Alison e Peter Smithson per l’estensione dell’Università di Sheffield. Un linguaggio dell'architettura in between, tra disegni e parole

Andrea Ronzino




Introduzione

Al termine del secondo conflitto mondiale la Gran Bretagna registrava ‑ per più del 20% ‑ ­­ingenti danneggiamenti degli edifici scolastici esistenti (di ogni ordine e grado) dovuti perlopiù ai bombardamenti aerei tedeschi (1940-’43), facendo diventare l’edilizia scolastica un capitolo prioritario per le successive politiche e operazioni di ricostruzione nazionale (Harwood 2010, pp. 63-73).

Nello specifico la spesa pubblica e gli interventi promossi dallo Stato centrale per il risanamento e la nuova costruzione di università, che cominciarono dagli anni ’40 per protrarsi sino ai tardi ‘70, contribuì ad alimentare una stagione di produzione architettonica notevole e di particolare rilevanza per la disciplina. Come ricorda Nicholas Bullock, lo storico dell’architettura John Summerson riconoscerà a tale stagione uno straordinario spirito di fermento, capace di identificare «una tendenza in cerca di [nuovi] principi», principi che in qualche misura potevano essere «proclamati come [in quanto] edifici» che James M. Richards definirà poi, tra le pagine di Architectural Review, come la faccia di una architettura nuova, tutta inglese (Bullock 2003, p. 48).[1]

Studiati, categorizzati e in parte storicizzati (- 1963; Webb 1969 pp. 7-63; Brawne 1970; Muthesius 2000, pp. 59-186), i molti esempi che costituiscono l’ampia tassonomia degli edifici universitari inglesi postbellici vanno osservati in filigrana ad un profondo cambiamento, tanto programmatico ‑ interno alle stesse università ‑ quanto sociale (Historic England 2017, pp. 6-15). Da una parte le istituzioni universitarie cominciano a sentire l’esigenza di un ripensamento delle proprie strutture tradizionali, coinvolgendo soprattutto il programma funzionale conseguentemente la nascita di nuovi settori di specializzazione interni alle facoltà che le costituiscono, d’altro canto un aumento consistente degli iscritti alla formazione di terzo livello ‑ che aumentano più del doppio tra il 1961 e il ’77, grazie soprattutto ai nuovi strumenti di assistenza economica pubblica (agli inizi dei ’40 vengono infatti istituiti i primi University Grants Committee così come i Maintenance Grants) ‑ impone nuove soluzioni spaziali da offrire alle più ampie comunità universitarie (Id.).

Un anno prima di completare il cantiere della Hunstanton Secondary School (1949-’54) ‑ che ne conclamerà poi la fama internazionale ‑ e mentre stanno elaborando il progetto per la Golden Lane Competition (1952-’53) e gli allestimenti per la Parallel of Life and Art Exhibition (1953), Alison e Peter Smithson formuleranno il primo di una serie di lavori attorno al tema dell’architettura universitaria: il progetto per l’estensione dell’Università di Sheffield.[2]

Il concorso e il progetto di Alison e Peter Smithson per Sheffield

La ‘red brick’ University della città di Sheffield ‑ a sud della regione dello Yorkshire ‑ viene formalmente costituita nel maggio del 1905 quando, per concessione del decreto reale (Royal Charter), vennero accorpate le tre preesistenti istituzioni locali. La più antica, la School of Medicine fondata nel 1828 che verrà inglobata, alla fine dell’800, nel Firth College, aperto su iniziativa del produttore di acciaio Mark Firth, e la Sheffield Technical School, fondata originariamente nel 1884. Mentre le prime due, ospitate nel complesso del Firth Court, nell’area di Western Bank della città, raggruppavano le discipline artistiche e medico-scientifiche, la terza ‑ che occupava la vecchia scuola di grammatica in St. George Square a un chilometro più ad est ‑ venne eletta come centro dell’insegnamento delle scienze tecniche applicate. La caratteristica di nascere dalla fusione di tre Colleges indipendenti e preesistenti ha inciso, sin dalla propria prima istituzione, sullo sviluppo fisico dell’università in distinti centri di insegnamento sul territorio, individuando nel tempo due poli accademici principali. Durante il secondo conflitto bellico molti dei locali disponibili della scuola vennero convertiti a laboratori di ricerca per lo sviluppo di nuove tecniche di indagine cartografica, nuove tecnologie come il Radar e innovativi prodotti chimici, esigendo così primi adattamenti ed espansioni, senza però un riconoscibile e coerente progetto di insieme. A guerra conclusa, l’incremento del numero di studenti iscritti ai corsi ‑ quanto quello previsto per gli anni a venire ‑ impose all’istituzione di ripensare organicamente tanto il proprio sistema amministrativo quanto la propria organizzazione disseminata sul territorio cittadino. Un comitato specialistico, dal 1947, venne formato con l’obiettivo di dare un indirizzo a tale ripensamento e individuare le possibili aree da acquisire per le future trasformazioni. Le principali necessità spaziali e funzionali vennero quindi delineate dallo stesso comitato agli inizi degli anni ’50: vennero riconosciuti necessari nuovi dipartimenti di chimica e fisica; il completamento del centro artistico del Western Bank; una nuova School of Medicine; una biblioteca; un centro pubblico dedicato alla Student Union; una nuova Great Hall e un edificio amministrativo, conducendo così l’università a indire un concorso pubblico per raccogliere le idee e realizzare il miglior progetto selezionato.[3]

