Divina Acqua. Il rito della “discesa” nell’Architettura del Pozzo. Trasposizioni semantiche nelle opere di Francesco Venezia e Aldo Rossi

Adriano Dessì




Identità tra rito e spazio nel Pozzo Sacro

Forse per la prima volta il Pozzo Sacro – eventualità che si sarebbe non solo non ripetuta ma addirittura fortemente indebolita – rappresenta quell’elemento originario del paesaggio sardo in quanto suo primo affrancamento rispetto all’idea pragmatica, funzionale, produttiva, proprietaria, ritenuta alla base della sua formazione, soprattutto dalla dominazione romana. Ma è proprio a partire da quell’ascendenza “anticlassica” dell’evoluzione delle civiltà sarde – e, conseguentemente, dello spazio abitato – più volte richiamata da Corrado Maltese (1962) per spiegarne le abitudini, le culture insediative e i riti stessi, molti dei quali pervenuti alla contemporaneità, che è in qualche modo possibile delinearne alcuni caratteri e, nondimeno, una certa, importante, influenza sul pensiero architettonico tardo-moderno.

L’introduzione di quel collegamento indissolubile tra la gestione delle risorse naturali, e la stessa interpretazione di natura, con l’aspetto simbolico-figurativo, istituisce quel “salto di specie” tra le comunità preistoriche e quelle storiche sarde per le quali non è più la modalità didascalica del graffito o del bronzetto a garantire la principale forma rappresentativa della comunità, ma lo spazio stesso e il “comportamento sociale” rispetto ad esso. Disgiunto da una funzione strettamente ed esplicitamente inclusa nel regime esistenziale della civiltà nuragica, quello militare e alimentare, infatti, il Pozzo Sacro emerge proprio come la sua più forte espressione, ben più della sua figura opposta – in emersione e ben più evidente – costituita dalla torre nuragica.

Ed è proprio il suo carattere “eccezionale”, slegato dalla dimensione quotidiana – e per questo temporanea ed effimera – e che trova ragione nel climax stesso della ritualità, che lo rende elemento primario, costante presenza e in costante adattamento nelle civiltà successive.

Infatti, il rito dell’acqua “che si tramanda” costituisce anche un’“architettura che si tramanda” e che acquisisce nuove forme mediate dalle culture del proprio tempo e dalle nuove necessità, ma che mantengono un codice comune. L’“architettura rotonda” del pozzo e il tema dell’accesso “in profondità” all’acqua è un tema continuo che attraversa i secoli: la cuba medievale di matrice islamica, il pozzo coperto dei sagrati urbani, i pozzi gradonati e le fonti-pozzo di genesi catalana (Cadinu 2015), costituiscono evoluzioni chiare dell’archetipo nuragico nel progressivo passaggio dal rito di matrice funeraria-divinatoria a quello della libagione che, a partire dalla conquista romana, si consoliderà in epoca medievale.

La divinità dell’Acqua era evocata nel pozzo attraverso i riti propiziatori della pioggia, diffusamente presenti nel Mediterraneo, ma soprattutto con l’individuazione di luoghi della catarsi, legati al rito della discesa, del ritorno alla “fonte” in quanto ritorno alle “origini”. In tale interpretazione è possibile iscrivere la stessa successione dei due spazi principali – il vestibolo gradonato e la camera ipogea – nei quali sono rappresentate rispettivamente “la discesa” e “la stasi”, nel grembo della “madre terra”.

La prima esperienza si materializza nella fessura geometrica trapezoidale, distesa in una radura recintata e ricavata nello spessore del suolo, in cui l’accesso largo e la discesa a sezione progressivamente ristretta – e che si restringe in tutte le dimensioni – coniuga l’aspetto simbolico, con esplicite allusioni antropomorfiche – lo spazio che si fa figura e monumento della natura – a quell’“astrazione panica” legata alla costruzione progressiva del buio, della cavità, alla perdita delle coordinate terrene. La seconda si verifica in uno spazio che non è solo ipogeo ma anche di forma concava e a pianta circolare, che coniuga la necessità e l’abilità tecnica millenaria della costruzione dei pozzi con l’aspetto simbolico del grembo materno, che accoglie e custodisce la vita. Non è secondario, sull’interpretazione delle forme, anche il recinto di forma “uterina”, aperto in asse con il vestibolo, che delimita l’area del pozzo dallo spazio di natura, spesso bosco o prato destinato al pascolo.

