe resiste per differenza e per grana oggettuale all’addensarsi del tessuto urbano al contorno. In particolare, nella Yldrim kullyye, i tre elementi rappresentano le figure della composizione: l’edificio moschea è posto su un podio leggermente più in alto rispetto ai due elementi della madrasa e dell’aula cupolata tetrastila che definisce la türbe. La moschea è collocata con l’orientamento verso la Mecca, la madrasa ruota di 50° rispetto ad essa e il piccolo edificio della tomba assume la stessa giacitura della scuola coranica ma disposto ortogonalmente ad essa. Questa triangolazione genera una tensione in cui l’elemento tomba che partecipa alla grammatica urbana completa la composizione tripartita. Si costruire quindi per solitaires un luogo singolare, in cui lo spazio urbano assume carattere “sacrale” non solo per il tema al quale ciascuna architettura risponde ma per il suo significato di “separato”, “messo a distanza”. «Il sacro è ciò che di per sé resta a distanza, nella lontananza, e col quale non ci possono essere legami (o solo un legame molto paradossale). Esso è ciò che non si può toccare (o che si può toccare solo senza contatto» (Nancy 2007).

Un'interessante e recente costruzione di tomba islamica è il Memorial Rafic Hariri, costruito a Beirut dallo studio francese Marc Barani1. In memoria dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri, assassinato nel 2005 durante un attentato, non viene eretto un edificio ma una piazza, un grande podio accanto alla moschea Al-Amine. «Il luogo di sepoltura di questo uomo pubblico sarà uno spazio pubblico» (Barani 2019). Sul basamento le undici tombe delle guardie del corpo di Hariri che emergono in blocchi di pietra rettangolari, insieme ad un grande quadrato più alto che rappresenta il luogo di sepoltura dell’ex primo ministro, sono orientate, insieme alla grande moschea, verso la Mecca.

Nel mondo islamico, a differenza del mondo occidentale, la morte non è considerata un tabù e ciò si manifesta nella modalità di insediamento all’interno della città di “spazi per la morte” che però sono spazi dove si svolge la vita, spazi “speciali”, o meglio “straordinari” in doppia misura, in quanto distinti dall’idea che costruisce per ripetizione lo spazio dell’abitare individuale e perché spazi in cui si mette in scena l’“incontro” numinoso tra il tangibile e l’intangibile, tra l’uomo e il divino2. Questi sono gli spazi “sacri”, ove, come ci avverte Károly Kerényi (2001), per la piena coscienza della differenza tra ciò che si rende reale e ciò che non può esserlo, ha svolgimento la “festa” in quanto esperienza spirituale collettiva.

Separando una parte dal tutto mondano per sacralizzarla, si compie una scelta perché si riconosce un oggetto, una forma o uno spazio che differisce dal resto. «In mezzo a tante altre pietre, una pietra diventa sacra – e di conseguenza si trova istantaneamente saturata d’essere – perché costituisce una ‘ierofania’, o possiede del mana, o la sua forma mostra un certo simbolismo o anche perché ricorda un atto mitico, ecc. L’oggetto appare come un ricettacolo di una forza esterna che lo differenzia dal suo ambiente e gli conferisce senso e valore» (Eliade 1968).

La tomba/mausoleo dunque partecipa alla costruzione dello spazio collettivo, talvolta in adiacenza agli spazi dell’apprendimento coranico, talaltra attraverso sistemi ‘paratattici’ a più elementi, insieme agli spazi della preghiera quotidiana, fino a diventare un’occasione per la ridefinizione di uno spazio pubblico, offrendo i luoghi della morte allo svolgimento della vita.

Note

1 Cfr. Marie-Anne Ducrocq, La tomba di Rafiq Hariri a Beirut: la scommessa del vuoto, “Compasses”, n. 31, 2019.

2 Cfr. Mircea Eliade, Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 1965 [trad. it. Il sacro e il profano, a cura di Edoardo Fadini, Universale Bollati Boringhieri, Torino 1968].

Bibliografia

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BURCKHARDT T., (2002) – L’arte dell’Islam. Abscondita, Milano.
DUCROCQ M.A., (2019) – “La tomba di Rafiq Hariri a Beirut: la scommessa del vuoto”. Compasses, 31, 2019.
ELIADE M., (1965) – Le sacré et le profane, Gallimard, Paris. [trad. it. Il sacro e il profano, (a cura di) E. Fadini. Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1968].
FUSARO F. (1984) – La città islamica. Laterza, Roma-Bari.
GRABAR O. (1989) – Arte islamica: formazione di una civiltà, Electa, Milano.
HOAG J.D. (1973) – Architettura islamica. Electa, Milano.
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