«Le più antiche università sono esempi da manuale per mostrare come una organizzazione umana possa manifestarsi in forma costruita quale ‘oggetto’ [in sé]. Ossia esse [le università] sono maggiormente comprensibili quali tutto unitario più che come somma delle loro parti, costruite attraverso un linguaggio chiaro di forme e potenzialmente in grado di infinito rinnovamento. (...) Ma in questo secolo hanno mancato fisicamente di rinnovarsi. (...) I nuovi edifici dovrebbero mostrare attraverso la loro ‘scala in mutazione’ la ‘dimensione in fieri’ dell’intero complesso; fissandone allo stesso tempo i limiti. La loro estetica dovrebbe essere una ‘estetica del cambiamento’ (...). Il progetto cui abbiamo lavorato nel 1953 per l’Università di Sheffield mostra tale nuova tecnica estetica in azione.» (Smithson 1957, p. 17; testo riedito in Smithson 1970, Aesthetic of Change, pp. 154-157, p. 157)[4]

Così gli Smithson presentano, in un articolo pubblicato a quattro anni di distanza dalla consegna del concorso, gli obiettivi generali che stanno alla base della loro proposta.[5]

L’area complessiva messa a disposizione e descritta dal brief era composta dal terreno disponibile ad est dell’edificio del Firth Court (tra le attuali Brook Hill/A57 e Bolsover St. più a nord) e un ulteriore lotto più piccolo dall’altra parte dell’arteria (la stessa Brook Hill) più a sud.

L’impianto generale degli Smithson prevedeva una manica, articolata in tre parti lungo il profilo dell’area disponibile, che terminava con un edificio a pianta quadrata all’estremo nord. Quest’ultimo, posizionato posteriormente alla manica esistente (l’estensione più recente della stessa università), veniva collegato ‑ attraverso un ponte sospeso e rettilineo in direzione meridionale ‑ al blocco previsto oltre la strada. Tutte le funzioni e le attività indicate nel piano di sviluppo redatto dall’università, trovano una specifica collocazione nel progetto. Quelle contraddistinte da funzioni altamente specializzate, come il teatro, la biblioteca, le aule di arte, gli spazi comuni per gli studenti e la hall di ingresso, vengono formalmente distinte e caratterizzate. Gli spazi più convenzionali, quali gli uffici per l’amministrazione, i dipartimenti, i laboratori e le sale studio trovano invece posto lungo lo sviluppo articolato della lunga manica a C che chiude il lotto verso est.

Il progetto prevede di mantenere la posizione dell’ingresso principale in corrispondenza dell’antica entrata ‑ ora mediante una grande scalinata ‑ che risolve la differenza di altezza registrata tra il piano stradale, quello più interno dello spazio aperto, e la quota del camminamento pubblico sospeso ‑ il deck ‑ più in alto.

La distribuzione lungo l’intero complesso viene organizzata e garantita attraverso lo sviluppo orizzontale di un percorso continuo e aperto ‑ il deck appunto ‑ che orizzontalmente connette e collega fisicamente tutte le parti previste nello schema generale: dopo l’ingresso, gli uffici di amministrazione quindi, passando lungo i dipartimenti di chimica e medicina (nell’angolo orientale), si giunge nella zona più a nord delle aree dedicate alla scuola di architettura per concludere con l’edificio della biblioteca, dove il ponte sospeso viene intercettato chiudendo il percorso con il blocco della Student Union oltre la strada a sud.

