Due lezioni da un terremoto
1 - Città estrema
2 - Il Borgo


Lucio Valerio Barbera




1 - Città estrema

Il programma di Ricostruzione del Centro Urbano di Napoli

1981 - 1991

All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, a seguito del terremoto del 23 novembre 1980, che scosse gran parte della Campania ed ebbe l’epicentro nell’Irpinia, fui chiamato ad assumere la responsabilità di Coordinatore della progettazione architettonica e urbana di un complesso programma di ricostruzione e riqualificazione edilizia e funzionale in favore del Centro Urbano di Napoli, da attuarsi attraverso più di 50 progetti di scala e complessità anche molto diverse tra loro. I luoghi e i manufatti su cui intervenire erano stati scelti dal Commissariato di Governo per la ricostruzione, nel corpo vivo del Centro antico e della prima espansione urbana moderna, il cui insieme costituisce l’organismo centrale - il Centro urbano, appunto - della attuale metropoli di Napoli. Città, questa, che per la profonda stratificazione storica delle sue strutture edilizie, per la complessità e il diffuso disagio del suo corpo sociale e per l’altissimo livello della sua cultura - che convive con la presente complessità urbana e umana - può essere considerata “Città estrema” nel quadro delle grandi città del mondo occidentale e, in particolare, del Mediterraneo europeo.

Il programma che mi fu affidato faceva parte di un ben più vasto programma di riqualificazione della intera città di Napoli. Nei fatti, quell’evento aveva avuto due epicentri: uno sismico nell’area di alcuni paesi dell’Irpinia (Fig.1, cerchio nero) con distruzioni e lutti ingentissimi (quasi tremila morti) e uno sociale nell’area di Napoli (Fig.1, cerchio rosso) che ebbe poche vittime rispetto a quelle dell’epicentro (circa sessanta morti per il crollo di un edificio residenziale moderno), ma fu scossa e danneggiata in molte sue strutture edilizie e sociali. Il programma completo per la ricostruzione a Napoli prevedeva la realizzazione di ventimila alloggi, andava attuato realizzando il cosiddetto Piano delle Periferie, costituito da dodici piani integrati di nuova edilizia e recupero urbano. Ma il Piano delle Periferie, per sua natura, non dava alcuna risposta alla domanda di interventi pubblici nel centro della città. Per questo fu data vita allo speciale Comparto Centro Urbano che fu affidato al Consorzio Edina, del gruppo EFIM che a sua volta mi chiese di assumerne la responsabilità come Coordinatore della progettazione architettonica e urbana.

I più di cinquanta progetti del programma di intervento del Comparto Centro Urbano (Fig. 2), di cui accettai la responsabilità progettuale, comprendevano due classi funzionali - residenze e servizi urbani - e tre tipi di intervento edilizio: restauro, sostituzione, nuova edificazione. Incrociando le due classi funzionali e i tre tipi di intervento i progetti furono raggruppati in sei categorie. Ma ciascuno di essi era un unicum progettuale sia per i suoi caratteri storici, sia per i caratteri, sempre specialissimi, del contesto Per affrontare in modo credibile un compito così complesso costituii un gruppo di lavoro interdisciplinare che includeva storici dell’architettura e della città, progettisti strutturali e impiantistici, urbanisti, paesaggisti e architetti, fra cui Arnaldo Bruschi, Antonio Michetti, Gianfranco Caniggia, inseriti nel Comitato Tecnico Scientifico da me voluto; Vittoria Calzolari, Alberto Gatti, Salvatore Bisogni, Antonio Lavaggi tra i progettisti. Durante il lavoro di coordinamento e progettazione fui assistito, naturalmente, dall’ufficio tecnico dell’Edina oltre che dagli allora giovani architetti, Corrado Giannini e Silvana Manco, del mio gruppo professionale, la ProgReS, di Roma. Il Commissariato di Governo per la Ricostruzione a sua volta costituì un gruppo di tecnici e consulenti sotto la guida di Vezio De Lucia; con il compito di garantire il rispetto delle linee di indirizzo della ricostruzione in un continuo lavoro di dialettica e collaborazione con i progettisti dei Consorzi concessionari. Noi avemmo la fortuna di essere seguiti, per conto del Commissariato di Governo, da un allora giovane architetto di grandissimo valore, Giancarlo Ferulano, che non soltanto fu determinante per il rispetto degli obbiettivi della ricostruzione, ma anche per la verifica delle linee progettuali di ogni intervento in funzione degli obbiettivi sociali e culturali del programma.

