Il tempo della scuola. Il percorso lento di una nuova “Architettura Educatrice”

Claudia Tinazzi




È facile immaginare che nel 1947 quando Ernesto Nathan Rogers invocò con forza – dalle pagine della rivista Domus (Rogers 1947a) – la necessità di una “architettura educatrice” come “sintesi tra i principi più progrediti dell'educazione e un'architettura parimenti evoluta”(Rogers 1947b), fosse in realtà ben consapevole della possibilità e allo stesso tempo della necessità – attraverso un numero dedicato «a un argomento d'architettura generale fuori da quello specifico della casa» (Idem), ovvero la Scuola – di proporre un manifesto concreto, politico e sociale, per suggerire all’Italia della ricostruzione una delle prime priorità a cui guardare per la ripartenza del Paese.

Non a caso il suo breve ma determinato editoriale lascia spazio nelle pagine appena successive al contributo di un pedagogista, Ernesto Codignola, «un’illustre e combattivo educatore italiano» (Idem) che con altrettanta fermezza delinea in sequenza le ragioni di una evidente inefficacia dell’ordinamento scolastico italiano, le possibilità di una immediata rivoluzione interna e, infine, gli strumenti per una trasformazione della scuola tradizionale in «una piccola cellula sociale» (Codignola 1947).

Il tempo della scuola, il frangente cronologico che la vede protagonista in Italia con tutte le riflessioni e ipotesi che ne conseguono, attraversa quindi, in un certo senso, gran parte del Novecento tanto che spesso, se si provasse ad ingannare la critica contemporanea con la ri-proposizione di alcuni testi del secolo scorso – falsificandone la fonte temporale – si rischierebbe di attribuire con sfrontata sicurezza alla più profonda ricerca sull’adeguatezza degli spazi per l’apprendimento del nostro tempo, riflessioni di Arrigo Arrighetti (1956), di Ciro Cicconcelli (1952) o per l’appunto di E.N. Rogers (1947).

D’altro canto, la disciplina relativa ai problemi e ai temi dell’educazione riesce oggi solo faticosamente ad avere un nuovo pro-getto da rendere praticabile e quindi condiviso dalla disciplina architettonica, stenta nella contemporaneità a spingere in avanti – ridiscutendole – le grandi intuizioni di alcuni pedagogisti del secolo scorso, veri promotori di un’idea di scuola nuova; solidi pedagogisti italiani capaci di parlare, quasi senza accorgersene, agli architetti e all’architettura mondiale indirizzando le scelte di campo più profonde nell’immaginare nuovi spazi per la scuola di ogni ordine e grado. Maria Montessori, già all’inizio del secolo scorso riferendosi ai luoghi dell’apprendimento, scriveva: «L’educazione è un processo naturale effettuato dal bambino, e non è acquisita attraverso l’ascolto di parole, ma attraverso le esperienze del bambino nell’ambiente.» E ancora Loris Malaguzzi, in tempi più recenti sottolineava: «L’atelier (…) ha prodotto un’irruzione eversiva, una complicazione e una strumentazione in più, capaci di fornire ricchezze di possibilità combinatorie e creative tra i linguaggi e le intelligenze non verbali dei bambini»[1], fino a Mario Lodi, che alla metà degli anni Settanta scriveva della necessità di «realizzare una comunità in cui i bambini si sentano uguali, compagni, fratelli» (Lodi 1977).

Ambiente, atelier, comunità, segnano in architettura altrettante possibilità figurative, precorrono velocemente un’idea di scuola; spazi fisici o forme metaforiche che con forza centrifuga riescono, come spesso sono riusciti, a generare dall’interno, gli edifici scolastici nella loro migliore complessità.

Eppure, di fronte alla ricchezza del pensiero pedagogico che attraversa tutto il Novecento italiano, dobbiamo spostarci in Olanda per vedere nel concreto le prime scuole costruite come “edifici nuovi” secondo il metodo Montessori dall’architetto Hermann Hertzberger a partire dagli anni ‘60[2], così come è difficile rintracciare in Italia nel corso di tutta la seconda parte del secolo scorso, moderne architetture per la scuola dell’infanzia immaginate sull’esperienza del – Reggio Emilia Approach, nel riconoscimento americano dato a questa esperienza – progetto educativo che trova origine nella seconda metà dell’800 intensificandosi negli anni sessanta con il contributo fondamentale di Loris Malaguzzi grazie al quale si devono le prime scuole materne comunali capaci di fissare contenuti educativi e strutture organizzative innovativi.