«Questa idea guarda avanti, all’inevitabile ‘crescita e cambiamento’ di un’università in espansione. L’anello di circolazione e servizio sopraelevato, in un complesso di edifici continuo, rende possibile soddisfare il desiderio dell’università di ampliarsi orizzontalmente piuttosto che verticalmente, nonostante l’enorme volume dell’edificio.» (Smithson 2001, p. 108)[6]

Il camminamento pedonale del deck, aperto sui due fronti di sviluppo longitudinale distribuisce, tanto superiormente quanto inferiormente, a tutte le funzioni previste dal progetto rappresentando una fascia permeabile, continua e comune a circa metà altezza rispetto tutti gli alzati degli edifici che compongono lo schema. Inoltre, occupando (e svuotando) un intero orizzontamento, attraverso il deck è possibile leggere la maglia portante principale che caratterizza univocamente tutti gli edifici previsti, che ulteriormente si rende visibile per mezzo dei camini e delle torri distributive che spingono oltre il filo delle coperture piane, e scandiscono dichiarando in ripetizione i punti di accesso possibili.

La struttura in calcestruzzo armato composta da pilastri ‑ 40 x 75 cm ‑ disposti ogni 5,5 m e solette (ogni 6 m d’altezza) realizzate mediante travi trasversali ‑ lunghe 11 m ‑ che sbalzano per 1,8 m rispetto il filo delle colonne, rappresenta l’ossatura principale non modificabile, chiamata ad ospitare ai vari livelli un sistema secondario ‑ leggero e d’acciaio lungo il filo dello sbalzo ‑ che per ogni piano individuato dalle solette in calcestruzzo organizza a sua volta due livelli. I pannelli di tamponamento della facciata, che rendono chiaramente leggibile il doppio sistema, possono essere trasparenti ‑ individuando le finestre e le bucature ‑ oppure opachi ‑ in legno o metallo ‑ a seconda delle esigenze funzionali degli spazi interni che dovranno chiudere o schermare.

Come gli stessi architetti specificheranno nella relazione di progetto:

«Il sistema di pannelli esterni e interni si armonizza completamente con l’organizzazione interna dell’edificio: quando tale ordinamento si modifica, [anche] il sistema dei pannelli di facciata cambia, continuando così a conferire completa identità alla disposizione interna [degli spazi].» (Smithson 1979, p. 9)[7]

Risonanza tra disegni e parole: l’Architettura come un linguaggio ‘in between’

La forma spezzata a ferro di cavallo del progetto per l’università rappresenta una soluzione nuova e innovativa per gli Smithson: «Sheffield è il primo degli edifici ‘avvolgenti’ le cui forme leggermente inclinate all’epoca sembravano ‑ e sembrano ancora ‑ un’invenzione (…) valida» (Smithson 2001, p. 108).[8] La forma a C, mutuando l’organizzazione introversa e tradizionale della corte universitaria, la rinnova istituendo un dialogo ritenuto necessario con le preesistenze limitrofe.

Pur limitando e definendo lo spazio disponibile, il complesso sceglie di non concludersi su se stesso ma cerca, attraverso la permeabilità del deck aperto, una relazione tanto con lo storico Firth Court ad ovest quanto con la città che lo circonda sul fronte est, in una conformazione ‘avvolta’, ma aperta.[9] Rivolgendo lo sguardo ed esprimendo una sensibilità che potremmo definire topografica, la manica si spezza conformandosi all’andamento dettato dalle due strade che circondano l’area e che convergono nella University Square ‑ in corrispondenza della quale l’edificio si piega a formare un angolo ‑ proponendosi allo stesso tempo come limite fisico del progetto e barriera a protezione del fluire, calmo e libero, non solo degli studenti ma di tutti coloro che dal Weston Park ad ovest ‑ passando sotto il ponte aereo ‑ decidano di percorrere e attraversare il campo verde addentrandosi nelle corti aperte dell’università.

Il gesto fisico che dimostra assieme un’intenzione di protezione (dal traffico circostante) e apertura (per il nuovo sistema universitario), viene ulteriormente elaborato includendo nel progetto, mediante uno studio questa volta orografico, una relazione di dipendenza con le curve degradanti del terreno dalle quali partire. La naturale diminuzione di quota da ovest a est, viene enfatizzata dal contrasto con il piano del deck, tenuto a quota costante, mentre lo spazio lasciato libero dal terreno viene occupato riempiendo i moduli della struttura portante principale. Un andamento in pendenza che, in collaborazione essenziale con il costruito e gli spazi da esso lasciati liberi, in qualche misura suggerisce e ordina il movimento, da fuori a dentro, e viceversa.

