Memoria resistente. Note su alcuni monumenti (non realizzati) dedicati alla Resistenza italiana

Gaspare Oliva




Il memoriale come tema di architettura

L’azione commemorativa, il ricordare insieme al fine di un rispecchiamento collettivo, costituisce la destinazione del monumento in genere1, la sua ragione. Un tema che presenta la significativa peculiarità dell’assenza di qualsiasi necessità d’uso di carattere pratico.

Il memoriale, la tipologia di monumento cui ci riferiamo in questo contributo, non costituisce una sepoltura rappresentativa per le spoglie di una personalità illustre; non eterna, attraverso forme adeguate, il luogo di importanti eventi del passato: esso è una architettura che tramanda in assenza dell’oggetto da commemorare. Il suo fine è evocare l’agire virtuoso di un soggetto individuale o collettivo oppure un evento socialmente o civilmente significativo (a prescindere dal luogo nel quale esso si sia storicamente verificato) per rappresentare e trasferire i valori condivisi da esso esemplificati.

L’utilizzo del ricordo come mezzo per orientare l’agire collettivo, peculiare forma di alleanza tra Metafisica ed Etica che si concreta nel piegare la prima ai fini della seconda, caratterizza sul piano ontologico lo statuto stesso del monumento2. Questa operazione, nel caso del memoriale si pone in essere col massimo grado di astrazione, proprio per via dell’assenza dell’oggetto.

I memoriali materializzano nello spazio della città una pausa, una interruzione, uno iato che favorisce la riflessione e il pensiero e consente, attraverso la contemplazione, il riconoscimento e l’identificazione con certi valori.

I monumenti nell’Italia post-bellica

Subito dopo la caduta del regime fascista, le rifondate istituzioni italiane si sono dovute occupare della ricostruzione dell’identità collettiva attraverso la trasmissione di quei nuovi valori che, sacralizzati nella Costituzione, dovevano costituire il piano di fondazione della società democratica e del corso politico repubblicano. Per fare ciò, occorreva però preliminarmente fare i conti con l’eredità politica e culturale del regime, che andava elaborata e quindi superata, nonché ricomporre le profonde fratture che lo scontro fratricida della guerra civile aveva lasciato nel corpus sociale.

Con queste finalità, contestualmente alla ricostruzione delle città distrutte, esse hanno promosso la realizzazione di numerosi monumenti commemorativi delle vicende belliche.

Nella narrazione repubblicana, la guerra, che l’Italia aveva cominciato accanto alla Germana nazista e aveva concluso dalla parte degli Alleati, veniva considerata come una epifania rivelatrice della vera natura di quel regime che il Paese aveva tollerato per vent’anni. L’inversione di segno delle alleanze era la rappresentazione plastica della presa di coscienza che aveva condotto alla rottura col fascismo. Il conflitto si poteva considerare come una catarsi collettiva che liberava il popolo italiano dal marchio di Caino del sostegno al regime e veniva sugellata dal triplice sacrificio dei civili morti sotto le bombe o per rappresaglia, dei deportati nei campi di sterminio e dei partigiani caduti in battaglia oppure passati per le armi.

In questa prospettiva possiamo provare a distinguere due tipologie di programmi monumentali con diversi oggetti e diverse finalità. Da un lato la commemorazione delle vittime, che consentiva di fare piazza pulita delle scorie del passato, fondando la mitologia dell’origine della Repubblica sull’inscalfibile sostrato concettuale costituito dall’estremo sacrificio collettivo3. Dall’altro la commemorazione della Resistenza, intesa come movimento popolare, democratico e libertario di contrasto all’oppressione, che consentiva l’identificazione tra i valori che la avevano ispirata ed innervata e quelli posti alla base del costruendo sistema democratico, individuando nell’antifascismo il tessuto connettivo della nuova struttura sociale e politica.

I monumenti di cui qui si intende discutere, progettati a distanza di diversi anni dalla conclusione del conflitto, riguardano questa seconda tipologia di programmi.

