La città nascosta: il cimitero della Chacarita

Federica Conte




Ogni forma d’arte ha provato a raccontare, con i linguaggi più diversi, il rito della vita e inevitabilmente, quello della morte.

La letteratura è stata travolta dalla sfida che l’invisibile passaggio mette in scena nel nostro immaginario.

Le parole ci hanno narrato le vite mute nascoste nel sottosuolo (Foscolo 1926) e dipinto lo spazio che recinge i luoghi della sepoltura (Lee Master 1926); la pittura ne ha trasmesso le infinite sfumature e la scultura catturato l’immutabilità.

Tuttavia l’architettura ha dato forma a qualcosa che nessuno conosce: personifica il ponte tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, offuscandone quel netto confine che li contraddistingue.

Dal cimitero come organismo complesso, ai singoli grandi monumenti nazionali per le vittime di guerra, l’architettura si pone l’obiettivo di mettere in scena un racconto fatto di memoria e oblio, materia e spirito, luci e
ombre: indica all’umanità nuovi percorsi e pensa all’avvenire.

In questo orizzonte così dinamico e complesso, il saggio tratteggerà solo uno dei possibili percorsi sul tema, con particolare riferimento all’ampliamento del Cimitero della Chacarita a Buenos Aires, dove un giovane Clorindo Testa dà voce al silenzio della necropoli contemporanea.

Certo è, che ogni civiltà, a prescindere dal proprio credo, ha elaborato una vera e propria cultura1 a partire dai riti della sepoltura, in tutte le sue configurazioni possibili: è interessante notare come René Girard per arrivare a questa conclusione consideri questa perpetua metamorfosi dell’essere umano sottolineando che non ci sia morto in società che non diventi una grande risorsa della vita. E qui spiega una grande rivoluzione antropologica che porta a vedere l’aspetto chiave, positivo, di questa circostanza: «ciò che è fecondo sul piano culturale, non è la coscienza naturalistica della morte o il desiderio che si ha di fuggire […] ma è la rivelazione della morte come sacro, come potenza infinita, più benevola, in fin dei conti che temibile, più adorabile che terrificante» (Girard 1983).

In questa lettura, l’Architettura costruisce lo spazio della complessità rituale in quanto unica arte capace di dare senso ordinatore agli elementi: dall’archetipo del tumulo2 alle sue più diverse evoluzioni; il templio/sarcofago o l’abitazione come luogo di culto.

I cimiteri si fanno così portatori di un rito di pace e speranza il cui destinatario siamo noi, i viventi, che nella grande foresta della città, incrociamo il nostro destino dicendo «qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura!» (Loos 1972). Nell’assordante rumore della città di Buenos Aires, il silenzio apre una profonda breccia sotto forma di cimitero. Questa invocazione al silenzio «non è che una rivendicazione della parola» (Martí Arís 2002), in questo caso architettonica, al rumore frenetico ed incoerente della grande capitale.

Sicuramente il cimitero più celebre è quello della Recoleta ma la nostra attenzione vuol soffermarsi sul caso di un’altra città nella città: quella della Chacarita. La febbre gialla si diffondeva a macchia d’olio attorno alla capitale argentina, dove ormai la Recoleta e Parque Patricios non erano più sufficienti per seppellire le salme di coloro che continuavano a perdere la vita per la malattia. Così a partire dal 1871, il comune della città di Buenos Aires decretò la costruzione di un nuovo cimitero nel barrio da cui prese poi il nome che oggi conosciamo, quello della Chacarita.

Solo tra il 1920 e il 1960 la popolazione di Buenos Aires passò da un milione di abitanti a quasi tre milioni e nell’arco di mezzo secolo fu necessario
ampliare l’area della nuova necropoli, più di quanto si prospettava all’inizio dell’opera.

L’intervento a cui partecipò l’architetto italo-argentino Clorindo Testa, insieme ad altri architetti tra cui Itala Fulvia Villa, fu solo l’ultimo di una lunga serie determinata dall’urgenza di una delle più tristi parentesi della storia argentina3.

Credo sia necessario però soffermarsi, per un attimo, sulla figura di questo architetto. Provocatorio e dalla grande inventiva, si fa strada nel panorama sudamericano del XX secolo, diventandone una delle figure più discusse e rivoluzionarie. Probabilmente il Banco de Londres y America del Sur e la Biblioteca Nacional di Buenos Aires sono le sue opere più conosciute, tuttavia la sua lunga carriera di architetto oltre che di pittore, ma in generale di artista, oserei dire, gli ha permesso di sperimentare il mondo della costruzione dalla piccola alla grande scala. Ciascuno dei suoi progetti dimostra come i nuovi frammenti, espressione di un linguaggio apparentemente chiassoso e di rottura, si leghino in realtà armonicamente al tessuto ottocentesco della città di Buenos Aires.

