Architettura che fa scuola. Dolf Schnebli e il caso di Locarno

Lucia Pennati




Un’architettura che educa

Fin dall’inizio del XX secolo, in Svizzera la riforma pedagogica e scolastica si sviluppa in stretto legame con il dibattito architettonico[1]. In linea con i principi dell’architettura moderna, si consolida la convinzione per la quale una buona educazione non possa prescindere dall’ambiente in cui viene attuata. Nel secondo dopoguerra l’architettura scolastica non si distingue solo per il carattere funzionale e tecnico, ma anche perché assume un ruolo educativo[2] (Reichlin 2008). Infatti, attraverso accorgimenti spaziali ed edifici sperimentali si anticipa la riforma nelle istituzioni scolastiche, facendo dell’architettura una forza trainante del cambiamento pedagogico e del conseguente rinnovamento sociale. La volontà degli architetti moderni di realizzare nelle scuole la propria idea di riforma è espressa nel manuale per la progettazione scolastica di Alfred Roth, testimonianza anche del background culturale che li accomuna, basato sulla rilettura di una lunga tradizione pedagogica svizzera e sulla conoscenza delle recenti sperimentazioni didattiche[3] (Roth 1950).

Un caso emblematico di architettura che educa è la scuola di Locarno[4] (1959-1964), situata nel cantone Ticino, opera dell’architetto Dolf Schnebli (1928-2009) ed esempio di soluzioni pedagogiche all’avanguardia. Grazie a precise scelte architettoniche, l’architetto pone l’attenzione sull’apprendimento e sulla formazione dei bambini, pensando a nuovi modi di abitare lo spazio scolastico, caratterizzati da flessibilità e impegno sociale. Sfruttando la capacità educativa dell’architettura, Schnebli fornisce strumenti spaziali che avvicinino all’apprendimento continuo, favorendo un processo di autodidattica – come esprime nel suo ideale di scuola una volta diventato professore (1994).

Il modello scuola-villaggio

Nel caso studio della scuola di Locarno l’analogia con il villaggio rappresenta il «concetto progettuale»[5] alla base di tutta la sua definizione. Questo modello compositivo, che non viene imposto a priori, intende promuovere uno spirito comunitario, in linea con la riforma pedagogica coeva che considera il bambino come membro della collettività e fondamento della nuova società[6]. Posta al margine dell’urbanizzazione ortogonale ottocentesca della città di Locarno e nel cuore dello sviluppo edilizio disordinato degli anni ’60, la nuova scuola si inserisce nel contesto urbano con le caratteristiche funzionali e formali di un villaggio per l’istruzione.

Il concetto di edificio come struttura urbana ricorre già nel De re aedificatoria dell’Alberti[7] e, come precisa Bruno Zevi, riacquista rilevanza a partire dagli anni ’50 (2018). Applicato all’ambito scolastico è assimilabile alla nozione di scuola come «micro città» teorizzata da Hermann Hertzberger, caposaldo della sua concezione di spazio educativo (2010). Allo stesso contesto culturale si riferiscono gli intenti antropologici applicati nell’orfanotrofio di Amsterdam di Aldo Van Eyck, al quale l’esempio di Locarno si avvicina per sviluppo formale[8]. Se l’orfanotrofio di Van Eyck materializza le relazioni sociali dei bambini che lo abitano per rafforzarne un’identità, la scuola di Schnebli richiama una familiarità con la struttura tradizionale urbana, diventando campo di prova per le interazioni future nella società. In analogia con la visione di scuola come un villaggio nella città, la piazza costituisce il perno compositivo dell’ensemble e, con la sua disposizione ad anfiteatro, accoglie e divide la parte pubblica e quella scolastica. Questo dispositivo urbano mette in scena la vita collettiva dei bambini, insegnando loro “per osmosi” a guadagnarsi un posto nella collettività. Evocando gli schemi tradizionali e mimando un modello di città, la piazza, nucleo dell’intero complesso, incoraggia le relazioni, promuove l’incontro e accoglie la vita comunitaria.

