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Giancarlo De Carlo costituisce una presenza singolare nel
panorama dell’architettura italiana. La sua figura infatti, non a
caso, risulta molto più delineata e “serenamente”
collocabile all’interno del più vasto scenario europeo, se
non mondiale, di quanto non lo sia in quello italiano. Non che la
statura del personaggio non sia stata adeguatamente apprezzata in
Italia, ma di fatto il ruolo da lui volontariamente o, a volte
inconsapevolmente, svolto, è stato defilato e critico: comunque
“fuori dal coro”. Questa singolarità è
certamente segno eloquente della cifra intellettuale di un personaggio,
le cui azioni seguono un itinerario spiccatamente personale e autonomo,
non per nulla, ancora da decifrare.
Fa bene quindi Antonietta Iolanda Lima a definirlo “scomodo” nel titolo del convegno Giancarlo De Carlo scomodo e necessario
da lei organizzato, appropriatamente, a Palermo e Catania nel 2018
– scegliendo quindi due luoghi non occasionali ma strettamente
legati alla vicenda non solo professionale di De Carlo, che infatti
operò a Palermo per anni per la stesura del Piano Programma per
il Centro Storico e successivamente a Catania, anche questa volta
lungamente, per il restauro del Convento dei Benedettini. De Carlo
intrecciò rapporti umani in queste due città con una
schiera non ristretta di persone, alcune delle quali sono state
chiamate dalla Lima a contribuire al convegno, fornendo testimonianze e
materiali inediti che riguardano un lascito intellettuale non
indifferente.
E peraltro la Sicilia, in senso più generale, si è sempre
configurata come un luogo speciale per De Carlo, che aveva nonni
siciliani e che crebbe nella comunità siciliana di Tunisi. La
curiosità nostalgica per questo passato e le esperienze
successive a Palermo ed a Catania lo portarono infatti spesso a
riflettere sulla realtà dell’isola fino a scrivere Io e la Sicilia
nel 1999, testo che scandaglia il rapporto difficile con una terra ed
una società complesse, ma sentite come intimamente sue.
Il volume curato dalla Lima quindi si affianca, con un tratto di
originalità, ai numerosi contributi pubblicati recentemente
sull’onda delle celebrazioni per il centennale della nascita
dell’architetto, così come a quelli prodotti
immediatamente dopo la morte nel 2005.
Ma, oltre alle parti dedicate a Palermo e Catania, il volume contiene
anche numerosi altri contributi da parte di studiosi di varia
estrazione che affrontano sia aspetti generali che altri aspetti
specifici dell’attività di De Carlo. Fra questi: il
progetto per Mazzorbo, gli svariati interventi ad Urbino, il piano per
Rimini, e il villaggio Matteotti a Terni, quest’ultimo con la
testimonianza del sociologo Domenico De Masi, protagonista del progetto
e della intrigante vicenda che lo accompagna.
Si tratta di studi che affrontano principalmente la dimensione politica
e culturale del ruolo di De Carlo dentro, ma anche fuori,
l’ambito dell’architettura. L’architettura intesa
come disciplina era infatti un recinto decisamente troppo stretto per
un personaggio di quel calibro. Ma riteniamo sia importante notare come
questi svariati contributi rafforzino e completino l’indirizzo
impresso dalla curatrice in ben tre saggi presenti nel volume, due in
apertura e uno in chiusura. Indirizzo, che come ho già
accennato, tende a sondare soprattutto la posizione indipendente di De
Carlo, che propone letteralmente “un’architettura che non
riflette il potere”.
Così scrive la Lima: “De Carlo, come ancora pochi altri,
esorterebbe a sostituire l’asservimento al potere con
l’esercizio della “moralità” nella vita e nel
mestiere che ciascuno conduce per scelta o per destino, o per entrambi,
e con uno sguardo rivolto simultaneamente al locale e al globale, in un
processo ininterrotto di domande, tentativi di risposte, verifiche e
sempre in un confronto con gli altri, varcando i confini, facendosi
così fecondare nel pensiero dai pensieri di discipline e
competenze diverse”.
E peraltro, come sappiamo, De Carlo era anarchico: la filiazione del
suo pensiero da Kropoktin, attraverso Thoreau e Whitman, ma anche
Geddes e Mumford viene efficacemente scandagliata in vari contributi.