Per raccontare l’entusiasmante viaggio nel cimitero della Chacarita, più nello specifico del Sexto Panteón, bisogna tuttavia tornare a qualche anno dopo la sua laurea alla Faculdad de Arquitectura di Buenos Aires, quando il giovanissimo Clorindo Testa entrò a far parte dell’ufficio per il Piano Regolatore della città porteña: qui, in un florido contesto del Dopoguerra, l’architetto venne chiamato a ripensare e reinventare il cimitero moderno.

Dopo aver superato l’ingresso monumentale al cimitero, tra cappelle gentilizie e tombe statuarie, un immenso spazio vuoto si apre dinnanzi a noi, cogliendoci alla sprovvista.

La prosecuzione del cimitero è invisibile: il nostro cammino si interrompe. La città dell’altra vita immaginata dal Maestro prende forma in superficie attraverso un sistema di padiglioni dall’identità particolare: rappresentano l’unico portale di accesso agli inferi, dove creazione e armonia di forma accolgono migliaia di urne.

Il processo progettuale ha lasciato che la città vivente si interrompesse per lasciare il posto a pavimentazioni incrociate e giardini fioriti così che la città dei morti potesse scavare e prendere forma, rinascendo nel sottosuolo.

Il ridisegno nella figura 2 mostra come attraverso un procedimento geometrico, l’area quadrata viene scomposta in più triangoli, come un diamante, dove i grandi portali si posizionano con armonia, intervallati da profondi tagli nel terreno, pareti smussate per contenere i piccoli cambi di livello e pavimentazioni incrociate.

La straordinaria composizione vista dall’alto nasconde però ancora una volta all’occhio del lettore/visitatore il cuore del progetto.

Il viaggio agli inferi inizia come una vera catarsi, non solo emozionale ma fisica, quando scendiamo ai piani inferiori. Le grandi scalinate in cemento si intersecano tra loro: lo spazio, quasi piranesiano nella sua complessità ad infinitezza, consente così sguardi incrociati, dall’esterno all’interno, dandoci una prima visione, filtrata dalle pareti forate, di ciò che si cela nel cuore della terra. Le ringhiere in ferro battuto, dalle geometrie semplici, ci guidano nel nostro viaggio.

Il cemento martellato, ruvido ed impreciso, viene scolpito con decorazioni sintetiche negli spazi di transizione sotterranei, dove i raggi di luce proiettati sui pavimenti scompaiono pian piano con l’avanzare del buio. La pesantezza del cemento si smaterializza nell’atto stesso della costruzione. Testa ha ben chiaro l’insegnamento indiretto di Le Corbusier per cui «Puissent nos bétons si rudes révéler que, sous eux, nos sensibilité sont fines»4.

In questo gioco di sottrazione del suolo, i giardini scavati ben 12 metri rispetto al piano di calpestio vengono pensati come fossero il patio attraverso cui la casa del defunto doveva essere illuminata; la luce gioca un ruolo chiave nella sua contrapposizione al cemento. Nell’idea progettuale è molto forte il riferimento alle catacombe come sistema di sepoltura sotterraneo: se ne modifica però la natura buia e claustrofobica in nuovi
percorsi liberi e luminosi.

È chiaro però che la natura stessa del cimitero metteva sul tavolo da disegno delle questioni che prescindevano dal significato altro che gli spazi avrebbero assunto, ovvero il problema di circolazione dell’aria e degli odori: la sorprendente inventiva del giovane Clorindo non soltanto promosse un doppio sistema di circolazione dell’aria, uno delle urne e l’altro per il percorso del visitatore, ma trasformò i tubi di espulsione esterni in monoliti decorati con bassorilievi, necessari e non casuali all’equilibrio della composizione formale dei padiglioni.

Nel progetto originale, le corti scavate dovevano ospitare delle grandi vasche d’acqua così da riflettersi sul bagliore dei marmi scelti per le celle dei defunti. Tuttavia la proposta in corso d’opera venne abbandonata e il progetto del verde si estese anche nei cortili scavati così che diventassero dei veri e propri giardini pensili.

I grandi tagli nel terreno vennero poi concepiti come delle pareti su cui poggiano grandi mensoloni (vedi fig. 3) quasi come fossero le tacche di un metro che rimarcano la profondità a cui il secondo e ultimo piano interrato porta. I tre diversi livelli del progetto rappresentano essi stessi una rarefazione della materia: il piano dei padiglioni, interpretato come oggetto pieno, viene alleggerito al primo livello sotterraneo, dove la circolazione, per mezzo di corridoi coperti e patii esterni, è permessa ancora sull’intera area. Quando tuttavia si scende al secondo piano, la pienezza del quadrato viene interrotta: tre degli otto triangoli vengono sottratti, riducendo così l’area calpestabile. In questo assottigliarsi degli spazi, l’unico punto di snodo per raggiungere l’area nord da quella sud rimane il centro geometrico del quadrato, leggermente spostato rispetto all’asse verticale, dove la grande scalinata ci permette di risalire ai piani superiori.