Nell’intenzione dell’architetto il ruolo educativo del manufatto non si limita alla vita didattica, ma ospitando spettacoli pervade il quartiere e conferma la sua funzione urbana di luogo per eccellenza delle interazioni. Infatti per caratterizzare il progetto, Schnebli ricorre al principio di «Schule als offenes Haus», ossia di “scuola come casa aperta”[9], diffuso in ambito architettonico svizzero in quegli anni, e che si fonda sull’annullamento della dicotomia tra vita quotidiana e didattica per proporre una nuova continuità, accogliendo al di fuori dell’orario scolastico altre attività culturali e sportive e riflettendo le coeve aspirazioni di collettività. In questo modo la scuola diventa infrastruttura al servizio della città e favorisce l’incontro multigenerazionale garantendo lo spazio necessario alla crescente richiesta di strutture per il tempo libero. Il carattere democratico legato alla nozione di scuola si rispecchia nell’offerta formativa, con corsi e attività extra-scolastiche per gli adulti, previste nella palestra, nell’aula magna e nelle aule speciali (per il disegno e le scienze naturali); luoghi che acquisiscono un carattere di “casa aperta”[10]. Allo stesso modo lo spazio, definito a misura di bambino diventa «oggetto di affezione» (Reichlin 2008), permettendo agli adulti di ricordare la propria infanzia e di riscoprire il fanciullo in sé (Schnebli 1972). Alla vocazione comunitaria dell’edificio scolastico prende inoltre parte il rifugio, situato al piano interrato e atto a ospitare, in caso di necessità, fino a cinquecento persone.

La visione scuola-ambiente

L’ambiente educativo si misura nella costruzione di «una scuola più aperta, antiautoritaria e nella quale il ragazzo entri con piacere». Seguendo questa intenzione, Schnebli progetta “ambienti” per una nuova scuola, creando le migliori condizioni in cui «allievi, docenti e servizi sono chiamati a vivere»[11] e consolidando le relazioni con lo spazio aperto e con le opere d’arte.

In Svizzera la progettazione di scuole è solitamente assegnata attraverso un concorso aperto, banco di prova ideale per giovani architetti che, grazie a giurie illuminate, possono proporre con successo soluzioni innovative (Reichlin 2008). Nel 1959 il trentenne Schnebli vince il concorso indetto dal dipartimento cantonale dell’istruzione con il progetto dal motto “Ambiente”. Il termine rimanda al dibattito architettonico contemporaneo e soprattutto alla pedagogia Montessoriana, secondo cui ogni ambiente costruito influisce attivamente sulla crescita del bambino[12]. Nella scuola di Locarno l’ambiente educativo si distingue per la composizione e il ruolo svolto dalle zone di collegamento[13]. Si tratta di una rete di percorsi, di strade e piazze coperte che si ampliano, si compongono, si aggregano e si ritirano a creare spazi dalle diverse identità e a ricordare un movimento quasi urbano, analogamente alla scuola di Lünen ad opera di Hans Scharoun[14]. Gli spazi distributivi, nelle loro dimensioni generose e nell’ampia possibilità di visuali prospettiche, non rappresentano uno spazio meramente funzionale, come quello di un corridoio, ma rivestono una valenza educativa. Sono spazi interstiziali dedicati all’incontro e allo sviluppo delle competenze sociali dei bambini, che favoriscono le relazioni ma, grazie a diversi livelli di intimità, preservano anche l’opportunità di rimanere in disparte.