L’atteggiamento di De Carlo, al contempo cosmopolita e attento al
vernacolare, viene certamente influenzato dall’incontro con
Giuseppe Pagano che lo porta a riflettere sull’architettura
rurale. Questa consapevolezza verrà a generare progetti come
quello per il quartiere Spine Sante a Matera e, molto più tardi
per Mazzorbo nella laguna veneta. In essi, ma anche altrove, con
spirito assolutamente civile, e senza adesione al cliché
dell’architetto contemporaneo “devoto
all’immagine”, De Carlo antepone, come sempre, le esigenze
degli abitanti alla volontà referenziale
dell’architetto-autore. Il linguaggio è per lui un
non-problema. L’esigenza della partecipazione quindi, e questo
testo ben lo chiarisce, non era per De Carlo solo un fatto procedurale
ma una sofferta istanza ideologica, alla base della sua stessa idea di
architettura, ma soprattutto della sua idea di società.
L’architettura per lui produce: “immagini concrete di come
potrebbe essere l’ambiente fisico se l’assetto strutturale
della società fosse diverso.”
Sempre in ossequio all’assunto irrinunciabile di una architettura
“per la gente” si sviluppa la sua concezione dello spazio
pubblico e del suo intreccio complesso con lo spazio privato della
casa. Gli interventi ad Urbino, così come la struttura
labirintica del Villaggio Matteotti a Terni e
l’”edificio-città” dei Benedettini a Catania
sono quindi pensati con riferimenti agli spazi complessi dei centri
storici non solo europei ma islamici. Questa visione di
reversibilità tra città e casa, tra pubblico e privato,
non ci deve stupire: è uno dei presupposti della nozione di
mat-building teorizzata da Alison Smithson e praticata ampiamente nel
Team X, specialmente da Candilis, Josic e Woods.
Ma è importante precisare, che per De Carlo la nozione di
mat-building, efficacemente anche definito “casbah +
meccano,” non costituiva solo un espediente architettonico: alle
spalle di esso, per De Carlo, c’era qualcosa più
importante dell’architettura e cioè una irrinunciabile
idea di uno spazio urbano come espressione dell’autonomia
dell’individuo, libero dentro una comunità complessa.
In questo senso è fin troppo conseguente che la fusione tra
architettura e urbanistica era per De Carlo un caposaldo estesamente
praticato oltre che teorizzato. I suoi piani urbanistici erano centrati
sulle forme e sulle qualità, contro la burocratizzazione
quantitativa dello zoning della corrente di Astengo. Infatti la nozione
di “progetto-tentativo” che De Carlo proponeva era un modo
di tenere insieme la complessità del reale contro
l’illusoria scomposizione di chi credeva nell’analisi.
Per De Carlo però l’architettura doveva porsi un limite:
doveva, senza deroghe, arrestarsi nel momento in cui diventava
imposizione di potere. Questo era per lui un confine invalicabile, che
gli fece vivere con travaglio il ruolo di progettista di interventi
pubblici: a Matera, a Palermo, così come a Terni o a Burano,
come architetto, non poteva accettare la coercizione dell’utente.
Poi se l’intreccio tra potere ed architettura diventava occulto,
come nel caso del Piano Programma per il centro storico di Palermo, che
redasse con Giuseppe Samonà, allora la questione assumeva toni
scoraggiati e sofferti ben descritti nel contributo di Cinà, ma
anche altrove in questa raccolta.
Nondimeno, il rapporto con il potere, in senso lato, per uno spirito
anarchico come il suo, costituì l’asse intorno al quale si
sviluppò tutta la sua vicenda umana. Ebbe disagio ad inserirsi
in una università come quella italiana contaminata dalle
ingiuste storture del potere accademico. Questa condizione fu da lui
ampiamente denunciata e criticata ab origine in La piramide rovesciata
del 1968. Anche, ma non solo, per questo trovò una alternativa
educativa nell’ILAUD, forma libera di insegnamento e
sperimentazione, fuori dalle istituzioni. Si schierò anche
contro il sistema di potere lobbystico delle riviste di architettura e
notoriamente propose un’alternativa con “Spazio e
società”. Trovava spesso i suoi interlocutori
all’estero e non nell’immediato ambiente milanese o
italiano, rispetto ai quali era un outsider, “scomodo ma
necessario”, come appunto questo libro delinea.
Michele Sbacchi
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