Proprio perché non mi nascondo che sarebbe stato metodologicamente interessante che nei quarant’anni trascorsi da quell’impresa io l’avessi ripercorsa criticamente, come non ho fatto, colgo l’occasione che mi viene data da FAM - che ringrazio sinceramente - per tentare di mettere fuoco almeno uno dei problemi che subito emersero nel nostro lavoro e che divenne ben presto dominante. Si tratta del problema del rapporto tra le attese del “committente sociale”, cioè dei futuri utenti - e gli obbiettivi e le aspirazioni dei progettisti. Napoli è una città di forte carattere identitario, nella quale si ha l’impressione che viva quasi intatto l’amalgama sociale della città antica accanto a una affermata e fiorente società borghese. Ma mentre questa, pur essendo erede dell’aristocrazia della cultura napoletana, ha naturalmente mutuato gran parte dei modi “transnazionali” che caratterizzano le società urbane in qualunque altro punto del nostro pianeta, quella mantiene quasi intatti tutti i suoi “pro” - creatività e urbanità - e i suoi ben noti “contro”, che emergono con i caratteri di un resistente arcaismo, distorto dalla modernità. In questo quadro troppo schematico - lo so e me ne scuso - tuttavia, ciò che sorprende e affascina soprattutto un romano come me, figlio di immigrati - come la maggior parte dei miei concittadini - è il rapporto naturale e sorprendente tra borghesi e popolani, qui a Napoli; un rapporto nel quale ciascuno, mantenendo la propria identità sociale, naturalmente sa intendere e parlare la lingua dell’altro come si trattasse di una delle tonalità nelle quali è composto ed eseguito, giorno per giorno, un vivo monumento musicale alla cui unità ognuno sa di partecipare paritariamente. In questa complessità, tuttavia, il nostro lavoro progettuale, indirizzato a operare nelle pieghe e nelle plaghe più disagiate della città, per statuto si rivolgeva proprio al “committente sociale” più antico e identitario tra quelli conviventi nella città. Per nostra fortuna, e per la fortuna del lavoro, il nostro impegno a Napoli durò quasi un decennio. Ci fu offerta, dunque, la possibilità di vivere la città e, soprattutto, i luoghi dei nostri interventi, direttamente e a lungo. Ci parve, dunque, di comprendere qualcosa. Qualcosa di importante del rapporto tra il nostro “committente sociale” e l’architettura del proprio spazio di vita; ma per timore di non essere in grado di farlo con mie parole, affido la definizione di ciò che mi sembrò di aver capito, alle parole - ormai antiche nel “moderno” - di Walter Benjamin, strappate alle prime pagine del suo libro su Napoli, sulla sua società, la sua architettura:

«L’architettura è porosa quanto questa pietra [intende la pietra in cui è scavato il sistema delle grotte e delle cave antiche di Napoli]. Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate, scale. Ovunque viene mantenuto dello spazio idoneo a diventare teatro di nuove, impreviste circostanze. Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo ‘così e non diversamente’. È così che qui si sviluppa l’architettura come sintesi della ritmica comunitaria [...] il nucleo dell’architettura urbana [...] è rappresentato dall’isolato, tenuto insieme agli angoli, come fossero grappe di ferro, dai dipinti murali rappresentanti la Madonna».

Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo ‘così e non diversamente’. Ecco: queste due frasi che, lette da un impegnato intellettuale dei nostri tempi, possono far pensare a un Benjamin che indulga in un’immagine convenzionale della nostra Città estrema, mi colpirono quando le lessi: confermavano quanto avevo appreso non soltanto osservando la realtà dei luoghi dove avevamo operato a Napoli, ma vivendo le difficoltà dei nostri primi progetti. Quelle brevi frasi confermavano, in fondo, che le scelte che facemmo dopo i primi momenti di mal orientate certezze erano almeno un tentativo di avvicinarsi, anche se di poco, alla realtà delle attese del nostro “committente sociale” e, soprattutto alla vitalità del suo irrinunciabile modo di continuamente rimodellare il proprio ambiente secondo la propria identità culturale.

Qui di seguito, quindi ho scelto di presentare quattro progetti che, tra gli altri, mi pare rappresentino con maggiore chiarezza questo nostro tentativo. Il primo riguarda il Piano di Recupero e la ricostruzione edilizia di un insediamento storico inglobato da tre secoli nella città di Napoli. In questo caso la ricostituzione del tessuto urbano degradato per mezzo di nuovi edifici residenziali e alcuni servizi aperti al pubblico, fu affrontata confermando “l’isolato a corte” come tipologia urbana più fedele alle aspettative del “committente sociale” e utilizzando un linguaggio architettonico basato sulla mimesi dei colori e delle movenze dell’edilizia urbana ottocentesca, l’ultima, io credo, che a Napoli realizzò con naturalezza, il passaggio dalla città barocca alla città del positivismo e della prima modernità. Il secondo e il terzo progetto fanno parte di un’azione di riqualificazione “per punti” di un quartiere di fortissima identità popolare e storica. Il quarto progetto riguarda l’intervento architettonico - ma meglio sarebbe dire “tettonico” - che fu realizzato nel cuore di un altro Piano di Recupero di un quartiere antico. La rapida descrizione dei quattro progetti, a parte ogni giudizio di valore - che può essere negativo per molti aspetti - credo possa testimoniare abbastanza chiaramente sia il nostro tentativo di interpretare le esigenze del “committente sociale” sia la sua capacità di appropriarsi naturalmente, ma ineluttabilmente, d’ogni progetto con pochi tocchi identitari, immettendolo così nella realtà della vita.

Il Piano di Recupero del quartiere di SS. Giovanni e Paolo.

Alcuni interventi furono destinati a riabilitare interi nuclei storici di quartieri urbani della città centrale. Uno di tali nuclei, quasi un quartiere in sé stesso, in località S. Carlo all’Arena, ha il nome di “SS. Giovanni e Paolo”. Si tratta di un antico insediamento situato fuori delle mura della città antica, inglobato nell’area urbana a partire dalla metà diciottesimo secolo quando, a suo ridosso, per volontà del re Carlo di Borbone, l’architetto Ferdinando Fuga realizzò la gigantesca mole del Real Albergo dei Poveri. Una parte dell’antico insediamento, già semiabbandonata, era stata demolita subito dopo il terremoto. Grandi vuoti s’erano aperti nel tessuto antico. Nel resto dell’edilizia storica del nucleo convivevano tipologie molto antiche e rovinate, a corte aperta e bassa densità, assieme ad edifici ottocenteschi di più densa consistenza urbana. Edilizia moderna molto alta e di cattiva qualità premeva al loro intorno. Il problema principale, in questo caso, fu quello di ricostituire l’unità ambientale e funzionale del quartiere così che la popolazione potesse naturalmente percepire i nuovi edifici ed usarli come appartenenti alla tradizione dei luoghi, nonostante fossero evidentemente realizzati con sistemi costruttivi industrializzati ed economici. (Figg. 3-4-5)