Camminare in questa rete distributiva di spazi costituisce un’esperienza formativa in sé, sia per il contatto con le diverse classi e attività svolte, sia per la consistente presenza di opere d’arte, che completano lo spazio, facendo della scuola un caso unico (Martinoli 2015). Per un programma di educazione estetica Schnebli collabora con numerosi artisti, affermando che «forse in nessun edificio la presenza d’arte è così importante come nelle scuole. I bambini sono i più predisposti a percepire il suo valore» (1966a). Nella scuola di Locarno, quindi, gli artisti godono di una libertà totale, di contenuto e mezzo espressivo, che consente loro di intervenire con le proprie creazioni – la cui disposizione, secondo l’architetto, ricorda l’esperienza della passeggiata attraverso un paese ticinese dove, inaspettatamente, si può incontrare una varietà di opere (Schnebli 1966a). L’importanza dell’arte e dell’ambiente estetico per l’educazione morale è un tema diffuso nel secondo dopoguerra, a partire dal cosiddetto dibattito della sintesi delle arti[15] e nella sua declinazione scolastica, basata sulle teorie del filosofo britannico Herbert Read (Roth 1950). Read afferma che le opere artistiche devono essere mostrate ai bambini in un ambiente adeguato, senza confondere la scuola con un museo, ma evidenziandone il carattere di laboratorio (1958) e associando dunque la forma dell’arte all’atto di formazione. Inoltre, alcuni fondamenti didattici sono da rimandare a Pestalozzi, per il quale tutta la vita è insegnamento e che introduce nella sua pedagogia la rappresentazione geometrica, propedeutica alla scrittura e all’arte in generale[16].

Le opere creative si dispongono anche all’esterno, nel giardino circostante la scuola, complementare all’ambiente educativo interno. Per gli spazi verdi il progetto di Schnebli prevede non solo il campo per le attività sportive all’aperto, ma una vera e propria topografia di colline che racchiudono e delimitano il sedime verso il limite della strada[17], con aree aperte collettive e cortili privati, adatti al raccoglimento. Seguendo il principio delle «classi verdi»[18], tutte le aule al piano terra hanno un accesso diretto all’esterno: ciò permette di svolgere lezioni e pause all’aperto, sfruttando così i benefici dell’aria pura e della luce del sole, salutari per la crescita[19].

L’aula come casa

Nella scuola di Locarno le classi rappresentano il cuore del progetto, sia come unità didattica matrice di ogni scuola e luogo per eccellenza di interazione tra maestri e alunni, sia dal punto di vista compositivo, in quanto elemento principale del sistema villaggio, come abitazione. Si può riconoscere una tipologia a padiglioni, definita da un cluster di aule, ognuna coperta da un tetto piramidale che ne permette dall’esterno l’identificazione volumetrica.

Parimenti, l’aula ricorda la singola abitazione, nucleo del centro abitato scolastico e di ogni attività educativa. L’analogia tra aula e casa rimanda agli scritti del pedagogista Pestalozzi, per il quale la Wohnstube, ossia il salotto o ritrovo del nucleo famigliare, è il prototipo non formale ma teorico dell’aula scolastica e l’origine dell’educazione dei bambini (Perlick 1969). Inoltre la costruzione di una classe come casa garantisce un’atmosfera familiare necessaria all’apprendimento, soprattutto nel contesto del secondo dopoguerra, quando le famiglie lentamente perdono il ruolo di educatore principale[20]. Proprio secondo queste premesse nel 1955 fu realizzato un progetto pilota per una scuola universale, commissionato dalla rivista americana Collier a Walter Gropius e TAC[21]; scuola che, nello sviluppo formale delle singole classi, anticipa il progetto di Schnebli, che presso TAC aveva collaborato non appena terminati gli studi.

Secondo le nuove correnti pedagogiche, la rigida gerarchia tra insegnante e alunno deve essere abolita e l’apprendimento non può limitarsi a una lezione frontale, ma devono essere garantite diverse modalità di studio, come ad esempio il lavoro in piccoli gruppi o la discussione in cerchio (Gross 1962). Anche se nel programma della scuola di Locarno e nelle richieste istituzionali queste istanze pedagogiche di riforma non sono esplicitamente formulate, Schnebli ritiene che sia compito dell’architetto progettare in funzione degli ideali più all’avanguardia, facendo “scuola all’idea di scuola”.