Ma a ben guardare le sperimentazioni pedagogiche, nella stretta relazione con lo spazio dell’apprendimento, non sono del tutto mancate: esperienze vivaci ed eterogenee hanno cominciato – proprio dai caposaldi sopra citati – ad innervare il nostro paese da nord a sud aderendo ad una rivoluzione più intima, meno evidente, che sotto la spinta e la contingenza palese dell’abbondanza, per quanto inadeguata, di un ampio patrimonio di edilizia scolastica si è accontentata di una timida trasformazione interna, di cambiamenti di prospettive sostenuti più dagli strumenti dell’apprendere che dallo spazio fisico; sperimentazioni singole spesso guidate da grandi idealità approdate difficilmente al piano del confronto nazionale come reale possibilità di una riscrittura comune del sistema scolastico dal profilo ministeriale.

La difficile quanto desiderata relazione tra Architettura e Pedagogia, tra ambiente e pensiero educativo, non è dunque una questione nuova anche se, senza dubbio, gli ultimi vent’anni hanno ripreso con maggiore determinazione una questione per lungo tempo sopita al di sotto di un comodo capro espiatorio: una normativa invecchiata che dal 1975 blocca sulla carta qualsiasi spinta utopica.

È comunque una sorta di linea continua, o così ci piace immaginarla, quella che inanella tutte queste riflessioni, anche distanti nel tempo, attorno al tema dell’architettura scolastica; un percorso non sempre evidente che oggi scandisce il tempo della scuola attraverso numerosi concorsi di architettura sempre alla ricerca di procedure adeguate alle alte aspettative auspicate, con contributi critici offerti dalle riviste militanti impegnate a raccogliere progetti esemplari nel panorama mondiale o con accesi dibattiti all’interno di convegni disciplinari e interdisciplinari indirizzati spesso a una possibile traduzione di modelli stranieri – quello nordico tra tutti – come sintesi di una ricognizione contemporanea del tema; non da ultimo, l’architettura della scuola, è entrata prepotentemente negli ultimi anni anche come tipico esercizio didattico e di ricerca nelle aule di numerosi laboratori delle Scuole di Architettura italiane che si sono fatte carico di studiare e ri-immaginare l’identità di un tema che, all’inizio del Novecento, ha visto il nostro paese pioniere di una possibile interpretazione.

Quasi che l’oggi altro non fosse che uno dei punti notevoli di un lungo viaggio fatto di segmenti discontinui rivolti alla definizione di una più adeguata “architettura educatrice”, tornando alle parole di E.N. Rogers che così prosegue: «È fuori di dubbio che una pedagogia progressiva richiede un'architettura adeguata, cioè organismi funzionali, flessibili alle complesse esigenze d'un metodo educativo il quale non s'accontenta di considerare gli allievi come una massa indiscriminata, ma vuol favorire lo sviluppo d'ogni individuo.»

In questa lettura possibile – sicuramente tendenziosa – la contemporaneità non può quindi che essere letta nello stretto legame con il tempo che ha superato e i temi già affrontati, alla luce di un’ereditata difficoltà sincronica tra il lavoro di ricerca sul pensiero pedagogico, il progetto didattico e la rappresentazione architettonica e la consapevolezza del frequente attrito tra indirizzi politici e istanze sociali. Sembra ancora difficile, per chi scrive, poter tracciare con sicurezza il percorso certo verso il quale le ricerche in atto – in equilibrio o meglio in bilico tra architettura e pedagogia – stanno indirizzando i propri sforzi, forse meglio, ancora cautamente, provare a sottolineare una possibile geografia di buone azioni intese come dialoghi virtuosi tra pratiche pedagogiche, spazio e città. Ancora una volta non un unico indirizzo identitario, impossibile forse ai giorni nostri, ma singolarità solide e profonde che nel confronto tra di esse diano vita ad una prassi comune di intersezioni culturali e interdisciplinari.