Il sistema costruttivo che fu scelto è di per sé molto vicino, forse il più vicino, ai modi tradizionali di realizzare l’involucro edilizio, in quanto riporta la finestra al concetto di semplice bucatura, di varie dimensioni, aperta in una parete caratterizzata da una serie ripetuta di vuoti piuttosto piccoli rispetto al prevalere della superficie piena. Tuttavia le applicazioni prefabbricate di tale concezione, che hanno generato un ben noto sistema – il pannello finestra – in generale danno luogo ad immagini che sono tra le più alienanti dell’edilizia moderna: ininterrotte sequenze di fori quadrati senza alcun elemento di qualificazione, pareti alveari ossessive, impossibili da integrare in alcun paesaggio urbano moderno, tradizionale o storico. Ma a ben guardare, l’immagine più familiare e gradita che ci viene incontro dalle pareti che si allineano lungo le strade del centro di una qualsiasi nostra città storica, altro non è che il frutto di una semplice articolazione simbolica e costruttiva - dunque architettonica - di una parete muraria in cui si aprono ordinatamente – cioè monotonamente - bucature tendenzialmente uguali e relativamente piccole. In questo quadro, tenendo conto dell’obiettivo di inserire senza strappi la nuova edilizia nell’ambiente esistente, seguimmo appunto quella strada tradizionale e ben sperimentata, incidendo la superficie dei pannelli prefabbricati in modo da comporre sulle facciate, una gerarchia di simboli architettonici chiara ed efficace perché naturalmente comprensibile (Figg. 4).

Due interventi nel tessuto urbano di Secondigliano

Il programma di riqualificazione affidato al Comparto “Centro Urbano” di cui sono stato progettualmente responsabile, oltre ad alcuni complessi interventi coordinati dallo strumento urbanistico del Piano di Recupero – di cui abbiamo visto un esempio nelle pagine precedenti – comprendeva una moltitudine di interventi puntuali, per lo più monofunzionali – residenza, specifici servizi, zone verdi. Essi furono opportunamente inseriti in alcuni vuoti dei tessuti preesistenti con il duplice obbiettivo di rispondere alla urgente domanda di abitazioni popolari e dotare l’ambiente urbano di attrezzature a servizio della popolazione. In questo quadro credo sia utile presentare due interventi puntuali, di dimensione e funzione diversa – un complesso residenziale a basso costo e un centro di servizi per lo sport e il benessere – ambedue collocati a non grande distanza l’uno dall’altro sull’asse di Corso Secondigliano. (Fig. 6) Nella loro diversità dimensionale, funzionale e architettonica nonché nella loro specificità gestionale, i due interventi, tuttavia, furono concepiti come parti di un contributo unitario – ancorché molto parziale – alla riabilitazione di una zona critica della cintura di Napoli. Corso Secondigliano è il nome che la Via Appia prende attraversando l’antico insediamento periurbano che costituisce una complessa, a volte difficile realtà sociale.

  1. Il complesso residenziale sito nel cosiddetto Quadrivio di Arzano - circa 200 alloggi - è diventato noto per alcune recenti serie televisive, essendo stato citato in libri e film che indagano la complessità sociale di quel territorio. L’intervento non fu mai veramente finito, perché gli alloggi, ancor prima del loro completamento, furono occupati da una moltitudine popolare che si stabilì in essi senza rispettare le regole di assegnazione. Tuttavia, da allora è stato abitato e adempie sostanzialmente alle sue funzioni. Il complesso è organizzato attorno a una corte principale in forma di piazza aperta sul Quadrivio di Arzano. Il sistema costruttivo è lo stesso adoperato nell’esempio precedente, ma finito con colori chiari e meno contrastati. (Figg.7).
  2. Il Centro di servizi per lo sport e il benessere, affacciato su Corso Secondigliano, include una piscina da allenamento, una palestra, una palestra per arti marziali, campi sportivi e aree verdi. Adoperando una dizione anglosassone molto diffusa, questo è un tipico progetto infill che attraversa letteralmente il corpo del tessuto urbano utilizzando una esigua sequenza di spazi liberi, stretti fra gli edifici. Composto di corpi di fabbrica e piccole aree pubbliche attrezzate, collega la strada principale – Corso Secondigliano - con l’interno del quartiere, senza soluzione di continuità. Il complesso pare funzionare bene e sembra essere stato molto ben accolto dalla popolazione locale che ne ha fatto un centro di incontro e ricreazione per l’educazione fisica individuale e collettiva (Figg.8).