«Questo gesto rende chiaro quanto lo spazio centrale non sia più il quadrangolo tradizionale delle università inglesi. [Il progetto per] Sheffield è una porzione di città a sé stante: autoprotettivo, energizzante, in grado di offrire connessioni, e così via» (Smithson 2005, p. 175).[10]

Parallelamente e in soluzione sostanziale, il dispositivo distributivo del deck viene immaginato come un sistema continuo con l’intento di connettere i diversi edifici garantendo una circolazione ininterrotta attraverso tutto l’impianto. Come anticipato, risulta fondamentale per gli architetti che la strada pedonale sopraelevata si apra su entrambi i lati, consentendo la massima permeabilità tanto sulla città quanto sull’area verde centrale, articolandosi ulteriormente con il ponte sospeso di congiunzione tra la Biblioteca e l’edificio per gli studenti collocato lungo la sponda opposta della strada.

«Per mantenere sempre occupato il percorso connettivo del deck pedonale» ‑ quanto quello del parco che gli fa da contrappunto ‑ Alison e Peter individuano e immaginano quattro poli ‑ tra loro distanti e distinti ‑ nei quali dislocare le attività principali di maggiore specializzazione, affidando ad essi lo specifico obiettivo di innescare, attivare e riattivare nel tempo ‑ come fossero punti magnetici ‑ il movimento caotico e randomico di studenti, ricercatori e professori che li avrebbero occupati e vissuti». (Smithson 2001, p. 108)[11]

In particolare, lungo l’asse ovest-est, il punto di ingresso sormontato dall’Arts Theatre fa da contraltare ai più frequentati dipartimenti di chimica e medicina dislocati in corrispondenza dell’angolo orientale, mentre agli estremi nord e sud, la grande Biblioteca ‑ sormontata dalla scuola di Architettura ‑ viene controbilanciata dall’edificio della Student Union. La conformazione a croce dei quattro poli, come spiegano gli stessi architetti, avrebbe dovuto mettere in moto il movimento ‑ continuo, differenziato e circolare ‑ che avrebbe avuto come strumento privilegiato di percorrenza la continuità stessa del deck aereo.

«La crescita e il cambiamento di Sheffield possono essere intesi -a posteriori- come stratificazione di forze; di permanenza e transitorietà. I primi studi di Le Corbusier erano composti dal più semplice e regolare telaio in cemento con murature a forma libera (...) [Da qui] la necessità di un altro tipo di linguaggio che indichi possibilità di accrescimento o adattabilità.» (Smithson 2001, p. 110)[12]

Per il progetto di estensione dell’università di Sheffield, guardando (ma sviluppando) all’immagine del rack di Le Corbusier, l’obiettivo degli Smithson è rappresentato dal perseguimento ‑ e costruzione materiale ‑ di un edificio in grado di trasmettere, pur grazie alla propria presenza fisica, il senso effimero di una identità mutevole come quella di un’università in continua modificazione, evoluzione e cambiamento.
Quindi l’uso, e le variazioni che esso inevitabilmente registrerà nel tempo, rappresentano l’occasione progettuale che per gli Smithson deve divenire centrale e chiaramente leggibile per mezzo dei cambiamenti che potranno essere operati da e sugli edifici. Trasformando e riconvertendo in futuro porzioni dei nuovi blocchi, e modificando di conseguenza i moduli liberi della facciata inclusi nella struttura fissa in calcestruzzo, le variazioni saranno il segno fisico ‑ capace di andare oltre il progetto in sé ‑ con il quale la struttura e le facciate dell’università rivolte alla città saranno in grado di comunicare il loro carattere transitorio e modificabile. Per Alison e Peter è quindi «chiaro che l’identità dell’edificio [per Sheffield] sia data dagli schemi di utilizzo e non [solo] dal ‘disegno’ [in sé]» (Id.).[13]

Come visto, per comprendere ‑ e penetrare ‑ i significati e le intenzioni che il progetto per Sheffield incorpora e intende rappresentare, risulta necessario muoversi ‑ in un continuo confronto di riferimenti, espliciti ed impliciti ‑ tra i disegni che gli Smithson compilano per il concorso e gli scritti che gli architetti accompagnano al progetto. Un ‘movimento’ circolare e biunivoco ‑ necessario ‑ tra disegni e parole.