Egli propone per le classi una forma quadrata che, date le sue proporzioni regolari, garantisce una libera collocazione dei banchi e concede tre pareti all’istruzione, una con una lavagna fissa e due laterali con lavagne mobili verticali, che servono contemporaneamente da ante scorrevoli per gli armadi. Il lucernario o camino centrale d’illuminazione è proposto per garantire una certa flessibilità didattica. Infatti, una fonte di luce diffusa e neutra non interferisce con le possibili disposizioni dei banchi all’interno dell’aula. Inoltre, nelle teorie pedagogiche tout-court si considera la luce zenitale ideale per la concentrazione dei bambini e per diffondere un’atmosfera di sicurezza (Schnebli 1966b). Questa sorgente luminosa è rafforzata dalla presenza di una banda di finestre poste su un lato della classe, che permette ai bambini di guardare fuori senza distrarsi, ma godendo dei benefici della vista del verde. La doppia illuminazione rappresenta un’esigenza di natura igienico-fisica propagata nelle scuole moderne; un’altra necessità riguarda la ventilazione incrociata, anch’essa garantita dalle finestre e dal lucernario o camino, che ricorda per forma e funzione un tradizionale villaggio iracheno, studiato da Schnebli durante il suo viaggio sulla via di terra verso l’India[22] (2009).

Muri che insegnano

La prospettiva pedagogica dell’infrastruttura scolastica locarnese si rispecchia anche nella costruzione e nei materiali che non sono celati, ma resi ben visibili, con l’intento di stimolare una tensione conoscitiva nei bambini, spiegando loro i principi basilari su cui si fonda l’edificio. Nella sua costruzione il manufatto svolge un ruolo educativo.

Secondo il principio pedagogico enunciato da Rousseau, per il quale ogni apprendimento avviene a contatto con le cose (1963), la struttura insegna attraverso la concretezza della sua materialità. Inoltre secondo Pestalozzi i bambini si avvicinano all’educazione attraverso l’esperienza e il proprio punto di vista, abitando lo spazio scolastico. Allo stesso modo, per Schnebli è importante non nascondere ai loro occhi il corso dell’acqua piovana che, una volta caduta sul tetto e raccolta, defluisce fino al terreno. Ne sono un esempio i doccioni in cemento armato che, aperti su di un lato e disegnati dall’architetto con una plasticità che ricorda il maestro Le Corbusier, permettono di illustrare la loro funzione pratica.

Allo stesso modo svolge un ruolo educativo la scelta dei materiali, che ricade su superfici grezze, non trattate ed elementi presentati nella loro cruda corporeità e fragilità[23]. Ad esempio, i sassi della piazza principale della scuola sono gli stessi sassi del ritrovo centrale di Locarno, la Piazza Grande, e il loro utilizzo nell’ambiente scolastico rimanda a un’immagine sicuramente familiare che ne richiama la valenza simbolica. Questa analogia associa, nella mente del bambino, la piazza quotidiana scolastica con la piazza cittadina. Inoltre, il pavimento dei collegamenti esterni e interni della scuola è rivestito in granito della Valle Maggia, materiale resistente alla forza e al gioco dei bambini ed emblema della tradizione ticinese dei pavimenti delle case storiche, conosciute o abitate da molti di loro. La scelta della pietra dipende dalle sue proprietà visive, tattili, e anche acustiche. A detta di Schnebli, superfici dure come quelle lapidee, grazie alla loro proprietà di riflessione del rumore, creano un ambiente sonoro che induce i bambini a non causare ulteriore baccano (1972). All’interno della scuola elementi come il legno o i mattoni sono ben visibili nella loro costruzione e sovrapposizione; i giunti non sono mascherati, ma diventano parte integrante dell’espressione estetica dell’edificio e della sua morale.

La scuola come dispensatore di educazione morale

Nell’esempio illustrato l’edificio non rappresenta solo una mera risposta spaziale, ma il suo progetto costruisce un ambiente educativo a tuttotondo, che garantisce la formazione morale dell’uomo. La realizzazione della scuola di Locarno si dispiega nella coerenza tra il tema progettuale dell’insegnamento e la sua realizzazione, controllata in tutte le singole parti e applicata a diverse scale, dall’impianto volumetrico al dettaglio.