Il “caso Alto Adige”, nell’orizzonte descritto, rappresenta da più di dieci anni[3] un unicum nel panorama italiano, il frutto di una riflessione locale nata in realtà a partire dagli anni Settanta o meglio ancora rappresenta un caso pilota favorito dallo Statuto speciale di una regione autonoma che la rende di fatto eccezionale; un modello a cui il nostro Paese guarda da tempo con ammirazione per il tentativo concreto di un ritrovato dialogo disciplinare e interdisciplinare rivolto al mondo dell’istruzione e alla formazione di identità personali – i bambini – all’interno di un’unica identità culturale collettiva. Una spinta concreta che ha favorito prima di tutto un impulso pedagogico positivo promosso dal dirigente scolastico di Monguelfo, Josef Watschinger, attraverso esplorazioni di nuove configurazioni spaziali corrispondenti a un’idea innovativa di “scuola laboratorio” o di “scuola attiva” in cui l’ambiente si caratterizzi come vero e proprio dispositivo pedagogico.

Nel paesaggio eterogeneo di questa ricerca altoatesina, sostenuta oggi con energia da Beate Weyland[4], architetti e pedagoghi assieme principalmente a dirigenti scolastici, amministratori e insegnanti, come spesso anche da genitori e dagli stessi bambini, hanno provato a lavorare fianco a fianco con una coraggiosa spinta verso la sperimentazione, con un consapevole grado di rischio e un indubbia possibilità di mezzi economici e legislativi, verificando di volta in volta indirizzi verosimili per la definizione di procedure virtuose e, come conseguenza, di spazi innovativi per l’apprendimento.

Un laboratorio che è un cantiere ancora in corso a cui si deve tra tutto il merito di aver ri-sottolineato – attraverso la trasformazione di scuole esistenti e la costruzione fisica di nuovi edifici – alcuni temi costanti divenuti imprescindibili nell’interpretazione contemporanea di questa tipologia architettonica; temi ormai consueti come il possibile ruolo urbano e collettivo dell’edificio-scuola, la necessaria flessibilità degli spazi interni per il superamento della più tradizionale aula didattica frontale, il rapporto attento con l’innovazione tecnologica o ancora l’aderenza responsabile tra un orientamento pedagogico e il concetto organizzativo dell’organismo scolastico. Temi e possibilità generali che nel tempo trascorso della ricerca hanno trovato in questo lembo di territorio di confine, tramite numerosi concorsi internazionali e altrettante veloci realizzazione, soluzioni specifiche in cui l’architettura è tornata protagonista della qualità dello spazio per la Scuola.

La rivoluzione altoatesina – non troppo lontana dal quell’idea di coincidenza tra programma didattico e organismo architettonico di Alberto Samonà per il concorso di una scuola dell’obbligo a Bologna del 1964 – forse sta proprio nella possibilità di anteporre la relazione tra “spazio e apprendimento” alla stesura più canonica di un concorso di architettura rivolto alla definizione di una scuola, tanto da costringere gli architetti a dar forma prima di tutto a piani didattici o momenti educativi, ai pensieri generali su una possibile idea formativa prima ancora che rispondere a dimensioni planivolumetriche o a esigenze normative. Un’idea di scuola allargata, spesso inevitabilmente, un’idea di comunità e quindi in un certo senso un’idea di città.

È infatti prima di tutto una riflessione sulla possibilità urbana e sull’idea di collettività che rende la scuola primaria di Firmian, progettata nel 2014 da Modus Architects, ponte tra scuola e città, tra luoghi culturali e quartiere, apripista di una serie di progetti di edifici scolastici “di paese” immaginati in questo territorio come perno attorno cui organizzare attività dedicate alla collettività superando la rigidità delle specifiche azioni strettamente educative.

