La costruzione dell'enigma. Dusan Damonja e l’Ossario dei Caduti Slavi di Barletta

Giuseppe Tupputi




Arrivando dal litorale di Ponente, l’Ossario dei Caduti Slavi1 di Barletta appare in lontananza, appoggiato sul bordo di una leggera china rivolta verso l’Adriatico, ed emerge appena, con le sue sagome turrite, dalla rigogliosa vegetazione cimiteriale. Sin dal primo sguardo, il monumento impressiona per la misteriosa eloquenza delle sue forme, che appaiono assertive, magniloquenti, però anche ambigue ed ermetiche. Ma è avvicinandosi al memoriale e attraversando i suoi spazi interni, densi di figure simbolico-plastiche mai viste prima e in cui però riecheggiano contenuti primordiali e archetipici, che ci si apre all’esperienza dell’enigma.

Tenendo insieme, all’interno di un’unica e coerente narrazione architettonica, la perentorietà dei segni e l’ermetismo dei significati, quest’opera – progettata dallo scultore croato Dušan Džamonja – traduce la tragica memoria legata agli eventi bellici del secolo scorso nel corpo di una sfinge. È questa la sua caratteristica peculiare e di più attuale interesse, ed è infatti significativo notare come l’originalità dei contenuti morfologico-spaziali del memoriale di Barletta – che soggiace al suo fascino misterioso – sia l’esito di un calibrato disegno, di una strategia compositiva appositamente ideata per rispondere a determinate esigenze concettuali ed estetiche, relazionate a ben precisi ideali politici e culturali, oltre che a una specifica traiettoria di ricerca autoriale sul tema della composizione plastica dei volumi nello spazio.

Da un lato, il tema del memoriale costituisce per Džamonja il punto di arrivo di una sperimentazione scultorea che, con queste esperienze, raggiunge la sua massima espressione monumentale (Marchiori 1975) e il suo più alto grado di maturità artistica2. Dall’altro, tale tema incarna una grande complessità semantica, in quanto «unisce la commemorazione della morte [intesa come esperienza individuale] ad una ben precisa concezione
ideologica [intesa come esperienza collettiva]» (Argan 1981 p. 8) legata al contesto jugoslavo del secondo dopoguerra.

Nell’ex-Jugoslavia, la Resistenza al nazifascismo confluì in una Rivoluzione Socialista che condusse i popoli slavi meridionali (serbi, croati e sloveni) ad unificarsi nella Federazione Jugoslava, che si propose sin da subito come un paese moderno ma indipendente dai capitali europei ed americani, socialista ma indipendente dall’Unione Sovietica (Argan 1981, p. 7). Ben presto, in ragione di tali sviluppi, i sentimenti legati all’autofondazione, all’unità e all’autonomia nazionale si riversarono in tutti gli ambiti della vita civile del paese, soprattutto in quelli artistici, comportando l’esigenza di esplorare orizzonti estetici distanti sia dal Modernismo europeo che dal Realismo socialista, e aprendo la via a quello che è stato poi definito il Terzo Spazio3 dell’arte jugoslava.

In questo particolare contesto storico, il tema dell’architettura commemorativa assunse un ruolo di rilievo all’interno delle strategie del governo di Tito, orientate a costruire l’epica narrazione della neonata Federazione Jugoslava. Ma, come scrive Niebyl (2016), in un paese appena unificato, «composto sia dalle vittime della recente guerra che da alcuni dei loro carnefici» l’istanza commemorativa si confrontò anche con altre ambiguità e contraddizioni.

Pensati come possibili «santuari per la riconciliazione» nazionale, i memoriali jugoslavi richiesero infatti di sperimentare modalità espressive in grado di non trasmettere ostilità e inimicizia, ma di aprire a una nuova fase di confronto e coesione tra i differenti popoli e/o gruppi etnici della Federazione. Inoltre, all’interno di un’ideologia che presupponeva lo sviluppo autogestionario dello stato e che intendeva la rivoluzione socialista non come un evento concluso, ma come un processo in continuo divenire – «che è progresso sociale e battaglia di classe» (Mikuž 1980) – si ricercò un rapporto più aperto con l’interpretazione della storia e, dunque, della memoria.