Piano di Recupero di Via Avellino a Tarsia e Parco dei Ventaglieri

Un altro Piano di Recupero di una zona complessa del Centro Storico di Napoli riguardò il crinale su cui corre Via Avellino a Tarsia e le sue adiacenze sino alla zona Ventaglieri (Figg.9). Elemento fondamentale del Piano di Recupero fu la bonifica e il riuso di una vasta area interclusa tra gli spalti del crinale di Tarsia e Vico Lepri ai Ventaglieri, interessata anche da un vasto sistema di cave. In tale area dopo il terremoto era stato necessario demolire un degradato e informe tessuto edilizio in gran parte già abbandonato. Nel vuoto creatosi realizzammo un importante parco urbano che comprende una scuola dell’obbligo, giardini pubblici su diversi livelli ed un sistema di ascensori e scale che collegano le due parti dell’area, quella inferiore, attorno a Vico Lepri ai Ventaglieri, e quella superiore attorno a Via Avellino a Tarsia. (Figg.10-11) Il Parco dei Ventaglieri, come viene chiamato oggi il progetto realizzato, sembra aver avuto un notevole successo sociale: nei suoi spazi si svolgono spontanee e pubbliche funzioni collettive, con attiva partecipazione da parte degli abitanti. (Figg.12).

Il progetto del Parco è concepito per favorire l’integrazione fra le funzioni scolastiche e gli spazi pubblici. Una parte delle coperture terrazzate della scuola sono anche di uso pubblico, mentre la scuola stessa può accedere ad alcuni spazi del Parco. I giardini sono collegati da un sistema di percorsi che introduce, accanto agli “horti conclusi” e alle zone di sosta, l’invito all’esplorazione, cioè a vivere i luoghi anche in modo riservato e soggettivo. Il Parco è a servizio di un vasto ambito urbano e sociale; ma un suo effetto particolarmente positivo è stato quello di aver indirettamente riqualificato la vita quotidiana di chi vive negli edifici dell’immediato intorno, oggi affacciati su uno spazio pubblico che, a più di trent’anni dalla sua realizzazione, sembra gestito con sufficiente cura e usato con raro interesse.

Ludovico Quaroni, al cui magistero mi sono formato, ci insegnava che i progetti realizzati sono come figli che diventano adulti: non dobbiamo sperare che si mantengano inalterati, come li abbiamo disegnati. Al contrario, dobbiamo augurare loro di attrarre interessi diversi dal nostro e di sapersi adattare alle esigenze che, se amati, saranno chiamati ad esaudire. Così, non mi rattrista davvero che un campo di calcetto abbia coperto una parte del bel pavimento a grandi stelle che avevo disegnato con cura nella piazza bassa; sono lieto, invece, che quello spazio abbia trovato una funzione - da me non prevista - che ha aumentato la sua capacità di attrazione. E conta ancora di più che la gamma degli spazi di cui è composto questo “arduo” Parco abbia sollecitato la fondazione di una istituzione “partecipata”, il Parco Sociale Ventaglieri, di cui qui di seguito trascrivo il link del sito, che parla di questo progetto con più verità di quanta possa esprimerne io:http://www.parcosocialeventaglieri.it/pagine/parco.htm 