A Firmian, dove la piazza del quartiere è intitolata a Maria Montessori, l’idea che determina il carattere del progetto è la misurata composizione di due corti che, nel loro accostamento contrapposto, definiscono una figura doppia, la prima rivolta e aperta alla città e ai cittadini nella giustapposizione di una biblioteca e una palestra, la seconda, più protetta, dedicata ai bambini e affacciata all’ambiente aperto naturale con spazi concatenati che intersecano luoghi più tradizionali con spazi esplorativi e laboratoriali, individuali o ancora informali. Un primo tentativo di riflessione pedagogica sullo spazio ma soprattutto sulla possibilità di mettere in discussione la completa chiusura dell’impianto scolastico alla vita collettiva della città che negli anni, precisandosi maggiormente, è diventata prassi tanto da generare altrettanti istituti innovativi da San Martino in Val Casies a Bressanone, da Bolzano a Vipiteno[5] nei quali le biblioteche comunali, le palestre, il teatro, i laboratori o gli ambienti per le associazioni hanno contaminato lo spazio tradizionale facendone un luogo aperto intrecciato alla vita dei cittadini

Nuove strutture di alta qualità architettonica così come trasformazioni e ampliamenti di precedenti istituti scolastici hanno riflettuto sullo spazio interno dell’apprendimento dimostrando, come nel caso del progetto di Walter Angonese per la Scuola di Egna[6], la possibilità di immaginare con poche semplici azioni – piccole aperture tra un’aula tradizionale e l’altra, un tetto abitato come luogo esperienziale o la giustapposizione di volumi serventi – rinnovate possibilità di applicazione di un aggiornato processo didattico.

Il tentativo diffuso di una concreta esportazione del “modello Alto Adige”, attraverso sopralluoghi e dialoghi diretti con i protagonisti di questo fenomeno, ha generato fino ad oggi un interessante processo di contagio metodologico – dal “Progetto Iscola” voluto dalla regione Sardegna, a “Torino fa scuola” nata dall’incontro tra la città sabauda con la Fondazione Agnelli e la Compagnia di San Paolo fino ai recenti concorsi promossi dal Comune di Milano – esperienze i cui esiti finali, a volte incerti, ci interrogano tuttavia sull’impossibilità forse di affidare solamente al processo concorsuale e alla formazione “su misura” del corpo insegnante lo sviluppo di trasformazione del nostro sistema scolastico per definire l’ambiente di apprendimento adeguato all’oggi e rivolto al futuro.

In parallelo a questa ormai consolidata esperienza che si apre sempre di più alla possibilità di definizione di una rete nazionale trainata da ambiti di ricerca accademici e dall’Istituto del Ministero INDIRE[7], la contemporaneità più prossima restituisce altri singoli paesaggi possibili che allineano esperienze puntuali, nate da situazioni specifiche, spesso fortemente caratterizzate dalla scommessa ottimista riferita ad un particolare accento pedagogico, come ad esempio la forte impronta internazionale o la centralità dell’innovazione tecnologica o, ancora, il modello di outdoor education.

Tra queste scelte radicali, l’Hcampus[8], il polo innovativo più grande d’Europa inaugurato nel settembre 2020 a Roncade non lontano da Treviso, rappresenta in questa direzione il più recente esempio italiano di Apple Distinguished School, un modello educativo integrato – fortemente internazionale e tecnologicamente avanzato – che accoglie in un unico campus, come in una piccola città di fondazione, scuole “di ogni ordine e grado” dalle primarie ai corsi di livello universitario, accompagnate da servizi collettivi e residenze speciali.

Un vero e proprio esperimento di scuola futuribile immersa nel paesaggio rurale della campagna veneta in cui architettura e obbiettivi formativi, ancora una volta “spazio e apprendimento” cercano un dialogo consapevole e una coincidenza di obbiettivi prestazionali descritti da luoghi capaci di evocare impianti tipologici consueti – misurate corti aperte, grandi recinti abitati, spazi unitari collettivi – raggiungendo un’elevata qualità architettonica spesso sottovalutata e trascurata nell’edilizia scolastica italiana del nostro passato anche prossimo. Un modello di città dell’educazione o meglio un prototipo ancora da verificare che non può non riportarci – nell’idealità delle scelte di indirizzi – alla rivoluzione portata da Jefferson nel 1817 con il progetto dell’Università della Virginia nel quale un’idea precisa di comunità e un modello possibile di Società, insieme all’architettura, hanno modificato per sempre la tipologia della formazione universitaria.

Un capitolo ancora differente di questa indagine necessariamente episodica è occupato dalle cosiddette “scuole di impresa” o più correttamente riconducibili oggi a specifiche fondazioni private che nella più generosa possibilità di risorse decidono di investire su cultura ed educazione e quindi sull’architettura per la scuola a fronte di un sempre più preciso profilo pedagogico capace di immaginare una futura comunità dirigenziale del domani.