«Contrariamente ai memoriali tradizionali, queste sculture danno preferenza a un tipo di percezione e di comprensione che si oppone alla presenza di un unico punto di vista razionale e sempre intelligibile; come in una narrazione poetica, il didatticismo e persino, o addirittura il monito, vengono sostituiti da puri valori spaziali e formali» (Mikuž 1980).

Gli spomenik jugoslavi furono dunque concepiti al fine di conformare spazi in grado di innescare un inedito rapporto esperienziale con il soggetto fruitore, rinunciando al modello di una relazione passiva nei confronti dell’opera e spingendo invece il visitatore a elaborare interrogativi sulla memoria, senza però mai cristallizzarla in forme compiute.

Queste complesse esigenze concettuali e poetiche si tradussero nell’audace sfida di ricercare e sperimentare inedite strategie compositive e linguaggi artistici a cavallo tra il realismo e l’astrazione, tra il riferimento alla tradizione e l’apertura alla modernità, tra il simbolismo delle figure e la plasticità delle forme, e, inoltre, nell’intersezione tra i saperi della scultura, dell’architettura, dell’ingegneria e della land art.

Džamonja ha affrontato questa sfida raccogliendo e facendo tesoro di ogni dicotomia, di ogni contraddizione, di ogni ambiguità e, consapevole che la formulazione contraddittoria è la caratteristica dell’enigma (Colli 1975, p. 23), le ha poste a cardine dei processi formativi delle sue opere.

Ma ciò non basta. Per dare profondità e spessore all’enigma, l’intuizione di Džamonja è quella di attingere ad un immaginario poetico che affonda le sue radici direttamente nell’interpretazione dei «processi formativi primordiali», degli antichissimi «memoriali e segni cosmogonici»,
dei dolmen e dei menhir4, arricchiti però, come scrive Mikuz (1980), «da millenni di esperienza nella pratica dell’architettura, dell’urbanistica, del progetto urbano e paesaggistico».

È grazie al recupero di questo «immaginario lontano (il ‘mondo oscuro’ di Freud)» (Semerani 2007, p. 28) che, spingendosi fin sull’orlo di quell’abisso che è l’inconscio della tradizione, Džamonja riesce a dominare l’impeto delle tensioni rappresentative del suo tempo, governando il passaggio dalla dimensione poetica e ideologica a quella scultorea e architettonica, dalla pura ‘volontà di rappresentazione’ alle tecniche compositive necessarie allo sviluppo di ogni pratica artistica.

È interrogandosi sull’origine di queste forme primordiali che egli riscopre infatti la loro ragione fondativa che, come scrive Giulio Carlo Argan (1981, p. 8), consiste nel «marcare la centralità spaziale di un sito che alcuni eventi passati hanno reso sacro per una comunità che lì si riunisce per celebrare i propri riti». Ecco perché il memoriale, prima di essere una forma, è soprattutto un luogo.

Ma poiché non vi è possibilità del rito al di fuori di un’ambientazione, di uno spazio che sia denso di rimandi al mito, nei monumenti di Džamonja (così come, del resto, in tutta la sua opera scultorea), l’espressione dei valori ideologici legati alla “rivoluzione permanente”, all’unificazione dei popoli slavi e delle masse proletarie socialiste, trova la sua metafora mitologica nel simbolismo della globalità e del movimento della sfera (Argan 1981, p. 8).