Il nuovo impianto per l’Università ‑ la struttura a C in particolare ‑ rappresenta chiaramente l’espressione di un gesto di rinnovamento nel campo di un linguaggio formale dato, stabilito e sedimentato: la corte chiusa dei Colleges inglesi. Ma non è solo questo. «La loro forma non deve solo essere in grado di ‘cogliere’ il cambiamento, ma dovrebbe implicarlo» rappresentando, per Alison e Peter, una transizione, un più generale mutamento che l’istituzione è chiamata a quel tempo ad affrontare, con cui deve obbligatoriamente misurarsi e che quindi deve ‑ non solo astrattamente ‑ favorire e guidare (Smithson 1957, p. 15; Smithson 1970, p. 157).[14]

La forma unitaria e conclusa dei vecchi impianti viene ora concepita come la collaborazione di più parti, tra loro distinte. Un unico edificio ‑ i vecchi Colleges ‑ deve ora confrontarsi sì con una struttura policentrica, ma in un sistema coordinato e in qualche misura gerarchizzato di flussi. Come sottolinea Mark Crinson, il progetto per Sheffield degli Smithson si fondava sull’idea che spazio e forma costruita «[restituissero] relazioni inaspettate quando generate dai flussi di persone piuttosto che [innescate dai] soli contenitori di funzioni», in un nuovo ‘sistema di relazioni e forze’ attivate dai fruitori e dal loro movimento (2018, p. 18).[15]

Nuovamente la scelta formale viene contrappuntata da significati che attengono il campo teorico delle intenzioni. La questione questa volta implica i concetti di scala e di città. Per gli Smithson «nella teoria estetica classica la parte e il tutto si costituivano in un rapporto finito, e l’estetica dell’una e dell’altro risultavano [tra loro] ‘chiuse’» (Smithson 1957, p. 17; Smithson 1970, p. 157).[16] Infatti: «i colleges originali rappresentavano comunità chiuse di ambienti individuali con una sala comune e una cappella» dove il rapporto tra individuale e collettivo si riduceva ad «un complesso di corti introverse con un [solo] punto di contatto tra il resto del mondo e il college» (Ibid., p. 16; Ibid., p. 155).[17]

In Sheffield l’intenzione è invece di aprire ed espandere tale relazione, perché «ai giorni nostri sempre più insegnamenti vengono impartiti dalle ‘Università’ e dalle varie ‘facoltà’, e la relazione con la città è divenuta più aperta» (Id.).[18] Una struttura policentrica quindi ‑ come policentrica è la città ‑ che renda il complesso rivolto al mondo, tanto fisicamente quanto concettualmente, verso la città e al contempo al dialogo e al confronto interno, in un mutuo e virtuoso scambio.

Come osservato per l’impianto generale, anche il sistema dei flussi immaginati per il progetto e le soluzioni strutturali individuate possono essere letti secondo una duplice chiave interpretativa, tra risultati formali ‑ forniti dai disegni ‑ e intenzioni concettuali e teoriche ‑ espresse dalle parole ‑.

Lo schema distributivo convenzionale di corridoi e passaggi interni agli edifici viene completamente ribaltato, questa volta con una forma chiara e sempre riconoscibile. Un continuo camminamento ‑ il deck ‑ che svolgendosi tanto internamente quanto esternamente individua un percorso ininterrotto tra le parti che costituiscono la nuova Università. Per gli architetti il complesso degli edifici che caratterizza la proposta infatti «deve stabilire una relazione di ‘flusso’ con l’intero modello di movimento dell’università e della città», che come un «‘acquedotto di persone’ conduca allo stesso tempo studenti e servizi in corrispondenza dei ‘punti di drenaggio’» rappresentati dai poli formalmente caratterizzati (Ibid., p. 157; anche in Smithson 2001, p. 108).[19] Un movimento messo in mostra, esposto, a dichiarare il fermento e l’azione che deve rappresentare un’istituzione mai ferma e in continua ricerca. Un movimento che, in continua interdipendenza, coinvolge tanto l’università quanto la città in cui essa si inserisce.

Il deck, oltre a rinnovare un dispositivo distributivo, viene elaborato come strumento privilegiato di connessione delle parti ‑ i poli ‑ che rappresentano il nuovo sistema offerto dal progetto. Un’università in espansione come in espansione è la città di Sheffield, e le «parti ‘separate’ del complesso implicano il loro definitivo [sofisticato] collegamento, e la loro complessa estetica è quella del cambiamento» (Ibid., p. 157).[20] Una connessione raffinata che richiama allo spirito collaborativo che deve saper dimostrare un luogo in cui si genera sapere e cultura, una connessione espressa anche dalle parti diverse della città che devono essere in grado di collaborare e coesistere in un sistema armonico e circolare.