Precursore di questo atteggiamento, tralasciando la più nota esperienza novecentesca riferita a questo tipo di sperimentazioni[9], l’asilo Benetton costruito nel 2007 a Ponzano Veneto dall’architetto spagnolo Alberto Campo Baeza, nella sua precisa geometria che protegge e racchiude l’animata vita dei bambini ha accolto, a partire dalla progettazione preliminare, la sfida di un “un corpo a corpo” con l’approccio pedagogico di Reggio Children disegnando misurati spazi di luce e ombra – “Una scatola rotonda aperta al cielo come un giardino segreto, che attira e tende l’aria al proprio interno” – come massima espressione di un servizio educativo che pone al centro la relazione, la ricerca, il benessere del bambino e della comunità in un percorso di esperienza.

Allo stesso modo la più recente Scuola primaria per l’azienda Danieli costruita vicino Udine su progetto dello studio Zito+MADE associati, risultato vincitore di un concorso ad inviti, ci racconta di un percorso onesto che indaga la possibilità di un modello educativo innovativo basato sul primato di un’ambiente immaginato nella relazione simbiotica tra interno ed esterno. Nelle sue forme una grande corte aperta circondata da ampi portici coperti, immersa in un pioppeto dove le differenti esperienze didattiche possono godere di luoghi intrecciati dove spazio e natura convivono nella ricercata qualità della vita del bambino.

Tante ricerche frammentate, a volte costruite a volte rimaste imprigionate nelle simulazioni proposte, soluzioni possibili, temi ancora aperti di un tempo forse lento ma necessario per ridare spazio e corpo alla scuola.

Note

[1] In particolare la Scuola Montessori di Delft costruita tra il 1960-1981; Hermann Hertzberger (1932) vive in Olanda ha dedicato il suo lavoro di architetto alla progettazione di edifici pubblici, con una particolare attenzione verso l’architettura scolastica; ha frequentato durante l’infanzia scuole Montessori;

[2] A partire dalla legge provinciale del 2009;

[3] Il suo lavoro è consultabile su https://pedarch.unibz.it;

[4] Per approfondire si rimanda alla rivista Turis Babel e in particolare ai numeri 83- 97 -119;

[5] Ampliamento Scuola Elementare Kaiser Franz Joseph I, (progetto: 2009 – 2010 realizzazione: 2010 – 2012);

[6] per un approfondimento si rimanda alla pubblicazione Dall’aula all’ambiente di apprendimento (a cura di Giovanni Biondi, Samuele Borri, Leonardo Tosi) Altralinea Edizioni, 2017;

[7] progetto di Zanon associati in collaborazione con RSHP Rogers Stirk Harbour + Partners (progetto del 2016 in fase di completamento

[8] In particolare, ci si riferisce all’esperienza di Olivetti ad Ivrea

Bibliografia
AA. VV. (1960) – Casabella-Continuità - Rivista Internazionale di Architettura e di Urbanistica - n. 245. numero speciale dedicato alla scuola, 1960.
CICCONCELLI C. (1952), Lo spazio della scuola, in: Rassegna Critica di Architettura, n. 25, Rome
CODIGNOLA E. (1947) – "Scuola. Palestra di vita". Domus, 220 (giugno).
FERRARI M. (2015) – Di ogni ordine e grado. L’Architettura della Scuola, Rubettino Editore, Catanzaro
LODI M. (1977) – "Scuola come liberazione". In: Cominciare dal bambino, Einaudi.
MALAGUZZI L. (1971) – Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia - Atti del seminario di studio tenuto a Reggio Emilia il 18-19-20 marzo, 1971. Editori riuniti.
MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1953). Scuole minime. Studi schemi progetti, a cura del Centro studi del servizio centrale per l’edilizia scolastica, Firenze.
MONTESSORI M. (1991) – Educazione per un mondo nuovo. Garzanti, Milano.
READ H. (1954) – Educating with art, Edizioni di Comunità, Milano
ROGERS E. N. (1947a) – "La Casa dell’uomo". Domus, 220 (giugno).
ROGERS E. N. (1947b) – "Architettura educatrice". Domus, 220 (giugno).