In un certo senso, il cuore della città dei morti dà sempre la possibilità di scegliere se proseguire nel percorso labirintico ipogeo o di risalire metaforicamente nel mondo della vita.

I lavori dei cimiteri, come anche quello di Flores, sono opere poco conosciute di questo autore che esplicita qui, più che altrove, la sua sensibilità di artista come qualcosa che convive, se pur a distanza, con la sua capacità espressiva di architetto.

Qui Testa si fa narratore e lettore di un’opera appartenente a un’altra dimensione, dove dare forma all’esperienza trascendentale della morte.

In un certo senso, l’operazione di nascondere il cuore del cimitero in uno spazio ipogeo, riporta ad una scelta stilistica particolare che Ugo Foscolo adoperò per la stesura de I Sepolcri: attraverso l’ipotiposi l’autore descriveva immagini di luoghi apparentemente abbozzati, che potevano essere collocati in ogni luogo. Eppure l’operazione fuori dagli schemi, a mio personale avviso, era proprio quella di stimolare il mondo dell’immaginario del lettore. Testa permette al visitatore, attento o disattendo che sia, di avere difronte a sé, poco lontano dalla città dei morti ottocentesca, solo l’incipit della sua narrazione architettonica.

E qui, dove forse manca la pittura, la scultura e l’architettura danno davvero vita a quel phénomène de nature plastique5 capace di innescare la ricerca del senso poetico dell’arte.

Così il percorso nel caveau diventa uno spazio che supera la necessità della sepoltura: l’immensa città sotterranea si trasforma nella meta di un cammino che va oltre la dimensione del reale.

In questa opera agli albori della sua carriera, Clorindo Testa è stato capace di affrontare in modo eloquente il rapporto tra vita e morte, sottolineando che la memoria non è qualcosa che risiede nella materia, ma in ciò che, attraverso le grandi opere, ogni uomo riesce a trarre con l’immaginazione e il ricordo.

Note

1 «La tomba non è altro che il primo monumento umano eretto intorno alla vittima espiatoria, la culla primigenia delle significazioni, quella più elementare e fondamentale. Non c’è cultura senza tomba, non c’è tomba senza cultura». Tratto dallo scritto di Girard R. (1983), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi edizioni, Milano, pp.108-109.

2 Si veda in tal senso il capitolo contenuto nel testo di Adolph Loos (1972), Parole nel vuoto, Adelphi edizioni, pp.253-255.

3 Il cimitero della Chacarita ha subito dal 1886, data della sua fondazione nell’area che oggi ricade sotto il nome di Parque de los Andes, ad oggi numerosissimi cambiamenti. Nel 1886 non ricadeva neppure sotto il nome che conosciamo oggi, bensì come “Cementerio del Oeste”. Nel 1913 venne ampliato radicalmente e nel 1918 distinta la parte del cimitero protestante inglese da quella tedesca. Nel Secondo Dopoguerra, a partire dal 1958 si costruì il Sexto Panteòn e si registrano aggiunte e demolizioni fino al 2017.

4-5 Le Corbusier, Entretiens Avec Georges Charensol 1962 et Robert Mallet 1951, Fremeaux & Assoc. Fr.

Bibliografia

Archivio della Fondazione Clorindo Testa.
CUADRA M. e CORONA MARTINEZ A. (2000) – “Clorindo Testa architect”, Nai Uitgevers Pub.
DIEZ F. (2013) – “Clorindo Testa”. Summa+, 131 (Settembre).
FOSCOLO U. (1926) – I sepolcri. Liriche scelte. Romeo G. (a cura di), Antonio Trimarchi Editore, Palermo.
GIRARD R. (1983) – Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi edizioni.
LEE MASTER E. (1926) – Antologia di Spoon River, (a cura di) G. Romeo. Antonio Trimarchi Editore, Palermo.
LOOS A. (1972) – Parole nel vuoto. Adelphi edizioni, Milano.
MARTÍ ARÍS C. (2002) – Silenzi eloquenti. Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza. Christian Marinotti edizioni, Milano.
VILLA I. F. (1961) – “Obras en el cementerio de Chacarita”. Nuestra Arquitectura 379, (Giugno).
Clorindo Testa [online]. Disponibile a: https://www.architectural-review.com/essays/reputations/clorindo-testa-1923-2013-2 [Ultimo accesso: 19 Febbraio 2021].
Una Necropoli moderna [online]. Disponibile a: <https://www.chacaritamoderna.com/es/sexto-panteon> [Ultimo accesso: 6 Febbraio 2021].
Ítala Fulvia Villa / Clorindo Testa: Panteón Subterráneo [online]. Disponibile a: <https://www.sosbrutalism.org/cms/19519217> [Ultimo accesso: 29 Dicembre 2020].