Il linguaggio costruito, solido e duraturo, della vecchia red brick university di Sheffield viene rinnovato mediante l’introduzione di un doppio sistema costruttivo, come visto in precedenza, uno in calcestruzzo, non modificabile, che costituisce l’ossatura dell’intervento, e uno di ordine minore più leggero, formato da pannellature (in metallo, legno o vetro) che chiudono ‑ o aprono ‑ i corpi di fabbrica secondo esigenza. Per la coppia di architetti «il sistema esterno e interno di pannelli può integrarsi completamente con l’organizzazione interna dell’edificio», anzi ci si aspetta lo faccia, così che lo spazio interno e le proprie variabilità possa concorrere alla definizione di identità dell’intero edificio. Una identità dell’università riconosciuta come in continuo mutamento, secondo le evoluzioni e le necessità dettate dal tempo contingente. Un’identità che deve offrirsi ‘trasparente’, dichiararsi in forma esplicita e chiara, come chiara e limpida deve essere l’istituzione che rappresenta. Un doppio sistema che pur fondandosi su una struttura solida ‑ red brick university ‑ sappia veicolare al contempo un messaggio di flessibilità e transitorietà ormai ineludibile.

Quello di Alison e Peter Smithson ‑ come è stato possibile osservare per il progetto di concorso di Sheffield ‑ è un linguaggio dell’architettura che non può essere pienamente decodificato se non nel dualismo vorticoso e di mutua interdipendenza che il linguaggio formale espresso dai disegni istituisce con il linguaggio intenzionale dichiarato espressamente dalle parole scritte. L’attività di disegnare e scrivere dell’architettura che gli Smithson immaginano, però, è da considerarsi tanto uno strumento di comunicazione rivolto al mondo ‑ e alle possibili letture derivanti ‑, quanto uno strumento intimo indispensabile agli architetti, attività che hanno cercato ossessivamente di fondere assieme lungo tutta la loro carriera, dopotutto, come sottolinea David Dunster, gli Smithson «sono stati sempre in laboratorio» (Smithson/Dunster 1982, Foreword, p. 7).[21] I disegni di Alison e Peter possono esistere senza le loro parole, certamente, ma solo parzialmente, in significati altrimenti impoveriti e ridotti: è l’interferenza e la reciproca risonanza che i due registri comunicativi sono capaci di offrire ‑ quindi solo se considerati al contempo ‑ a consegnare gli strumenti utili per una lettura di un linguaggio complesso, quello architettonico, la cui comprensione è data all’interpretazione del lettore.[22] Una ‘relatività linguistica’ che forse è utile ‑ seppur semplicistico ‑ ricondurre alla teoria di Humboldt secondo la quale «il linguaggio, inteso nella sua vera essenza non è un’opera (érgon), ma un’attività (enérgheia)» richiamando così suggestivamente al concetto incontrato di ‘estetica in azione’ cui gli Smithson fanno riferimento nel descrivere il loro progetto per l’università di Sheffield (1974, p. 408). Un processo attivo quindi, un linguaggio che gli stessi Smithson riconoscono avere il potere di «impostare un dialogo tra l’oggetto e [i suoi] fruitori», ossia uno scambio che non può risolversi e concludersi nel tempo, ma sempre rinnovarsi, cambiare, perché per Alison e Peter «esiste una vita [essenza] segreta e permanente nelle cose, solidamente e intensamente stabilita, che prende vita attraverso altri usi [rispetto quelli immaginati], per altre generazioni» in un processo di inarrestabile cambiamento che non può che essere assecondato (Smithson 1973, p. 77).[23]

L’interpretazione e il tentativo di decodifica affidata a chi intenda cogliere l’opera degli Smithson ‑ come illustra Christine Boyer ‑ deve partire dalla consapevolezza che gli scritti di Alison e Peter «parlano nel vuoto, nel pieno riconoscimento dell’indeterminatezza delle parole liberate nell’aria» e che al medesimo tempo, «esiste qualcosa nell’architettura che non si può dire, che non può essere trasmutato in parola stampata, in una fotografia [ben] a fuoco, nella forma costruita». Una interpretazione che «richiede una forma di lettura [che sia] flessibile, associativa e su più livelli», perché tutte le loro opere «erano in essenza architettoniche e l’architettura, a propria volta, non riguardava mai solo gli edifici», opere in grado di parlare un linguaggio non detto, qualcosa che è not quite architecture (2017, pp. xiv, xii, 389).[24]

