Artschitecture.
Le Arti e l'Architettura
Lamberto Amistadi,
Enrico Prandi
Con questo numero 54 di FAM ci pareva importante ricordare che
l’architettura, per quanto autonoma come disciplina, ha
sempre intrattenuto e continua ad intrattenere rapporti fecondi con
l’arte. Sia con l’arte intesa come procedure
compositive “profonde”, sia con le arti intese come
discipline a loro volta autonome e specifiche: la musica, la scultura,
la fotografia, il cinema, il teatro.
Alcuni dei saggi di Artschitecture
seguono la prima via e cercano di indagare le strutture comuni a queste
diverse discipline e che costituiscono lo strumentario tecnico con il
quale l’uomo esprime la sua natura poetica di “homo
faber” e di artefice. Altri cercano di rappresentare gli
scambi che le arti coltivano “superficialmente” e
fungono da sollecitazione e da stimolo reciproco.
Questi estremi comprendono evidentemente numerosi “stadi
intermedi” e varianti particolari. Alcuni di questi stadi
intermedi sono raccontati bene dal lavoro di Steven Holl, che ci ha
concesso gentilmente di tradurre in italiano e di pubblicare il saggio
dal titolo Architectonics
of Music. Steven Holl utilizza la musica per ambientare le
proprie opere ed adattarle al contesto culturale in cui vengono
realizzate: la notazione neumatica della musica medievale per il
Maggie’s Center di Londra, gli antichi suoni cinesi per il
Museo della Musica di Hangzhou. Nel caso del Maggie’s Center
la geometria del sistema notazionale è utilizzata
superficialmente come decorazione allegorico-ornamentale del padiglione
in vetro colorato. Nella famosa Stretto House o in Tesseracts of Time
sono la struttura interna della musica di Bartók e della
danza ad essere trasposti e “tradotti” in forma e
spazio.
Sullo sfondo rimangono il linguaggio e la scrittura. Leon Battista
Alberti esortava i suoi allievi ad imparare a dipingere come si impara
a scrivere. Come in un gioco, l’arte e il linguaggio ci
aiutano ad immaginare e costruire un mondo migliore e a prendere
coscienza che, rispetto all’esito, la
responsabilità ricade su ognuno di noi.
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FAM non tradisce il rapporto con il Festival
dell’Architettura da cui è nato presentando questo
numero dedicato al rapporto tra Architettura e le altre arti. Ritorno
alle origini, infatti, non solo per quanto alla base della creazione
architettonica vi siano meccanismi comuni alle altre arti figurative,
ma anche perché “Eteroarchitettura”,
– questo era il titolo – è stato il tema
della prima edizione del Festival dell’architettura nel 2004.
In quel caso, il ricco palinsesto indagava a trecentosessanta gradi
terreni e rapporti pochi o nulla esplorati come per esempio il campo
della moda o la cucina, presentando opere e progetti dei
principali Maestri dell’Architettura italiana.
Quell’edizione del Festival ha posto da subito la questione
fondamentale di come l’architettura non può non
essere eteroarchitettura, vale a dire un sistema aperto
all’interpretazione e allo scambio con il mondo
perché del mondo deve costruire la casa, il luogo, la
città. Nella prima edizione inizia a farlo a partire dal
rapporto con le altre arti, le altre espressioni, tra cui la musica
(musica contemporanea – Martino Traversa anche attraverso la
pittura di Vasco Bendini), la scultura (Arnaldo Pomodoro), la
fotografia (Paolo Rosselli, Paola De Pietri), la moda (attraverso
l’esperienza sperimentale di Nanni Strada), il cinema
(rassegna su Stanley Kubrik e Giuseppe Bertolucci), la letteratura
(dove Carlo Lucarelli, Giuseppe Barbolini, Gianni Biondillo, Marco
Varesi discutono sul ruolo della città nel romanzo
contemporaneo).
Tra i tanti invitati, main guest non poteva che essere colui che ha
inventato e precorso la formula del festival culturale urbano diffuso
nella Roma degli Anni Settanta, cioè Renato Nicolini, dei
cui progetti culturali parlo nel mio saggio sullo scultoreo
architettonico.
Sempre nell’ambito del rapporto tra progetto e arti il
workshop progettuale Presenze scultoree (CSAC, Parma 2016) ha fornito
ulteriori spunti di riflessione riportati da Maria Chiara Manfredi. In
questo caso il tema applicativo chiamava in causa
l’architetto nella progettazione di ipotetici spazi di
ampliamento dell’Archivio Museo del Centro Studi e Archivio
della Comunicazione dell’Università di Parma
– che ricordo contiene gli archivi dei più
importanti artisti e architetti italiani del Novecento –, a
partire da specifiche opere d’arte da ricollocare nel
percorso museale dell’Abbazia.
Altri contributi sono quelli di Lamberto Amistadi che indaga alcune
“procedure comuni” del (saper) fare musica, pittura
e architettura; del critico statunitense Yehuda Emmanuel Safran
sull’importanza dell’utopia e il ruolo della
componente inconscia nell’ideazione
dell’architettura e la città; di Steven Holl che
nel suo saggio dal titolo ambiguo L’architettura della musica
spiega come alcuni suoi progetti recenti derivino direttamente da
logiche compositive musicali; di Stefania Rössl
sull’opera di Le Corbusier tradotta fotograficamente
attraverso gli obiettivi di due grandi fotografi come Guido Guidi e
Takashi Homma; di Gianfranco Guaragna sul rapporto tra cinema e romanzo
nel film Psyco
di Alfred Hitchcock; di Ildebrando Clemente su Adolf Loos in cui
l’analogia tra il modo di costruire i personaggi e la trama
dei suoi racconti polemici e sarcastici, e la scrittura narrativa
adatta all’azione scenica, propone una estensione del
concetto di teatralità intesa come sfondo capace di chiarire
e comunicare meglio il fine dell’architettura.
Chiudono il numero due articoli in forme diverse: un racconto per
immagini fotografiche di luoghi e architetture della Pianura Padana di
Luca Mantovani che ci invita a leggere il paesaggio attraverso uno
“sguardo musicale”; la spiegazione, sotto forma di
intervista condotta da Riccardo Rapparini, dell’architetto
cileno Sebastián Irarrázaval
sull’importanza che le arti in generale – espressa
attraverso i tre concetti di traduzione, ripetizione e
totalità – hanno avuto nella costruzione del suo
linguaggio architettonico.
Il numero più eterogeneo di sempre (anche nella forma, e
questo editoriale a quattro mani non fa eccezione) perché
sonda le presunte eteronomie della composizione architettonica nella
convinzione che il processo progettuale – e di conseguenza
l’architettura che ne scaturisce – si alimenti
anche (o soprattutto) all’esterno del recinto del tavolo da
disegno.
Artschitecture,
il titolo di FAM 54 è un omaggio allo scultore Anthony Caro,
il più promettente allievo di Henry Moore, che ha sondato il
rapporto tra scultura e architettura (considerava la scultura in bilico
tra pittura e architettura) attraverso il lavoro del suo ultimo periodo
denominato Sculpitecture
collaborando anche con architetti del calibro di Norman Foster, Tadao
Ando e Frank Gehry.
*La prima parte dell’articolo è scritta da
Lamberto Amistadi; la seconda parte da Enrico Prandi.