Declinazione del tema, modi dell’astrazione, relazione con la città: una lettura comparata

Vengono analizzati tre progetti non realizzati, presentati nel contesto di altrettanti concorsi di progettazione. Essi sono il monumento alla Resistenza progettato dal gruppo formato da Aldo Rossi, Gianugo Polesello e Luca Meda per Cuneo (1962), quello progettato da Giorgio Grassi, ancora con Meda, per Brescia (1965) e di quello progettato da Costantino Dardi, con Giovanni Morabito, Michele Rebora ed Ariella Zattera, per Milano (1971) (Fig. 1). Essi giungono ad esiti formali che, seppur differenti, mostrano alcuni elementi di comunanza.

Il primo elemento di comunanza consiste nel fatto che l’evocazione dell’evento venga affidata solo ed esclusivamente alle forme dell’architettura. Questi monumenti non sono concepiti né come oggetti plastici da contemplare a mo’ di statue, né come infrastrutture di supporto per apparati iconografici di tipo pittorico o scultoreo con finalità didascaliche o didattiche. Essi rinunciano altresì all’ambizione di costituire opere d’arte totale, non cercano cioè l’integrazione tra architettura ed altre espressioni artistiche.

Il secondo elemento di comunanza è l’essenzialità delle forme. Forme geometriche pure e assolute, prive di attributi connotanti, vengono organizzate attraverso una sintassi che affida la monumentalità alla ricerca di proporzioni e misure esatte e ad un carattere solenne raggiungibile con procedimenti di riduzione stilistica. Una modalità che si pone in continuità con alcuni maestri del Movimento Moderno e soprattutto con la tradizione illuminista.

La scelta purista sembra condurre ad una forma senza stile, nella quale l’autore, se non completamente occultato, sembra fare un passo di lato per far posto ad architetture dal tono aurorale che ambiscono a collocarsi al di fuori del tempo, oltre che ostentare indifferenza rispetto al proprio intorno in ragione della loro assolutezza. Questa tendenza ad una condizione anonima, che accomuna i tre progetti, può essere considerata come una espressione sublimata del carattere eminentemente collettivo del monumento4.

Declinazione del tema

A partire dall’idea di monumento come luogo separato dal quotidiano, indipendente dalla città, il comune tema commemorativo viene declinato dai tre manufatti in maniera differente. La necessità della separazione e la conseguente definizione del luogo deputato al ricordo collettivo vengono perseguite da ciascuno di essi con riferimento a tre azioni fondamentali.

L’edificio di Cuneo si riferisce al salire. Il luogo in cui il tema si compie si trova ad una quota differente rispetto piano stradale e si presenta come una stanza a cielo aperto dalla quale si possono osservare i paesaggi della guerra partigiana attraverso una sottile feritoia orizzontale: l’evocazione avviene attraverso l’indicazione visiva dei luoghi nei quali i fatti sono realmente accaduti. La stanza scoperta si raggiunge attraverso una scala che materializza il momento propedeutico al ricordo e si caratterizza per una forte e costante compressione altimetrica contrapposta alla continua diminuzione della larghezza man mano che si sale.

Questa idea di ascesa ha anche forti implicazioni simboliche in quanto può essere collegata all’iconografia dell’evento veterotestamentario noto come sogno di Giacobbe, nel quale degli angeli salgono lungo una scala per raggiungere il regno di Dio5. Secondo l’esegesi ebraica, in particolare, queste figure ascendenti corrispondono agli uomini virtuosi che dopo la morte, in ragione dei meriti ottenuti in vita, raggiungono lo status angelico. In questa prospettiva, la scala di Cuneo consentirebbe l’ascesa degli eroici partigiani al cielo, ovvero ad una dimensione eterna. La scelta virtuosa compiuta da normali cittadini che si sono tramutati in combattenti avrebbe quindi un carattere trascendentale, sarebbe connessa ad un profondo sentire umano più che a contingenze politiche. Questa lettura ricalca quella fornita da Piero Calamandrei che si riferiva alla presa di coscienza collettiva che aveva condotto alla Resistenza come un evento naturale e cosmico, spostando quest’ultima su un piano superiore rispetto a quello della contingenza storica6. In quegli anni, una interpretazione di questo tipo, assunta anche per i programmi commemorativi di altri monumenti alla Resistenza7, aveva il compito di rispondere alla necessità del superamento delle contrapposizioni di parte, all’interno di un processo più ampio di pacificazione nazionale.