2 - Il Borgo

Il programma di Ricostruzione del Comune di Castelnuovo di Conza 1981 - 1991

Negli stessi anni in cui ero impegnato nella riqualificazione del Centro Urbano di Napoli, fui chiamato a interessarmi, con il mio gruppo romano di architetti, della ricostruzione del Comune di Castelnuovo di Conza, il più vicino all’epicentro del terremoto dell’Irpinia nel vero e proprio Cratere sismico (Fig. 13). Il quadro istituzionale del lavoro era molto diverso da quello nel quale operavo a Napoli: questa volta capofila del lavoro di progettazione era una importante società di ingegneria, la Technital di Verona - che collaborò con i tecnici della Protezione Civile e del Commissariato di Governo per la Ricostruzione specialmente per quanto riguardava gli aspetti prettamente sismici e di sicurezza. Il mio gruppo di lavoro, che aveva anch’esso forma di società di progettazione - la ProgReS (acronimo di Progetti Ricerche e Studi) - aveva agito per anni come costante riferimento della società capofila per la progettazione di architettura e urbanistica in Italia e all’estero. Come giù detto, nella società ProgReS condividevo le mie responsabilità di progettazione con gli allora giovani Corrado Giannini e Silvana Manco. Nel caso di Castelnuovo di Conza fu Corrado Giannini a seguire il lavoro con autonomia crescente via via che si passò dalla impostazione alla progettazione alla realizzazione. Corrado Giannini ed io ci conoscevamo da decenni. Lo avevo incontrato nei primi anni sessanta del secolo scorso, quando egli, assieme a Francesco Cellini, Maurizio Cagnoni, Domenico Cecchini era tra i migliori studenti degli ultimi anni della facoltà di architettura della Sapienza di Roma, dove io svolgevo già i miei primi incarichi di docente. Negli anni della ricostruzione di Castelnuovo di Conza, egli fu coadiuvato con grande intelligenza da Mario Andreanò, che diresse lo studio appositamente aperto dalla Technital a Battipaglia; per alcune idee preliminari chiamammo a collaborare con noi Francesco Cellini, come spesso avevamo fatto negli anni precedenti in altri lavori. Il Comune di Castelnuovo di Conza, pur appartenendo alla provincia di Salerno, è disteso su un crinale delle propaggini nord-occidentali dell’Appennino lucano, a 650 metri nell’alta valle del fiume Sele. Il suo abitato principale - il “paese” - aveva subito una devastante distruzione la sera del 23 novembre 1980, quando il terremoto lo colpì duramente. La parte più antica dell’abitato fu completamente distrutta (Figg.15) e il numero di morti - 85 su circa mille abitanti - non fu maggiore soltanto perché la scossa avvenne alle 19:30, di domenica. La gente era ancora in piazza prima di cena; il paese viveva come una comunità coesa, le strade erano gli spazi della vita collettiva. La parte più alta, antica e ripida del borgo fu rasa al suolo. La piazza situata nel punto centrale del crinale rimase monca. Tutti gli edifici a ponente furono spazzati via dal sisma, quelli a levante restarono in piedi, ma gravemente danneggiati. (Figg.16). Anche se il tempo aveva già fatto sparire la torre che spicca nelle stampe antiche e nello stemma civico (Figg.14), fino alla sera del terremoto l’abitato era tutto raccolto attorno al vertice più alto e antico del crinale, dove emergevano ancora le restanti murature del castello e la piccola chiesa patronale (Figg.17). La forma del paese e l’identità sociale ancora coincidevano: ma quella sera la figura identitaria del paese si dissolse. L’esame geologico che precedette la progettazione scartò l’idea di ricostruire la parte dell’insediamento antico rasa al suolo dal terremoto: in quella zona il sottosuolo era composto da un banco di grandi rocce intrusive frammentate, tali cioè da entrare in devastante risonanza con l’onda sismica, come era appunto avvenuto. Il programma di progettazione prese la forma di un Piano Regolatore Generale molto dettagliato, che possiamo considerare formato da due parti: ciò che rimaneva del Centro Storico fu oggetto di un meticoloso studio come in un vero e proprio Piano di Recupero. Lo studio stabilì, edificio per edificio, i caratteri tecnici e architettonici della ricostruzione e del ripristino edilizio antisismico, funzionale ed estetico; esso definì nel dettaglio anche le caratteristiche del recupero degli spazi pubblici, vicoli, strade e piazze dell’antico centro. Per le nuove costruzioni, necessarie per sostituire l’edilizia distrutta dal sisma, il Piano agì come vero e proprio Piano Particolareggiato Planivolumetrico; oltre a scegliere le aree di intervento, esso disegnò nel dettaglio la rete degli spazi pubblici e stabilì i caratteri tipologici, volumetrici e architettonici degli edifici della nuova espansione. Tra gli edifici progettati ex novo spicca la nuova chiesa parrocchiale, posta nel principale snodo della nuova espansione, dove risiede, ormai, la maggior parte della popolazione. Il Piano Regolatore incluse un piccolo insediamento residenziale che trovammo già realizzato. Esso era il frutto di un’iniziativa di Indro Montanelli; era stato rapidamente messo in opera, subito dopo il sisma, con un sistema di prefabbricazione in cemento armato. Ma l’attuale insediamento di Castelnuovo di Conza comprende anche un altro quartiere a sé stante, non incluso nel Piano Regolatore perché costituito dalle abitazioni provvisorie prefabbricate in legno, che avrebbero dovuto essere smontate e portate via dopo la ricostruzione. In realtà, una volta assegnate, quelle abitazioni non furono più restituite ed entrarono a far parte, stabilmente, del patrimonio in uso di quasi ogni famiglia di Castelnuovo. Esse erano state realizzate da una famosa ditta dell’Alto Adige. Solide e ben costruite, di non spiacevole aspetto - ancorché fuori luogo nell’Appennino lucano - ampliano ancora di più la superficie occupata dall’insediamento moderno, comunque molto maggiore di quella dell’antico paese se non altro per ragioni di adeguamento agli “standards urbanistici” moderni. (Fig.18)