In quest’ottica la scuola dimostra l’intenzione di educare alla vita sociale proponendo i principi cardine della vita cittadina nel suo spazio costruito. L’analogia tra scuola e villaggio, che si articola attraverso la piazza e le funzioni pubbliche, le strade e i collegamenti interni, la familiarità dell’ambiente aula-casa e infine i dettagli costruttivi, permette di avvicinare i bambini al significato della vita comunitaria urbana, determinando il contributo dell’ambiente fisico alla loro crescita morale.

Il paradigma dimostra come l’architetto sfrutti la portata educativa del corpo architettonico, assumendo un ruolo attivo e progettando un ambiente scolastico flessibile e anti-autoritario, che in ogni sua parte fornisca strumenti di didattica e autodidattica, dispensando istruzioni, come un manuale. Attraverso elementi cardine della disciplina architettonica e compositiva l’architetto definisce il progetto scolastico e ne consolida la funzione formativa, basata sulla rievocazione di legami e dinamiche tipiche di una città. L’intento è delineare una nuova società, di cui il bambino imparerà a far parte grazie allo stimolo dell’ambiente scolastico e al ruolo educativo dell’architettura, svolto dalla distribuzione spaziale e dalle scelte tecnologiche e assicurato dalla presenza di numerose opere d’arte.

La scuola di Locarno, per la sperimentazione delle idee pedagogiche e sociali in uno spazio costruito, incarna un progetto all’avanguardia che anticipa un rinnovamento completo dell’istituzione scolastica ticinese e che funge da modello tipologico per altre realizzazioni nella regione.

Note

[1] Si pensi in particolare alla mostra zurighese dal titolo Das Kind und sein Schulhaus (1933) e al relativo manifesto dove architetti, pedagogisti e medici propongono una nuova visione di scuola, che si sarebbe dovuta realizzare tanto nei programmi quanto negli spazi.

[2] Questa visione deriva da un atteggiamento positivistico tipico dell’architettura moderna, del cosidetto Neues Bauens, per il quale la nuova architettura avrebbe avuto il potere di influenzare la vita delle persone e di istruirle, al fine di creare una nuova società. Si diffonde l’idea che la pedagogia di riforma possa trovare compimento effettivo solo all’interno di edifici moderni, determinando quindi una forte relazione tra riforme pedagogiche e ambiente costruito. A tal proposito si cita Wichert F. (1928) – “Die neue Baukunst als Erzieher”. Das neue Frankfurt: internationale Monatsschrift für die Probleme kultureller Neugestaltung, 2, 321-324. Reichlin (2008) traduce in italiano il paradigma di Wichert con l’espressione «architettura educatrice».

[3] Il legame tra riforma pedagogica e riforma sociale è espresso da Jean-Jacques Rousseau, che insieme a Johann Heinrich Pestalozzi e Stefano Franscini appartiene alla tradizione svizzera di pedagogisti alla quale in seguito si aggiungono personalità come Pierre Bovet, Eduard Claparède, Jean Piaget. Si veda il rimando continuo a Pestalozzi (Roth 1950) e la letteratura di riferimento pedagogico citata da Schnebli (2010).

[4] La scuola di Locarno fu inizialmente progettata come «ginnasio», ossia come scuola in preparazione al liceo per bambini dagli 11 ai 15 anni. Con la riforma della scuola media, avvenuta in Ticino nel 1974, la scuola di Locarno fu adibita a scuola media.

[5] Termine ripreso dall’articolo Fumagalli P. (2009) – “Un maestro costruttore. Dolf Schnebli 1928-2009”. Archi: rivista svizzera di architettura, ingegneria e urbanistica, 5/6, 60-61.

[6] Nel contesto del secondo dopoguerra il bambino non è posto al centro della riforma pedagogica in quanto individuo isolato, al quale garantire esclusivamente le migliori condizioni climatiche e ambientali per l’apprendimento, come era stato negli anni ’20 e ’30, ma è preso in considerazione come membro della collettività, come parte di un gruppo e fondamento della società futura (Becker 1961).

[7] «E se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa, e la casa a sua volta una piccola città, non si avrà torto sostenendo che le membra di una casa sono esse stesse piccole abitazioni […] Nella casa l’atrio, la sala e gli ambienti consimili devono essere fatti allo stesso modo che in una città il foro o i grandi viali» Alberti L.B. (1966) – De re aedificatoria. Il Polifilo, Milano (Zevi 2018).