Il monumento di Brescia insiste sulla celebrazione della morte e del lutto costruendo una fitta rete di rimandi analogici che lo agganciano in più punti alla storia del tema della commemorazione collettiva dei defunti. Esso separa lo spazio commemorativo dallo spazio urbano attraverso la predisposizione di un recinto esatto. Il tema fondamentale dell’entrare si declina nei termini di una interruzione nella continuità del muro bianco, dalla quale non è però possibile vedere immediatamente lo svolgimento interno8. Il fruitore viene quindi incanalato su uno dei due percorsi perimetrali, da cui può vedere i diversi giardini murati e quindi immettersi, attraverso i percorsi trasversali, sull’asse longitudinale principale. Come sostenuto dagli stessi autori, lo schema planimetrico riprende per analogia il disegno di un giardino all’italiana e, allo stesso tempo, l’impianto urbano di una città ideale, nel quale i giardini murati corrispondono agli isolati. Posto che, come è noto, l’ordine del giardino geometrico sei-settecentesco voleva essere allusivo di un ordine urbano ideale, possiamo riconoscere che in questo progetto il meccanismo analogico si sviluppa in maniera concentrica, come in un sistema di scatole cinesi.

In realtà il gioco dei rimandi non sembra concludersi qui. A partire dal Settecento, la città ideale diventa infatti anche il riferimento per numerosi complessi cimiteriali e pertanto, volendo guardare al memoriale bresciano come ad un cimitero nel quale mancano i corpi (il sepolcro senza l’oggetto), possiamo identificare i giardini con campi di inumazione privi delle steli che segnalano la presenza dei defunti. A confermare questa mancanza vi è però una eccezione: in uno dei recinti un albero monumentale preesistente anima la scena.

Ma se i giardini sono anche degli isolati cavi, la cui volumetria non si completa per l’assenza di due facce del parallelepipedo, allora possiamo pensare a questo monumento nei termini di una città incompleta, non finita. Una non finitezza dissimulata o forse resa possibile proprio dalla chiarezza delle geometrie e dall’esattezza delle misure. Questa lettura può essere messa in collegamento con il concetto che verrà chiaramente esposto alcuni anni dopo da Aldo Rossi con riferimento al suo ampliamento per il Cimitero di San Cataldo a Modena. Egli presenta l’ossario cubico come un edificio senza copertura in cui le «finestre sono senza serramenti […], una casa incompiuta […] analogica alla morte»9. Una incompletezza che, in un ironico gioco analogico multilivello e pluridimensionale, ha interessato anche la vicenda costruttiva del complesso, che è stato completato soltanto per metà.

Se il sepolcro è dunque una casa non finita, il cimitero è conseguentemente una città non finita, così come non finita, nel senso di assenza di conclusione, è la vita dopo la morte.

Il progetto di Milano concretizza il tema fondamentale dell’attraversamento. La fruizione del monumento avviene infatti percorrendo lo spazio tensionale definito dal distacco dagli elementi costitutivi della configurazione primaria. La figura originaria è un cubo spaccato lungo la diagonale: da un lato di essa si attesta la «sezione presente individuata dal pieno di una struttura metallica tridimensionale», dall’altro «la sezione assente è occupata da un cubo e da una sfera di marmo, cui un piano orientato a 30° sottrae una parte, che si manifesta come impronta e calco nella faccia sezionata della struttura metallica»10. I due frammenti di solidi primari sono poggiati su una sottile lastra d’acqua di forma triangolare che fissa uno dei vertici della figura di base.

Le scomposizioni e le rotture dei solidi costruiscono un sistema di opposizioni ed antinomie concettuali, figurative e materiche: pieno contro vuoto, presenza contro assenza, forma primaria descritta contro forma primaria mutilata, materiali nobili contro tecnologie povere11. Il conflitto della guerra di resistenza rivive dunque nelle forme della geometria euclidea. Nella peculiare forma di analogia pura che questo monumento mette in scena gli elementi concreti della vicenda storica vengono trasfigurati in elementi geometrici dando luogo ad una vera e propria allegoria inversa. Volendo descrivere il monumento secondo questa prospettiva, la figura principale del mezzo cubo tecnologico può rappresentare il moloch del regime spaccato dall’azione partigiana. Questa specifica scelta figurativa, che vede un elemento principale di maggiori dimensioni rompersi a causa dell’intervento di una figura più piccola, rappresenta con efficacia l’idea di un conflitto in cui un soggetto inizialmente sfavorito riesce a giungere alla vittoria contro un nemico soverchiante ed apparentemente imbattibile, proprio come accadeva nell’illustrazione di El Lissitzkij Spezza i Bianchi col cuneo rosso del 1919, con la quale il maestro russo inneggiava alla vittoria bolscevica contro l’esercito menscevico nella guerra civile.