Sia a Barletta, per l’Ossario dei Caduti Slavi, sia a Kozara, per il Memoriale della Rivoluzione contadina, e sia a Podgarić, per il progetto (non realizzato) del Monumento alla Rivoluzione, il tema del cerchio distinto in parti a differente morfologia viene trasposto da principio simbolico, metafora di un corpo molteplice in armonica e dinamica unità, a metodo compositivo, modello organizzativo della forma e di controllo dello spazio. D’altronde, il tema del rapporto tra il modulo di base e l’unitarietà della sfera è largamente indagato da Džamonja come metafora del rapporto tra l’individuo e le masse, tra il singolo e il molteplice; ma se inizialmente ciò avviene attraverso l’assemblaggio di elementi quali chiodi, catene o piccoli mattoni, dalla fine degli anni ’50, prende avvio un’indagine non più legata al ready-made e maggiormente focalizzata, invece, sulla sperimentazione di più astratti valori plastici.

A Barletta, la figura del cerchio (in questo caso leggermente deformato in ellisse), adottata in planimetria, diviene un dispositivo capace di assemblare una pluralità di parti scultoree, ognuna delle quali ha un differente significato spaziale (Džamonja 1981, p. 78) ed è al contempo integrata all’interno del disegno compiuto di un’unità sintattica e figurativa d’insieme, assicurando perciò una dialettica armonica tra la forma logica della struttura architettonico-spaziale e la struttura poetica della forma plastica del monumento.

La parte visibile del memoriale – quella costruita fuori terra – è composta dalla ripetizione in serie radiale di differenti profili scultorei realizzati in blocchi di cemento sagomati che, disposti su una pianta ellittica, costituiscono nell’insieme una massa articolata e compatta.

Dall’esterno, i principi che soggiacciono alla composizione sintattica dell’opera emergono nella loro limpida elementarità ma, avvicinandosi al monumento, le sagome in cemento affiorano dall’insieme di cui sono parte, arricchendo ed articolando, complessificando ed approfondendo i suoi contenuti semantici. All’interno di questa massa compatta scandita da un ritmo radiale e monotono, i volumi in cemento precompresso faccia a vista disegnano sinuose tensioni plastiche che premono verso il centro dell’opera.

Ancora, l’attenzione alla dialettica tra l’elemento ripetuto e la forma d’insieme si ripercuote anche e soprattutto nella definizione degli spazi interni del memoriale, in quanto la composizione radiale consente di mettere in scena una «convergenza di spazi prospettici» (Argan 1981, p. 12): ognuno disegnato da differenti ritmi plastici, gli spazi interstiziali tra i diversi profili in cemento si direzionano simultaneamente verso il centro dell’opera, come metafora di diverse esperienze individuali che si fondono in una comunità.

D’altronde, nota ancora Argan (1981, p.10), è evidente come un’altra delle principali intenzioni di Džamonja consista nel voler definire «rapporti dinamici tra il nucleo […] dell’opera e il suo periechon», animando lo spazio interno del memoriale mediante l’innesto di calcolate pulsazioni plastiche, che alternano la suggestione di moti centripeti a quella di moti centrifughi. In tal senso, l’introduzione di leggere deformazioni nella struttura ellittica di base, ottenute mediante la disposizione lievemente asimmetrica dei volumi in calcestruzzo, e la scansione del loro ritmo crescente e diagonale – composto da forze direzionate verso il centro dell’opera e contemporaneamente verso il cielo – costituiscono due artifici che donano «all’insieme un movimento rotatorio ascendente».

Ad ogni modo, il fulcro del memoriale coincide con il luogo dell’atrio della cripta, scavato ad una quota di circa 3 metri sotto il livello del suolo e accessibile mediante un’imponente scalinata in granito, che è destinato allo svolgimento delle cerimonie collettive. Da questo luogo si accede, tramite due grandi portali in bronzo, alla cripta vera e propria, scavata nello spessore dello stesso muro circolare che, contenendo il terreno, delimita l’atrio.

Qui, l’oculo centrale, inondando lo spazio di una luce diretta che accentua i chiaroscuri e rende taglienti i profili concavi delle ombre, mette in collegamento il mondo ctonio della sepoltura e della commemorazione – l’antro della memoria – con il chiarore e la luminosità dell’aere, del mondo astratto del pensiero, in cui svettano le sagome dei volumi in cemento che, dal basso, arretrandosi rispetto al campo percettivo del visitatore, si trasformano in evidenti elementi allegorici: sette obelischi tesi verso il cielo.