Il rito della morte come ritorno alla terra: la discesa come spazio del “trapasso”.

L’ambiguità funzionale già matura presso le prime teorie archeologiche sui Pozzi Sacri a partire dalla metà dell’Ottocento (inizialmente cisterne per il Taramelli, almeno fino al 1924, definitivamente Templi a Pozzo per Usai, De Palmas e il Webster dal 2005) (Depalmas 2005; Usai 2008; Webster 2014), lascia intendere non solo l’eccezionalità del fatto architettonico, ma lo stesso permeare del rito divinatorio nelle società neolitiche. Da tempi non sospetti, tuttavia, la sovrapposizione tra il luogo di sepoltura e il pozzo costituiscono un campo di indagine spaziale di prim’ordine così come l’individuazione di un modus e di un codice che accomuna la costruzione sarda a quella di pratiche coeve presenti in ambiti del tutto similari, soprattutto nel Mediterraneo: nel 1904, Albert Mayr (1909), colpito dalle stringenti analogie con le tholoi micenee, interpretava il pozzo di Santa Cristina come una vera e propria tomba a cupola. Infatti, come tratteggiano le teorie storiche a partire da alcune prime forme di rappresentazione nel neolitico, nel rito punitivo legato al “non ritorno” dal pozzo
si materializza la coscienza della morte non già come fatto fisico e terreno, ma come espressione spirituale e “superumana”. I sardus pater, piuttosto che i guerrieri riprodotti nelle miniature di bronzo o le note rappresentazioni dei “Giganti” ritrovati nei pozzi funerari, evidenziano infatti, oltre che doti divine, occhi e braccia sproporzionati, “esaltati” laddove non moltiplicati, ad indicare le funzioni magiche, non solo curative, dell’elemento acqua. I sacerdoti pagani e i saggi, consideravano l’acqua anche come strumento di diritto: nel dubbio di un crimine commesso, sottoponevano la discesa nel pozzo all’intera popolazione come atto di purificazione ma anche di pena – il non ritorno era segno di colpevolezza.

La pietra per una costruzione astratta. Forma isodoma e ruolo della decorazione.

Un ruolo di assoluta preminenza nella ricerca spaziale in questa Architettura è affidato alla costruzione stessa, ad una tékton che si giustifica con la ricerca di un tempo e di uno spazio fuori dal tempo e dallo spazio stessi – Aldo Rossi descriverà questa architettura nei Quaderni Azzurri (1987), come «presenza antica, tanto antica da essere futura, perché non si sa se dettata da quale perfezione di mente, di macchina o di sapienza».

La ricerca del modus costruttivo e l’accurata manodopera è quella di una architettura propria del rito, che raggiunge apici figurativi e simbolici, soprattutto se visti alla luce delle pratiche tettoniche correnti.