Una non-solo-architettura che sinteticamente Max Risselada tratteggia ‑ mutuando le parole degli stessi Smithson ‑ capace di individuare e rappresentare:

«Uno ‘spazio di mezzo’ (…) presente in senso più fantasioso come uno ‘spazio lasciato aperto per l’interpretazione’. Tale spazio è spesso il risultato del confronto di tipi di idee e concetti apparentemente diversi, messi gli uni in relazione agli altri praticamente senza mediazioni, perciò capaci di suscitare curiosità. (…) Esiste sempre una ‘distanza’ tra testo e progetto [disegno] ‑ uno spazio aperto all’interpretazione di ognuno di noi.» (Smithson/Risselada 2017, pp. 260-261)[25]

Lo spazio tra, aperto e fluido che ‑ personalmente ‑ può essere riconosciuto nella virtuosa tensione tra disegno e parola sembra rappresentare un ‘campo d’azione’ entro cui si è chiamati a muoversi, per decodificare e interpretare il linguaggio dell’architettura di Alison e Peter Smithson. Uno ‘spazio’ sospeso ‑ ma sempre e per sempre disponibile ‑ in between.

Note

[1] «a tendency to go in search of principles»; «announced as buildings», traduzione dell’autore (Bullock 2003, p. 48).

[2] La giovane coppia di architetti inglesi lavorerà attivamente, e lungamente, attorno al tema dell’architettura universitaria ‑ per definirne così un personale ripensamento ‑ elaborando numerosi progetti in poco meno di quarant’anni: dal concorso per il Langside College di Glasgow (Novembre-Dicembre 1958) e il Churchill College di Cambridge (1959) al progetto ‑ realizzato ‑ del Garden Building per il St. Hildas College di Oxford (1967-’70), dallo schema generale per il Queen’s College (Ottobre-Novembre 1971) alla struttura reticolare dell’estensione del Magdalen College (Giugno-Ottobre 1974) entrambe per l’Università di Oxford, per lavorare e realizzare ‑ lungo più di dodici anni ‑ sette distinti progetti per l’Università di Bath (1978-’90).

[3] Gli Smithson non vinceranno il concorso, venendo invece individuato il progetto dello studio GMW & Partners (Frank Gollins, James Melvin, Edmund Ward) fondato nel 1947 a vincere il primo premio realizzando il progetto di estensione dell’università completato alla fine degli anni ’50 (la biblioteca, oggi sottoposta al Grado II* di protezione, venne inaugurata nel 1959).

[4] «The older universities are textbook examples to show that human organisation can realise itself in built-form as a ‘thing’. That is, they are comprehensible as a whole, more than the sum of their parts built up through a clear language of form, and potentially capable of endless renewal (...). But in this century they have failed to renew themselves physically. (...) New buildings should show by their ‘scale in change’ the ‘size in change’ of the whole complex; yet still indicate limits. And their aesthetic should be an ‘aesthetic of change’ (...). e project we made in 1953 for the University of Sheffield show the new aesthetic technique in action», t.d.a. (Smithson 1957, p. 17; riedito in Smithson 1970, Aesthetic of Change, pp. 154-157, p. 157).

[5] L’articolo, pubblicato tra le pagine del periodico ArchitectsYear Book nel ’57, verrà poi ripubblicato nella seconda parte del celebre testo Ordinariness and Light del 1970. A più di vent’anni dal concorso Alison e Peter riprenderanno in mano i disegni per Sheffield e ‑ assieme al progetto successivo per il Churchill College (1959) ‑ lo pubblicheranno nuovamente nel libro Due Progetti, edito a Roma da Clear nel 1979.

[6] «This idea looks forward to the inevitable ‘growth and change’ of an expanding university: the ring of high level circulation and service in a continuous building complex makes it possible to satisfy the university’s desire to extend horizontally rather than vertically, in spite of the huge volume of building», t.d.a. (Smithson 2001, p. 108).

[7] «The external and internal panel system can mesh in completely with the internal organisation of the building: when this organisation alters, the facade panel system is altered, thus continuing to give complete identity to the internal disposition», t.d.a. (Smithson 1979, p. 9).

[8] «Sheffield is the first of the ‘encompassing’ buildings whose slightly angled forms seemed at the time ‑ and still seem ‑ so much another invention from the twigs of Golden Lane», t.d.a. (Smithson 2001, p. 108).