Modi dell’astrazione

Questi progetti, tutti e tre etichettabili come astratti, afferiscono a diversi modi di concezione dell’astrazione.

Possiamo fare una prima differenziazione tra astrazione iconista, che lavora sulla sublimazione della figura, e astrazione processualista, che si concentra sul processo che conduce alla forma e non sulla sua capacità rappresentativa12. Se il monumento di Cuneo si colloca schiettamente nel campo iconista, quello di Brescia, pur assumendo una chiara figurazione, mostra un certo compiacimento nella messa in scena del criterio costitutivo della forma. Gli autori prolungano infatti l’asse longitudinale principale fino ad un punto esterno alla figura quadrata dal quale, rivolgendo lo sguardo verso il quadrivio, si possono riconoscere nelle regole della geometria prospettica applicate alla scenografia, i criteri del proporzionamento delle larghezze dei giardini cintati. Nel progetto di Milano l’indugiare sul processo formativo diventa quasi feticistico: le operazioni che conducono alla forma (scomposizioni, sfalsamenti, rotazioni, etc…) vengono rappresentate e diventano esse stesse elementi tangibili e concreti della composizione, in una vera e propria operazione di ordine metalinguistico13, un discorso per forme sui modi attraverso i quali il linguaggio astrato si produce, la messa in scena dell’analisi e della verifica della capacità evocativa delle forme.

Il secondo livello di differenziazione riguarda l’astrazione come operazione transitiva o intransitiva. Nel primo caso le forme rappresentano e significano altro da sé, sono la stilizzazione di elementi della realtà o di architetture della storia, una loro depurazione condotta a mezzo di procedimenti di riduzione linguistica14. Nel secondo caso, le forme non rappresentano nient’altro che se stesse e i processi che le generano, possiedono un significato e un valore in sé. È chiaro che l’edificio di Brescia si posiziona nettamente nel campo della transitività, come dimostrato dai molteplici fili analogici che da esso si dipanano, mentre il memoriale di Milano, per quanto precedentemente accennato e per dichiarata adesione dell’autore alla cosiddetta Linea Analitica che perseguiva un linguaggio artistico auto-riferito15, attiene al secondo mondo. Per l’edificio di Cuneo però il posizionamento appare più problematico. Se da un lato possiamo riconoscere il suo evocare altre architetture ed altri mondi, dall’altro esso incarna anche una profonda riflessione sulla capacità della forma, opportunamente manipolata, di costruire spazi significanti.

Relazione con la città

La specificità del tema commemorativo e la forma di monumentalità che questi tre edifici riconoscono implicano la necessità dell’autonomia delle forme da vincoli o relazioni contestuali.

Per statuto il monumento deduce valori dalla realtà per trasferirli sul piano trascendentale e pertanto non può che inverarsi in forme rispondenti solo ed esclusivamente alla sua logica interna, al suo fine commemorativo, definendo, attraverso configurazioni tendenzialmente auto-riferite, un carattere di alterità rispetto allo spazio circostante16.

La rotazione planimetrica del monumento di Cuneo discende infatti dalla necessità tutta interna di costruire una specifica relazione visuale a distanza in ragione della declinazione del tema e pertanto esso non riconosce la giacitura dell’importante asse viario territoriale lungo il quale si situa.

La forma, la misura, il posizionamento e la giacitura dell’edificio di Brescia non discendono da alcun rapporto urbano17. Il recinto quadrato posto al centro del parco e orientato lungo l’asse nord-sud, pur rispondendo a leggi assolute, non nega la preesistenza, piuttosto vi si sovrappone determinando una coesistenza che si concreta nella presenza del grande albero all’interno di uno dei giardini conclusi. Inoltre questo monumento costruisce una relazione visiva con l’esterno di segno opposto rispetto a quanto accade a Cuneo: un palco situato sul bordo del parco consente la visione della forma del monumento che coincide col suo ordine planimetrico. Benché questo manufatto insista sul tema della separazione, questo espediente fruitivo lo collega con la vita quotidiana che si svolge al di fuori.