Ancora, oltre alla centralità e alla verticalità dello spazio dell’atrio – evidente nello schema planimetrico – vi è un’ulteriore direzione compositiva – meglio individuabile in sezione – che sbilancia l’equilibrio del progetto, orientandone lo spazio, oltre che in verticale (verso il cielo), anche in orizzontale (verso il mare). Come scrive lo stesso Džamonja (1969), questa «penetrazione visiva» introduce un’ulteriore tensione spaziale e accompagna il visitatore nello spazio esterno della terrazza che, chiuso su due lati dalle pareti che arginano il suolo, appare fortemente orientato, «indirizzando lo sguardo verso il mare aperto dell’Adriatico e verso la patria».

Ciò che più stupisce è che, dopo aver lavorato a una calibrata deformazione dell’asimmetria planimetrica dell’impianto di base, la simmetria ritorni in tutta la sua assertività – come metodo di controllo del progetto – all’interno delle modalità di strutturazione del sistema dei percorsi e in particolare della fruizione visiva e cinestetica del memoriale. Le visuali che scandiscono le principali direzioni di attraversamento dell’opera sono infatti costruite, quasi prendendo in prestito le tecniche cinematografiche, mediante sequenze di prospettive centrali simmetriche, giacché, come scrive Krzišnik (1980), è questo «il modo più semplice per identificarsi con i movimenti della interiorità psicofisica del visitatore e innescare la sua esperienza cinestetica».

Infine, osservando più da vicino i profili in calcestruzzo, si può osservare che, se l’unità dell’organismo architettonico si costruisce nel rapporto
dinamico tra la forma spaziale complessiva e l’elemento ripetuto, il linguaggio plastico della scultura lavora in bilico tra astrazione e figurativismo. Si percepisce sin da subito la dimensione allusiva della forma, ma il rapporto tra le parti è scevro di qualsiasi sovrastruttura decorativa e cela i contenuti semantici e i rimandi simbolici all’interno di una composizione scultorea astratta di volumi nello spazio.

Tutto avviene sotto la concertazione della luce. D’altronde, come scrive Argan (1981, pp. 12-13):

«Il dinamismo dell’insieme non è tanto espresso dalle diagonali e dal graduale movimento degli elementi che formano il monumento, quanto dalle infinite sembianze che esso assume in accordanza all’intensità e agli effetti della luce nelle differenti ore del giorno: indipendentemente dal significato simbolico, esso è come alcuni immensi strumenti per lo studio dal vivo del cambiamento della luce. Se allora nel suo aspetto immediato, il monumento richiama la tensione all’architettura espressionista e alla scenografia, il suo significato più profondo rimanda ai sistemi ‘solari’ dei monumenti Maya e Aztechi».

L’Ossario dei Caduti Slavi di Barletta è dunque una complessa narrazione architettonica che si fonda sulla ritualità dei movimenti nello spazio, sul rapporto con il sito e con il luogo, sul simbolismo delle forme, sulla plasticità dei volumi e sul rapporto con la luce.

La memoria delle tragedie del passato, in questo caso legate al dolore del lutto e della guerra ma anche all’ideologia soggiacente al progetto socio-politico dell’ex Federazione Jugoslava, sono volutamente trascritte in forme statuarie che, da un lato, aspirano ad essere monumentali, stabili e durature, e dall’altro rifiutano ogni assertività e dogmatismo, aprendosi a differenti modi possibili di interpretazione.

Strutturata secondo calibrati principi compositivi, ma capace al contempo di «conservare alcune zone di insubordinazione» (Boulez 2004, p. 94); assemblata mediante la complessa articolazione di una pluralità di ritmi plastici incanalati in un corpo unitario, quest’opera appare potente e al contempo inoffensiva, «magnifica nella sua pace esteriore piena di movimento interiore» (Krzišnik 1969). Essa ci offre l’occasione di riflettere su una particolare possibilità della forma che, interpretando quel «tessuto illusorio di contrari» (Colli 1975, p. 29) che è il mondo che ci circonda, li scioglie nella sua stessa unità, dischiudendo il fascino tragico e seducente dell’enigma.