Il Piano Regolatore prevedeva di trasformare in “Parco della Rimembranza” la zona dove il paese aveva subìto la distruzione totale. La semplice trama dei “vichi” antichi avrebbe costituito il disegno dei percorsi nel verde. Il Parco non è stato ancora realizzato, ma il crinale comincia a prendere l’aspetto naturalistico di un’area fittamente alberata e risulta che l’idea di realizzare, nel tempo, un vero e proprio Parco urbano non sia stata abbandonata. Ciò che resta del centro storico conserva ormai pochi luoghi ed edifici appartenenti alla tradizione; tuttavia essi paiono in grado di riprendere almeno in parte, ma con grande dignità, la funzione identitaria che ebbero nel passato (Figg.18). Ma intanto il paese ha spostato il suo baricentro verso le zone di più facile insediamento, verso Nord. Oggi la parte nuova di Castelnuovo è quattro volte più ampia e abitata di ciò che resta del vecchio centro. E questo, io credo, ha dato soddisfazione, ma anche disorientamento a una comunità già colpita gravemente dal terremoto. Certamente l’evento sismico, in un paese non grande - come è appunto Castelnuovo di Conza - ha segnato gli abitanti nel profondo: negli affetti personali, nei beni, soprattutto nella propria identità collettiva. In condizioni come queste, cioè quando viene danneggiata o distrutta “la casa” di una comunità storicamente radicata e integrata nel proprio ambiente naturale, alla perdita della forma dei luoghi si accompagna un rischio di allentamento dei rapporti comunitari. Spetterebbe a chi progetta la ricostruzione, immaginare la forma del nuovo insediamento come quella di una nuova “casa” della collettività insediata, una “casa” pronta ad assecondare o addirittura a stimolare la rinascita della “recita a soggetto” che è sempre la vita collettiva. Una recita che non può esistere se non è “partecipata” e che, dunque, non può essere tale se il progetto non ha preparato luoghi, spazi, situazioni che possano prestarsi - secondo i bisogni e l’estro della generazione vivente - come possibili scene di quella recita. Tuttavia, in generale, l’uso dei già richiamati moderni “standards” edilizi e urbanistici indirizza il disegno d’insieme delle espansioni insediative verso la realizzazione di modelli certamente non confrontabili con quelli degli insediamenti storici italiani, borghi o città che essi siano.

Ma non basta.