[8] Questa considerazione è ad opera dell’autore, per ora non sono state individuate tracce scritte di influenze reciproche.

[9] Per consolidare il tema di Schule als offenes Haus si porta all’attenzione il contributo di Gustav Mugglin, sia sulle pagine di Werk, Bauen + Wohnen (1960), che nel fascicolo pubblicato dalla fondazione Pro Juventute (1960). In relazione al caso studio si cita l’articolo (1966) “Swiss High School. A Cluster of Huts”. Architectural Forum, (gennaio/febbraio), 86-91.

[10] L’efficace realizzazione del principio di “scuola come casa aperta” si nota in un altro progetto coevo del giovane architetto Schnebli, quello per il complesso scolastico di Wohlen. In questo caso la scuola è attraversata da un percorso pubblico e, diversamente che in Locarno, né reti, né muretti delimitano il sedime scolastico.

[11] Citazioni tratte da un’intervista a Schnebli, pubblicata da Guidicelli P., (1970) – “La scuola deve essere una comunità di lavoro e di ricerca”. Corriere del Ticino, 30.10.1970, 11.

[12] Maria Montessori scrive che il bambino apprende per propria attività, assorbendo la cultura dall’ambiente e non dal maestro. Inoltre per Montessori il bambino si costruisce da solo e l’adulto può solo diventare suo assistente in questo processo formativo (1970).

[13] Schnebli nel testo del concorso parla di «verschiedener räumlicher Stimmungen» ossia di stati d’animo differenti legati a spazi differenti. (1960) –“Kantonale Mittelschule in Locarno”. Schweizerische Bauzeitung, 78 (21), 246-247.

[14] Per il collegamento tra le due opere si consulti Di Nallo M. (2017) – “The Balance between Intimacy and Interchange. Swiss School Buildings in the 1960s”. In: Darian-Smith K., Wilis J. (a cura di) Designing Schools. Space, place and pedagogy. Routledge, New York, 101.

[15] Il dibattito sulla sintesi delle arti è trattato nel VI CIAM a Bridgewater (1947) e nel successivo a Bergamo (1949). Si vedano a tal proposito i rapporti scritti da Sigfried Giedion.

[16] Il rapporto tra teorie Pestalozziane, educazione artistica ed educazione attraverso l’arte è illustrato nella pubblicazione di Skladny (2009).

[17] Questo paesaggio, realizzato contemporaneamente alla scuola, è stato successivamente distrutto senza lasciarne tracce. Solo gli alberi si sono conservati.

[18] Tema citato dal collaboratore di lunga data di Schnebli, Ernst Engeler. Ringrazio la prof.ssa Roberta Grignolo per aver condiviso l’intervista da lei condotta con l’architetto Engeler.

[19] A tal proposito si consulti il manifesto scritto a più mani Das Kind und sein Schulhaus (1933).

[20] La scuola si fa carico di diverse funzioni che fino a poco tempo prima ricopre la famiglia. Con l’appellativo Schlüsselkinder si qualificano quei bambini i cui genitori lavorano a tempo pieno e vengono mandati a scuola con le chiavi appese al collo, in modo da poter tornare indipendentemente a casa dopo la scuola. Per questi bambini si cerca di pensare a occupazioni dopo-scuola (Gross 1962). La tematica è presentata anche nel saggio di Becker (1961).

[21] Per approfondimenti si consulti Gropius W. (1966) – TAC. The Architects Collaborative 1945-1965. Arthur Niggli Ltd., Teufen, 84-87.

[22] Grazie alla borsa di studio Wheelwright offerta da Harvard, nel 1956 Schnebli parte da Venezia in direzione Chandigarh con la propria auto. Le foto del viaggio sono raccolte nella pubblicazione ad opera di Schnebli (2009).

[23] A tal proposito si cita l’articolo (1966) “Swiss High School. A Cluster of Huts”. Architectural Forum (gennaio/febbraio), 86-91.

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