Note

Il monumento commemora e raccoglie le spoglie dei soldati Slavi caduti durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale nell’Italia meridionale e insulare.

L’Ossario di Barletta è catalogabile all’interno di quello che i critici d’arte hanno definito come il «terzo periodo» dell’opera di Džamonja, ovvero il momento più maturo e fertile della sua produzione artistica (Protić 1980).

Si rimanda, tra i vari testi che trattano l’argomento, a Kirn G. (2016, 2019).

Come scrive Argan (1981, p. 10), due tra le prime opere memoriali di Džamonja (il memoriale ai Martiri di dicembre a Dubrava e la Tomba in Memoria a Dachau) si ispirano più dichiaratamente alle arcaiche tipologie megalitiche del dolmen e del menhir, «della figura reclinata e della figura eretta».

Bibliografia

ARGAN G. C. (1981) – Džamonja. Jugosloven skarevija. Beograd Mladost, Zagreb.
BOULEZ P. (2004) – Il paese fertile. Paul Klee e la musica. Abscondita, Milano (ed. orig. 1989, Le pays fertile. Paul Klee, éditions Gallimard, Paris).
COLLI G. (1975) – La nascita della filosofia. Adelphi Edizioni, Milano.
DŽAMONJA D. (1969) – Argomentazione spaziale, ideale e tecnica del progetto 11570 per l’Ossario commemorativo dei combattenti jugoslavi caduti e deceduti sul territorio della Repubblica italiana nella seconda guerra mondiale e nelle guerre precedenti, a Barletta / zona Bari, relazione di progetto conservata presso l’Archivio di Stato di Bari.
DŽAMONJA D. (1981) – “Džamonja”. In: G. C. Argan, Džamonja, op. cit., pp. 19-169.
KIRN G. (2016) – “Towards the Partisan Counter-archive: Poetry, Sculpture and Film on/of the People’s Liberation Struggle”. In: Slavica Tergestina 17, pp. 100-125.
KIRN G. (2019) – Partisan Ruptures, Self-Management, Market Reform and the Spectre of Socialist Yugoslavia. London, Pluto Press.
KRZIŠNIK Z. (1969) – “Introduction”. In: Z. Krzišnike A. Karolyi, Džamonja. Grafički zavod hrvastke, Zagreb, Yugoslavia.
KRŽIŠNIK Z. (1980) – “Introduction”. In: Z. Kržišnik (a cura di), The XXXI-th Biennal of 1980 Venezia, Yugoslavia, Catalogo della mostra del Padiglione jugoslavo.Tiskarna Tone Tomšić, Ljubljana.
MARCHIORI G. (1975) – “Džamonja”. In: G. Marchiori (a cura di), DušanDžamonja sculture, disegni e progetti dal 1963 al 1974, Catalogo della mostra a Villa Malpensata Riva Caccia, 5 Lugano.
MIKUŽ J. (1980) – “The Characteristics of Some Recent Yugoslav Memorials to the National Liberation War”. In: Z. Kržišnik (a cura di), The XXXIX-th Biennal of 1980 Venezia, Yugoslavia, op. cit.
NIEBYL D. (2016) – “Introduction. Why Do They Have Such Unusual Shapes?” In: Spomenik Database. [online] Disponibile a: <https://www.spomenikdatabase.org/bizarre-shapes [Ultimo accesso 18/06/2020].
PROTIĆ M. B. (1980) – “Džamonja”. In: Z. Kržišnik (a cura di), The XXXIX-th Biennal of 1980 Venezia, Yugoslavia, op. cit.
SEMERANI L. (2007) – L’esperienza del simbolo. Lezioni di Teoria e Tecnica della Progettazione Architettonica. Clean Edizioni, Napoli.