In questo quadro, dunque, il mantenimento e la cura di ciò che resta dell’insediamento storico originario nel nuovo organismo insediativo è fondamentale non soltanto per conservare un irripetibile bene storico, testimone della cultura da cui proveniamo, ma soprattutto per mettere a disposizione delle nuove generazioni la scena più adatta all’espressione dei momenti più intensi e ricchi di memoria della loro vita collettiva. Ma non basta; in questo nostro tempo, mentre ci applichiamo alla restituzione di una “casa” alle comunità toccate da eventi tragici o dall’incuria, sappiamo che quelle stesse comunità, da tempo, sono comunque in crisi. Una crisi lenta forse, ma inevitabile; è la crisi nella quale versa soprattutto la miriade degli antichi insediamenti minori del territorio italiano, i “borghi”, che, se non sono raggiunti, divorati e digeriti dalla periferia delle metropoli, sono lentamente abbandonati dalle nuove generazioni. Castelnuovo di Conza che aveva circa mille abitanti la sera del terremoto, oggi ne conta poco più di cinquecento. Il miglioramento sostanziale delle condizioni abitative, il rinnovamento di tutto il patrimonio edilizio, la riqualificazione degli spazi pubblici non è bastato a frenare il fenomeno che io chiamo “anemia urbana”: prima lo ha accelerato e poi, forse, ritardato. Ma non lo ha invertito. Il paese, ancorché modernamente rinnovato, perde circa cento abitanti ogni cinque anni. Anche per questo l’Amministrazione comunale e i sindaci che si sono succeduti, spesso appassionati cultori della storia del “borgo” e del suo territorio, si adoprano per restituire ai superstiti luoghi del vecchio centro storico l’anima che paiono aver perso, malgrado la loro riqualificazione; l’anima, dico, cioè la capacità di attrarre e, allo stesso tempo, di rappresentare la comunità. Dobbiamo sperare che non sia tardi mentre il processo di “anemia urbana” prosegue. Nei fatti non basta ricostruire, riqualificare, risanare. Occorre qualcosa di più decisivo. C’è bisogno di innovare profondamente la rete insediativa territoriale di cui i nostri borghi fanno parte, che, nel nostro caso, ad esempio, è fatta di città - Salerno, Potenza, Napoli - di campagna fittamente abitata - tra Castellamare, Pompei, Sarno, Nocera inferiore - e dei tanti borghi e paesi montani simili a Castelnuovo. L’intento deve essere quello di fare di ogni centro o agglomerato ancora funzionante un nodo - o una maglia - di una rete digitale veloce e, soprattutto, di una rete di trasporto pubblico adeguato alle grandi metamorfosi attuali. Da una parte, dunque, si tratta di riprendere, con un po’ di umiltà, la vecchia idea che Giancarlo De Carlo cercò di attuare molto precocemente a Colletta di Castelbianco - splendido paese aggrappato all’Alpe ligure - dall’altra, senza timore, è necessario riesplorare le idee di sistemi di trasporto pubblico alternativo che hanno addirittura lontane radici storiche, nell’Ottocento. Ma per venire più vicino a noi, chi non ricorda la passione degli anni Sessanta per una categoria di trasporti meccanizzati che avrebbe consentito di superare in linea retta lunghi percorsi e ardui dislivelli, con sistemi più veloci, più leggeri di tutti quelli cui poi siamo stati abituati da un pigro sviluppo industriale? Non sta certo a me, architetto, esplorare la rinata categoria dei trasporti “ettometrici” (che nome astruso) funivie, funicolari, ascensori verticali e inclinati, people mover. Ma certo sta a me indicare come essenziale l’integrazione del nostro lavoro con quello degli ingegneri informatici, certo, ma soprattutto dei progettisti delle infrastrutture e dei sistemi di trasporto, i più evoluti. Perché allora non guardarsi attorno, nel mondo, con occhi capaci di leggere l’innovazione dove essa realmente si palesa? perché non comprendere quanta innovazione “disseminabile” viva già nelle sperimentazioni di alcuni sistemi di trasporto collettivo che finora ci sono sembrati soltanto dimostrazioni “di nicchia”, come i sistemi a fune di Singapore e di un numero crescente di città maggiori e minori cinesi e sudamericane e i trasporti su elicotteri-bus pubblici? Come continuare, altrimenti, a credere che ricostruire, riqualificare, restaurare con la cura nostra, di noi architetti intendo, sia sufficiente a fare dei nostri borghi, della campagna urbanizzata, ma anche delle nostre città storiche, i luoghi privilegiati di un modo di vivere adeguato ai nostri tempi? E soprattutto adeguato ai bisogni delle generazioni future?

Bibliografia

AA.VV. (1985) - Quaderni della Edina. La ricostruzione a Napoli. Edizioni Edina.

BENJAMIN W. e LACIS A. (2020 [1924]) - Napoli Porosa. Editore Libreria Dante & Descartes.