[9] Come gli stessi Smithson avranno modo di chiarire in occasione delle lezioni tenute in Italia dal 1977 presso l’ILAUD dell’amico Giancarlo De Carlo ‑ nel descrivere il progetto di poco successivo della Wokingham Infants School (1958) ‑ la scelta attenta di prediligere una conformazione ‘aperta’ nel progetto di architettura può essere la soluzione vincente se l’intenzione risulta essere quella di voler «creare dei luoghi» e non limitarsi invece alla sola edificazione di spazi chiusi e senza carattere (Smithson 1993, p. 43).

[10] « This gesture makes clear that the central space is no longer a traditional quadrangle of an English university. Sheffield is a piece of city unto itself: self-protective, energising, offering connection, and so on», t.d.a. (Smithson 2005, p. 175).

[11] «to keep the connective route of the pedestrian deck always busy», t.d.a. (Smithson 2001, p.108).

[12] « The growth and change of Sheffield can be seen - in retrospect - as layers of strengths; of permanence and transience. Le Corbusier’s earliest studies had the simplest regular concrete frame with free-form walls», t.d.a (Smithson 2001, p. 110).

[13] «clear that the building’s identity is given by patterns of use and not by ‘design’», t.d.a. (Id.).

[14] «Their shape must not only be able to ‘take’ change, but should imply change», t.d.a. (Smithson 1957, p. 15; Smithson 1970, p. 157).

[15] «the idea was that space and form are given unexpected relations when generated by flows of people rather than as containers of functions», t.d.a. (Crinson 2018, p. 18).

[16] «In classical aesthetic theory the part and the whole were in a finite relationship one with the other, the aesthetic of each being ‘closed’», t.d.a. (Smithson 1957, p. 17; Smithson 1970, p. 157).

[17] «The original colleges were closed communities of individual rooms with a common hall and chapel. The relationship between the individual and the collective was expressed by a complex of in-looking courts, with one point of contact between the rest of the world and the college», t.d.a. (Ibid., p. 16; Ibid., p. 155).

[18] «in modern times more and more teaching is done by the ‘University’ ‑ by the various ‘faculties’, and the relationship with the town has become more open», t.d.a. (Id.).

[19] «must establish a ‘flow’ relationship to the whole pattern of movement of the university and town», t.d.a. (Ibid., p. 157; anche in Smithson 2001, p. 108).

[20] «‘separate’ parts of the complex implies their ultimate linkage, and their detailed aesthetic is one of change», t.d.a. (Ibid., p. 157).

[21] «Smithson are, as it were, always in laboratory», t.d.a. (Smithson/Dunster., p. 7).

[22] L’accezione cui si fa riferimento per il termine complesso: dal latino ciò che è complesso, cum-plexum, «con nodi». Ossia ciò che presenta dei nodi ‑ come un groviglio di fili ‑ difficilmente può essere compreso se non nella complessità e nella stessa interconnessione dei propri intrecci e nelle relazioni che essi istituiscono gli uni rispetto agli altri. Differente il termine complicato, dal latino cum-plicum, «con pieghe». Ciò che presenta della pieghe ‑ come un foglio di carta ‑ e che si presta ad una possibile propria comprensione attraverso l’apertura di tali pieghe che, ‘spiegate’ appunto, consentono di percepire e cogliere l’interezza di quanto osservato. Ciò che è complicato (con pieghe) può dunque essere linearmente ‘spiegato’ (cfr. Ottorino Pianigiani, Dizionario Etimologico della lingua italiana. Roma, Società editrice Dante Alighieri 1907 [riedizione online, etimo.it], s.v. ‘complèsso’; s.v. ‘complicáre’).

[23] «Now form-language can set-up a dialogue between object and users…the user responds by using it well…the object improves: or it is used badly…the object is degraded…the dialogue causes: and it can revive…for there is a secret and permanent life in things solidly established and intensely made, that come alive for other uses, other generations (…).», t.d.a. (Smithson 1973, p. 77).

[24] «requiring a flexible, associative, and many-layered form of reading»; «speaking into the void in full acknowledgment of the indeterminacy of words released into the air. There is something about architecture that cannot be said, something that cannot be transmuted into printed word, focused photograph, built form. (…) All their works (…) were in essence architectural and architecture, in turn, was never just about buildings», t.d.a. (Boyer 2017, p. xiv).

[25] «a ‘space between’ (…) present in more imaginative sense as a ‘space that is left open for interpretation’. This space is often the result of the confrontation of seemingly different types of ideas and concepts, which are set in relation to one another practically unmediated and therefore arouse curiosity. (…) There is always a ‘distance’ between text and project ‑ a space open to one’s own interpretation», t.d.a. (Smithson/Risselada 2017, pp. 260-261).

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