Un’eccezionalità, infatti, che non ritroviamo nelle architetture coeve, come le torri nuragiche, le capanne, le domus de janas, ancora indissolubilmente legate ad un modus primitivo del costruire che parte da una tholos sommaria e arcaica, necessaria e urgente rispettivamente alla difesa, al riparo, alla sepoltura. Nell’architettura del Pozzo Sacro questo archetipo, così come la messa in opera, invece, di una tholos scolpita perfettamente e aperta con precisione in sommità, viene sublimato dalla fabbrica isodoma che, come afferma Francesco Venezia (2014), «[…] ripropone la figura del trapezio dalla forma del singolo concio lapideo, in pianta e in sezione, allo spazio cavo dell’interno, in pianta e in sezione, alla forma della scala-vestibolo, in pianta e in sezione». Venezia si riferisce al Pozzo Sacro di Santa Cristina, negli altipiani basaltici centrali, presso Paulilatino, che rappresenta, in qualche modo, “il modello” di questa architettura. Nel 1955 Cesare Brandi ebbe a scriverne: «in questo posto tutto è incredibile, le pietre, l’eleganza di una costruzione di fronte alla quale la tomba di Atreo a Micene, certo tanto più grande, è un’opera contadina, cosicché non si può neanche pensare che i bravi nuragici si fossero fatti venire un architetto acheo» (Billeci e Gizzi 2010). Presso il Pozzo di Sant’Anastasia, a Sardara, è stato rinvenuto perfino un frammento decorativo, probabilmente afferente a qualche soluzione di cornice di una nicchia superiore con funzione ierofanica (Taramelli 1924a), rappresentante un motivo ripetuto e geometrizzato, una sorta di triglifo ante litteram. L’appellativo di “tempio” matura però solo con gli scavi dell’area nuragica più vasta della Sardegna, quella di Santa Vittoria di Serri, nelle Giare centrali, per l’accuratezza dell’opera e la forma in rilievo del basamento ipogeico; nel Pozzo Sacro de Su Tempiesu, si riscontra invece un’interessante variante di pozzo ricavato in sostruzione e con facciata monumentale, caratterizzata da un timpano triangolare accostato a soluzioni trilitiche di forma arcata. Studi successivi mostreranno relazioni geometriche precise tra gli alzati e lo sviluppo planimetrico, a testimoniare la consolidata manipolazione di proporzioni e misure dettate da riferimenti astronomici, come era solito presso le culture mediterranee pre-cristiane.

Continuità nel progetto contemporaneo: l’archetipo dello scavo, lo spazio ipogeo e il “peso” della luce zenitale in Venezia e Rossi.

Dall’idea di Francesco Venezia (2011, p. 42) che «il mondo sotterraneo, che meglio di qualsiasi altro esprime una condizione fondamentale di riferimento per l’uomo, è, nella memoria, una percezione originaria del costruire. Ognuno di noi, pensando ad una prima forma di costruire, pensa allo scavare», e di Aldo Rossi (1999) che individua nell’architettura del Pozzo Sacro l’esperienza apicale dello «spazio della discesa per entrare in uno spazio illuminato dalla luce zenitale», ricaviamo non solo una sedimentata e rinnovata attenzione per l’archetipo, quanto la definizione stessa di una cultura insediativa, quella mediterranea, indissolubilmente legata alla ritualità dello spazio.

L’interrogazione che oggi può riproporsi su questa forma archetipica – e quindi, implicitamente, sull’architettura del rito – è utile in quel processo di recupero dei principi fondanti dell’architettura stessa e sulla nuova centralità che le materie primigenie della terra, dell’acqua e della luce possono riguadagnare nel progetto. Dell’idea dei due architetti non resta solo la restituzione didascalica dell’esperienza diretta, quanto l’intenzionalità progettuale, comprovata da un continuo processo analogico, attraverso il disegno di viaggio, tra l’archetipo e le architetture che in quel momento si trovavano a progettare.

Esiste una fase precisa del lavoro di Francesco Venezia, agli inizi degli anni ottanta, in cui il riferimento a questo archetipo si misura nel ruolo che ha la materia nel catturare la temporalità e nel modo in cui essa lo esprime nello spazio ipogeo. Sembra maturare fortemente la convinzione, già seminata negli anni precedenti (Venezia 1990, p. 89-90), che una delle attività eminenti dell’architetto fosse quella di trovare il modo di trasferire nel suo tempo le forme nascoste del mondo sotterraneo e di disvelarle attraverso la costruzione. Pur in una tettonica dell’estrusione, o della modellazione del suolo, piuttosto che esplicitamente dell’ipogeo, si trovano chiari riferimenti allo spazio dell’ombra e della discesa tra i muri erosi del patio di accesso al Museo Archeologico di Ghibellina (1981, p. 87); a questi stessi temi mutuati con la presenza simbolica dell’acqua nei cretti dei giardini “nascosti”, sempre a Ghibellina (1986); alla discesa ombrosa seguita da soglie profonde tra spesse masse terrose, contenute da murature isodome, nella cavea artificiale del piccolo teatro di Salemi (1983-86).