A differenza dei due precedenti manufatti, il monumento di Milano sembra estendersi oltre i limiti fissati dalle posizioni dei solidi che lo costituiscono, producendo una emanazione che ridisegna l’ampio spiazzo nel quale si colloca: le geometrie fondamentali dell’edificio definiscono un percorso pavimentato convergente verso lo spazio tensionale nel quale si concreta il tema commemorativo. La condizione di alterità si declina in questo caso in termini formali, ma non in termini di modalità fruitive. La concezione ad esso sottesa sembra mettere in discussione l’idea del monumento come luogo sacro, fisicamente separato, proponendo una sua restituzione alla mondanità dell’urbano, una profanazione18 che, pur depotenziandone la solennità, è finalizzata a massimizzare la sua capacità didascalica ed educativa, rendendolo liberamente fruibile da tutti coloro che attraversano quell’ambito urbano.

Note

1 Per il concetto di destinazione dell’edificio si veda Antonio Monestiroli, La ragione degli edifici, in Renna A. (1980), p. 180.

2 Renato Capozzi, Il monumento, tra memoria e ragione, in Visconti F. (2013). p.78.

I monumenti realizzati nei primi anni del dopoguerra attenevano quasi sempre alla prima tipologia anche perché si trattava nella maggior parte dei casi di sepolture o cenotafi collettivi. Il loro programma era quindi incentrato sul tema del lutto e si declinava nella rappresentazione della tragicità della morte. E’ questo il caso della monumentale sepoltura per le vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine costruito nella campagna romana da Fiorentino, Perugini ed altri; del monumento ai caduti nei campi di sterminio dei BBPR presso il cimitero monumentale di Milano e dell’ossario partigiano presso il cimitero di Bologna costruito da Bottoni.

Per la relazione tra collettività e tema architettonico si veda Antonio Monestiroli, Il tema di architettura, in Renna A. (1980) 236-238.

Lettura proposta da Thomas L. Schumacher nell’analisi delle varie fasi del progetto di Giuseppe Terragni per il monumento funebre a Roberto Sarfatti, in Schumacher T.L. (2001), pp. 229-250.

6 Riferimento alla frase di Piero Calamandrei riportata in Croset P. A. e Skansi L. (2010), p. 117.

7 È il caso del monumento progettato da Gino Valle ad Udine, nel quale l’idea della dimensione trascendentale del moto di Resistenza interviene nella conformazione stessa del manufatto, i cui elementi si compongono secondo i “ritmi della vita cosmica”. Si veda a tal proposito Croset P. A. e Skansi L. (2010), pp. 117-118.

8 Si veda la descrizione fornita dagli autori nelle tavole di concorso riportate in Crespi G. e Pierini S. (1996), p. 37.

Descrizione di Aldo Rossi in Ferlenga A. (1987), p. 54

10 Estratto della descrizione del progetto di Costantino Dardi in Dardi C. (1987), p. 113.

11 Definizione di Costantino Dardi in Darci C. (2009), p. 65.

12 Per la differenziazione tra questi due modi dell’astrazione si faccia riferimento al saggio di Mosco V. P., “Puro, Purezza (Pur, pureté)”, in P. Grandinetti, A. Dal Fabbro e R. Cantarelli (2019), pp. 39-40.

13 Filiberto Menna citato in Dardi C. (1987), p. 23.

14 Si faccia riferimento ancora a Mosco V. P., in P. Grandinetti, A. Dal Fabbro e R. Cantarelli (2019), pp. 36-37.

15 Per una definizione più ampia di Linea Analitica nell’arte e nell’architettura si faccia riferimento a Dardi C. (1987), pp. 21-24.

16 Si tratta di una forma estrema di architettura a priori che Dardi ha efficacemente spiegato come segue: «Tutte le architetture la cui poetica è fondata sull’oggetto, sulla sua autorità formale e sulla sua carica autosignificante si muovono nell’area della monumentalità», in Dardi C. (2009), Tre risposte alla monumentalità, p. 66.

17 Crespi G. e Pierini S. (1996) p. 37.

18 Per il concetto di profonazione e relazione col sacro si veda Agamben G.(2005).

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