Ma è agli inizi del duemila che la ricerca e il lavoro nello spazio ipogeo trovano un campo di applicazione pratica e diretta nell’esperienza del recupero e dell’implementazione spaziale della cripta della Cattedrale di Caserta raccolta Nel profondo della Cattedrale. Caserta 2010-2014. In questo caso è nelle pareti di calcestruzzo delle nuove sale espositive che viene drammaticamente impressa la forza erosiva dell’acqua e della sabbia che rivela gli strati sottostanti, evocando la formazione geologica del suolo e dunque la temporalità intesa nel lungo processo della sedimentazione della materia (Marzo 2017, p. 96). Questo rinnovato ruolo della temporalità materica dello spazio ipogeo perseguito da Venezia si interseca inevitabilmente con la ricerca, sempre presente, del rapporto tra la luce naturale e lo spazio cavo, non solo per realizzare espedienti museali ma per legare il tema espositivo alla figura, al simbolo e alla misura del tempo. È sempre dei primi anni 2000, l’allestimento a Palazzo Grassi a Venezia “Gli Etruschi” contraddistinto da un grande lucernario tronco piramidale che schiaccia centralmente lo spazio bruno della sala principale; e, seppure marcatamente riferiti alla cultura egizia, gli allestimenti del Salone della Meridiana al Museo Archeologico di Napoli e la grande piramide temporanea eretta al centro dell’Anfiteatro di Pompei per custodire la mostra “Rapiti dalla Morte” realizzati tra il 2012 e il 2015, si intersecarono con il viaggio in Sardegna del 2014 e la sua lectio magistralis alla Facoltà di Architettura di Cagliari aperta proprio con il Pozzo di Paulilatino, del quale ritroviamo espliciti riferimenti.

In tale interpretazione è iscrivibile anche l’ultima considerazione di Aldo Rossi (1999) che i Quaderni Azzurri riportano della visita al Pozzo di Santa Cristina: «E qui il rapporto tra il cielo e l’acqua. Così vi deve essere un giorno nell’anno in cui la luce entra perpendicolarmente nel cono e nell’acqua». Le due pagine dedicate al Pozzo nei Quaderni si aprivano infatti con le forti analogie tra questo e le sue opere del cono atriale del Teatro Carlo Felice di Genova, in riferimento alla luce zenitale che scava la massa in profondità, ma soprattutto della Fontana Monumento della Piazza del Municipio di Segrate, dove sebbene venga messa in scena un’inversione semantica dello spazio a pozzo – inversione tra discesa e ascesa, ipogeo ed elevazione – trova tuttavia evidenza una composizione fatta dagli stessi elementi, dall’esaltazione delle forme simboliche circolari
e triangolari che sorreggono un percorso sospeso in cui si manifesta il «lento percolare dell’acqua sulla materia» (Rossi 1999).

In tale argomentazione, quindi, l’esperienza dell’Architettura del Pozzo Sacro è interpretata come occasione che si offre, nel momento in cui si discute del possibile rinnovato ruolo del rito in architettura, di rileggere gli archetipi come strumenti di individuazione delle principali materie dell’architettura stessa. Come scrive Alberto Campo Baeza (2012, p. 21) infatti «la luce è materia e materiale […] gestisce la percezione del tempo perforando lo spazio formato da struttura che, più o meno pesante, ha bisogno di essere aggrappata al suolo per trasmettere la forza di gravità» e insiste «gli antichi esigevano ricevere la luce dall’alto, quella che io chiamo, luce verticale. […] Questo è il mondo della luce che penetra in una cavità d’ombra, è il caso straordinario del Pantheon».

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